L'ultima
intervista
a Giulio Vaggi
di Arnaldo
Casali
Anche se è sempre stato identificato come il “suo” giornale, don Primo Mazzolari non fu mai direttore di
Adesso, quindicinale che nei suoi tredici anni di vita vide avvicendarsi alla direzione tre persone: il primo fu frate Paolo Piombini, che ne fu anche editore (il periodico era pubblicato originariamente dal Centro di studi francescani di Modena). Dopo la morte di don Primo, invece, la direzione fu affidata a Mario Rossi, ex presidente della Giac che con il tempo era diventato uno dei principali animatori del periodico. Ma il direttore “storico” di Adesso fu Giulio Vaggi, ingegnere e braccio destro di don Mazzolari, che ricoprì questo ruolo dal 1951 al 1959, ma che ha vissuto in prima persona tutta la travagliata storia del periodico e ne ha curato, nel 1979, la ristampa fotografiche integrale pubblicata dalle Dehoniane.
Vaggi, che è morto il 26 febbraio 2005 a oltre novant'anni, ci ha raccontato la storia di quell’esperienza indimenticabile
in occasione dell'uscita del film "L'uomo dell'Argine", con la preziosa collaborazione di sua moglie, Giulia Clerici.
Come ha conosciuto don Primo Mazzolari?
“Don Primo l’ho conosciuto sin da bambino, perché era molto amico dei miei genitori. Durante la prima guerra mondiale loro erano a Milano il punto di riferimento dei collaboratori de L’Azione, periodico degli aderenti alla Lega Democratica nazionale, su cui scriveva anche don Primo, che allora aveva 25 anni”.
Perché Mazzolari non volle mai essere direttore di Adesso?
“Il suo progetto era quello di un periodico libero, autonomo e laico. Per questo la redazione fu sempre laica. Non è un caso che Adesso non è nemmeno citato nel suo testamento. Doveva essere una voce che affidasse ad un laicato nuovo il rinnovamento della Chiesa”.
Che ruolo dovevano avere i laici nella Chiesa secondo lui?
“A noi laici don Primo non chiedeva l’ossequio, chiedeva di essere consapevoli della nostra dignità di cristiani e di avere il coraggio di vivere nelle difficoltà della vita come ‘liberi figli di Dio’ per servire Dio servendo l’uomo”.
Per lui era molto importante il concetto di libertà?
“La libertà, non si stancava di dire, è la necessaria e indispensabile premessa della responsabilità e della creatività. Ci insegnava ad amare la Chiesa e ad obbedire alla Parola, e nella sfera dell’opinabile riteneva giusto per noi laici dialogare a testa alta in base alla nostra cultura e le nostre competenze, a tutti i livelli, dall’operaio al capo di stato”.
Il rapporto con il primo direttore di Adesso, padre Piombini, non fu facile, e dopo solo un anno si arrivò alla rottura. Cosa accadde esattamente?
“Non amo ricordare quell’episodio, e neanche don Primo ne parlava mai. Fu un evento molto doloroso, un momento molto oscuro. I problemi creati da padre Placido furono di natura economica, disordini contabili. Ma dopo essere stato allontanato dalla rivista accusò don Primo di aver ricevuto sovvenzioni dai comunisti. Accusa che in seguito ritrattò e di cui chiese perdono, ma che ci costò molto cara”.
Fu così che la redazione si trasferì a Milano e don Primo affidò a lei la direzione.
“Don Primo aveva molta stima di me, ed era anche molto importante, per lui, affidare a un laico la rivista. Per me fu una decisione totalmente inaspettata. In quel periodo ero impegnato come ingegnere alle Edison e avevo una moglie e tre figli, quindi non pensavo certo all’idea di assumermi una responsabilità di quel tipo. Ma don Primo, visto il nostro rapporto, riteneva perfettamente naturale che io lo aiutassi. Fu una decisione “autoritaria” che non contemplava un mio rifiuto. Potevo forse esitare? Più difficile fu dirlo a Giulia...”.
Quale era il suo ruolo, come direttore di Adesso?
“I miei compiti andavano dai più semplici e materiali (correttore di bozze, stampa degli indirizzi) ai più delicati, come garantire la collaborazione del gruppo di redattori, che erano disseminati per tutta l’europa: Franco Bernstein lavorava a Parigi, Mario Rossi in Lussemburgo, Umberto Vivarelli a Vercelli, io a Milano, don Primo a Bozzolo. Inoltre diventai anche proprietario del giornale. Ovviamente tutti scrivevano gratuitamente, e il primato di don Primo era indiscusso, anche se la scaletta degli articoli era concordata insieme. Ho avuto il privilegio di lavorare per tanti anni gomito a gomito con lui, di soffrire con lui, sperare ed anche gioire con lui, perché la gioia non può mancare nell’umanità del cristiano”.
Come nasceva un numero di Adesso?
“Io e don Primo ci vedevamo ogni quindici giorni. Partivo in treno dopo il lavoro verso le 18 con tutto il materiale che avevo raccolto, arrivavo a Bozzolo alle 21 e trovavo la tavola apparecchiata. Dopo cena facevamo le ore piccole sul tavolo della sala. Mettevamo insieme gli articoli, si discuteva, si progettava. Dopo il rito del bicchierino notturno, dormivo nella “stanza del vescovo” e partivo la mattina presto sempre in treno, dove continuavo a lavorare. Quando era possibile approfittavo del sabato per assaporare più a lungo l’atmosfera di quel luogo, che era straordinaria”.
Al giornale collaboravano anche non cattolici e non credenti. Era difficile andare d’accordo?
