UN VIAGGIO CHIAMATO AMORE

 

di Arnaldo Casali

 

Michele Placido, alla sua quinta opera da regista ha deciso di raccontare la vicenda d’amore tra la scrittrice Sibilla Aleramo e il poeta Dino Campana. Una storia passionale, “totale”, folle, ricostruita attraverso due libri (entrambi pubblicati dalla Feltrinelli): “Una donna”, romanzo della Aleramo che – uscito nel primi anni del ‘900 – divenne il manifesto del femminismo italiano, e “Un viaggio chiamato amore”, epistolario dei due artisti.

Placido raccoglie la sfida “impossibile” di raccontare, senza retorica, temi quali l’amore, la poesia, la passione e la follia, ci riesce e dimostra di essere uno dei pochissimi registi italiani che fanno  film perché hanno una storia da raccontare, senza chiudersi in cliché da commedia generazionale e/o nostalgica o negli intellettualismi snob di tanti suoi colleghi.

In dodici anni è passato dalla denuncia sociale (“Pummarò”) al post-neorealismo de “Le amiche del cuore” (con il quale lanciò Asia Argento), dall’impegno civile di “Un eroe borghese” al delicato affresco storico e politico, di “Del perduto amore” (col quale lanciò, questa volta, Giovanna Mezzogiorno, per tanti anni fidanzata proprio con Accorsi).

Quando vuole girare un film Placido cerca una bella storia, non se la inventa come invece tutti i suoi colleghi sembrano credere costretti a fare, malati di quella sindrome da “artista a tutto tondo” (alcuni la chiamano da Chaplin, Francesco Salvi da “automobilista”) che nel nostro paese ha prodotto figure geniali come Moretti e Benigni, è vero, ma anche ‘degenerazioni’ come Panariello e Ceccherini.

Placido se fa un film da regista è perché vuole fare il regista, come negli USA fa Redford, come in Italia De Sica, o in tempi più recenti Ricky Tognazzi.

In tanti dovrebbero prendere esempio da lui, a cominciare da Ligabue che – lontano chilometri dal cantante-attore-regista, era partito benissimo con un capolavoro come “Radiofreccia , ma poi  si è subito affossato con “Dazeroadieci” proprio per l’incapacità  - comune a quasi tutti i nostri cineasti - di guardare “oltre” il proprio orticello autobiografico.

Il cinema di Placido, al di là dei giudizio tecnico-critico, è indubbiamente un cinema ad ampio respiro, che sa essere originale senza essere “estroso”, didattico senza essere piatto, poetico senza essere pretestuoso.

Accorsi, troppo strapazzato negli ultimi anni da ruoli passionali ed estremi (ma spesso anche banalissimi e stereotipati, vedi “L’ultimo bacio”, “Le fate ignoranti”, “Santa Maradona  ma anche la macchietta de “La stanza del figlio”) diretto con mano ferma e senza le inutili sbavature teatrali che hanno caratterizzato negli ultimi anni la sua recitazione, conferma di essere uno dei migliori attori della sua generazione. Laura Morante, da parte sua, oramai non deve dimostrare più niente, ma sicuramente regala al suo curriculum un ruolo insolitamente passionale ed erotico.

Alessandro Haber – vecchio amico di Placido – compare con un piccolo ruolo, dopo una lunga assenza dal grande schermo.

 

 

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