“Quando ci incontravamo non erano infrequenti discussioni accesissime. Ci univa, però, oltre alla stima e all’amicizia, la passione, il bisogno di essere liberi per cercare una verità, e la sincerità e la schiettezza dei rapporti”.
Come si arrivò alla sospensione delle pubblicazioni nel 1951?
“Per la chiesa degli anni ‘50 il discorso di Adesso era inconcepibile e blasfemo. Eravamo dei “diversi” da tenere lontano, anche perché non mancavamo di criticare lo stesso Papa.
Nell’aprile del 1950 l’Italia giornale diocesano di Milano pubblicò un neretto firmato dal cardinal Schuster in cui
Adesso, “giornale criptocomunista”, veniva criticato e condannato e si vietava ai sacerdoti di collaborare. Con don Primo decidemmo di sospendere le pubblicazioni”.
Schuster, però, curiosamente cambiò idea...
“A giugno di quell’anno ebbi un colloquio con il Cardinale, che mi fece un lungo discorso su
Adesso: “E’ un giornale che fa del bene - disse - ed è un peccato che si sia taciuto”, occorreva che qualcuno continuasse quel discorso e contava su di me perché si riprendessero le pubblicazioni. Poi, prima di salutarmi, mi chiese di chiamare un prete che “controlli la bontà dei vostri discorsi”. Con mia grande sorpresa aggiunse:
“Pensavo per esempio a don Primo Mazzolari”.
A settembre le pubblicazioni ripresero, ma il divieto per i preti non fu mai ritirato e don Primo non firmò più nessun articolo. Per i suoi editoriali usò, in seguito, sempre degli pseudonimi, mentre il suo nome compariva solo in articoli che erano già stati pubblicati in altre riviste”.
Adesso contribuì a preparare il terreno al Concilio Vaticano II...
“Sì ha previsto tante cose: la Chiesa come popolo di dio, il ruolo dei laici, il rapporto con i lontani, l’attenzione ai poveri, la dignità dell’uomo. Se andiamo a leggere i documenti del Concilio ci ritroviamo tanti pensieri di don Primo Mazzolari”.
Eppure, don Primo non fu capito.
“Sì, non fu capito. Lo riconobbe Paolo VI con la sorella e con i parrocchiani. Soffrì moltissimo, e fino all’ultimo, ma devo dire che il rapporto con Giovanni XXIII lo ripagò di tutte le sofferenze che aveva subito”.
Tre mesi dopo la morte di don Primo, nel 1959, si decise di affidare la direzione di Adesso a Mario Rossi. Perché?
“Quando don Primo è morto ci siamo riuniti e abbiamo deciso senza esitazioni di continuare a pubblicare la rivista, di mettere in pratica quello che don Primo ci aveva insegnato. Sono stato io a voler cedere il mio posto a Mario Rossi. Con la morte di don Primo un ciclo si era chiuso ed ero convinto che fosse necessario un rinnovamento, e anche un ringiovanimento (Rossi aveva una decina di anni meno di me). In realtà, da un punto di vista pratico, non cambiò nulla: io continuai a svolgere i miei compiti, e a coordinare il lavoro di redazione ma la figura di riferimento diventò lui, che si occupava anche di scrivere gli editoriali. Il giornale lo pensavamo insieme, senza rivalità né attriti, perché eravamo molto amici”.
Adesso è nato e sopravvissuto sotto il pontificato di Pio XII e ha chiuso le pubblicazioni nel 1962, sotto il pontificato di Giovanni XXIII e l’episcopato di Giovan Battista Montini, i due papi più progressisti del secolo. Non è paradossale?
“Non è stato certo Giovanni XXIII a volere la chiusura di Adesso. Ma c’era un’autorità molto decisa. C’erano tutti i vescovi della Val Padana che non erano d’accordo con il messaggio di don Primo, che noi seguivamo.
Adesso era un giornale troppo libero, troppo antigerarchico. Non sono stati motivi di fede che hanno portato alla condanna definitiva, ma motivi politici che la gerarchia ha fatto propri. Ci fu l’intervento pesante del Sant’Uffizio: avrebbero voluto un giornale controllato dall’alto, ma il nostro impegno era quello di continuare sulla linea di don Primo. Non volevamo rinunciare alle nostre idee e piegare la testa e abbiamo preferito tenere la testa alta e chiudere il giornale”
Crede che oggi, a distanza di quarantacinque anni, don Primo sia stato sufficientemente rivalutato e compreso dalla Chiesa?
“In tutto questo tempo sono stati scritti molti libri e organizzati convegni, anche grazie all’opera della Fondazione. Sì, penso che oggi i tempi sono cambiati e a don Primo siano stati riconosciuti i meriti da tutti.
E’ il ruolo del laico che non è stato ancora compreso. Non mi sembra che oggi, specie in Italia, il ruolo dei laici nella chiesa sia migliorato, anzi, mi sembra che si tenda a rifugiarsi nei preti, cui si chiedono aiuto e benedizione. Manca il concetto dell’obbedienza al Vangelo, manca quel fermento di spiritualità che c’era allora”.
Negli ultimi quarant’anni sono stati scritti, su Adesso, decine di studi. Sono state persino ristampate, integralmente, tutte le annate, e la Fondazione pubblica un suo periodico. Non avete mai pensato di farlo rinascere?
“No. La chiusura di Adesso è stata troppo traumatica per chi ci lavorava. Abbiamo tutti lavorato e scritto su altre testate di questo genere, ma di riprendere
Adesso, no, non ci abbiamo mai pensato. Ma il progetto di Adesso, quello di una visione ‘aperta’ del mondo, quello di un rinnovamento del laicato e della Chiesa non è finito, è un progetto da mettere in pratica anche oggi...”.
(Giugno 2004 - da
"Adesso"
n.31)