Anche a te una spada trafiggerà l’anima.
Queste parole risuonavano nella testa di Alessandro assordandolo; non gli davano pace.
Enrichetta era distesa sul letto, completamente cieca, senza più forze. Impiegava le ultime energie pregando e cercando di consolare chi gli era vicino. Passava in rassegna i figli, li salutava uno ad uno, li accarezzava, gli faceva coraggio. Tutti tranne Matilde, la più piccola.
"L’ho già donata a Dio" aveva detto.
Non voleva che venisse al suo capezzale. Si sarebbe impressionata, la bambina, a vedere la madre ridotta in quello stato.
Chiedeva se fosse arrivato il giorno di natale; sentiva che sarebbe morta quel giorno.
Enrichetta moriva da santa, pensava Alessandro. Moriva da santa.
E lui dannato davanti a lei, inginocchiato ai piedi del letto con la testa tra le mani. Immobile e freddo come pietra, con quelle parole che gli tuonavano nella testa.
Anche a te una spada trafiggerà l’anima.
Era la promessa fatta a Maria nel momento più felice della sua vita. La nascita di Gesù.
E’ la promessa di dolore che Dio fa ad ognuno di noi.
Anche a te una spada trafiggerà l’anima.
Sua madre Giulia camminava su e giù per la stanza intonando sgarbatamente preghiere ad alta voce.
Salve Regina vita dulcedo et spes nostra salve a te clamamus exules filii Hevae
a te sospiramus gementes et flentes in hac lacrimarum valle...
"Dammi la mano, Alessandro".
Allungò la mano e la diede alla moglie che la strinse con tutte le forze che le erano rimaste.
Non piangeva. Stava zitto. Immobile. Teneva la mano fragile di Enrichetta che era un fiore appassito troppo presto.
Era raggelato nella rabbia e nel dolore, in quel dolore immane che provava nel domandarsi
Perché ?
Perché quel Dio buono, quel Dio padre permetteva tutto questo ? Perché gli portava via l’amore della sua vita ?
Non riusciva a rendersi conto pienamente di quello che stava succedendo. Non riusciva a credere che la stava perdendo realmente. Cosa sarebbe stato di lui poi ? Cosa avrebbe fatto ?
Perché? si ripeteva.
Perché la sofferenza ? Perché il dolore ? Perché la morte ?
Eppure Dio non aveva risparmiato tutto ciò neanche a suo figlio. Anche lui aveva sofferto il dolore e la morte. Anche sua madre l’aveva visto morire tra atroci sofferenze.
Perché ?
Perché se Dio è buono e onnipotente ci fa soffrire? Perché se Dio è buono e onnipotente permette il male?
Forse Dio è buono ma non è onnipotente?
O forse Dio è onnipotente ma non è buono?
O forse Dio non è né buono né onnipotente, e allora che senso ha pregarlo?
Allora si sentiva precipitare in un baratro. In un mistero troppo grande perché la mente umana possa penetrarlo. Si sentiva perduto di fronte a quella domanda come davanti all’infinito e all’eternità. Affogava, in quella domanda. Gli mancava il respiro.
La mano di Enrichetta allentò la presa sulla sua. E cadde sul materasso.
Alessandro guardò la moglie. Tutta la sofferenza era scomparsa dal suo volto. Ora sembrava serena. Anche le rughe si erano sciolte e il suo volto sembrava fresco come quello di una ragazzina.
Scoppiò finalmente a piangere ; abbracciò il corpo di Enrichetta e mentre lo stringeva urlava di singhiozzi.
"No!" ripeteva gridando fra le lacrime, sciogliendosi in un lamento continuato.
Daniele, con l’orgoglio e l’entusiasmo di chi ha appena fatto lo scoop della sua vita andò baldanzoso dal fratello Dino.
"Vuoi sapere il segreto di Babbo Natale?".
Dino aveva un anno meno del fratello, ma era molto più ingenuo e, da sempre, più sognatore. Una volta Daniele era riuscito persino a fargli credere di essere un extraterrestre proveniente dal pianeta Gecson che si fingeva suo fratello per osservare da vicino l’umanità terrestre.
"Hai scoperto il segreto di Babbo Natale?".
Il Segreto di Babbo Natale era una delle verità più preziose e celate della sapienza umana.
A chi lo scopriva Babbo Natale non portava più i regali, e questo era terribile. Ma a chi lo scopriva erano svelati anche i tanti misteri che circondavano questa misteriosa figura: chi era in realtà Babbo Natale, dove abitava, quanti anni aveva, dove comprava tutti i regali, e si sarebbero spiegati anche i tanti eterni interrogativi come ad esempio: come faceva Babbo Natale a portare i regali a tutti i bambini del mondo nella stessa notte? Come faceva Babbo Natale a sapere se ti eri comportato bene o meno? Quando e come leggeva le letterine? E molte, molte altre cose.
Scoprire il suo segreto, nonostante i rischi, era un desiderio implacabile. Un desiderio che ogni bambino aveva sin dalla sua nascita. Ma era un segreto la cui conoscenza era interdetta a tutti i bambini. Solo i grandi lo conoscevano, nessun bambino poteva, per nessun motivo, osare penetrare quel mistero; venire a conoscenza di quel segreto significava essere radiato dalla categoria e diventare un grande.
Possibile che non c’era modo di non far sapere a Babbo Natale che avevi scoperto il suo segreto?
I genitori dicevano che no, non era possibile. D’altra parte loro ci erano passati prima di te, ed era meglio fidarsi.
Come potesse, poi, Babbo Natale, essere così onnisciente, dove si nascondesse la spia che gli riferiva tutto, questo era un altro dei tanti misteri.
"Dimmelo".
"Sei sicuro?".
"Sì, dai, dimmelo".
"Guarda che ci rimarrai malissimo".
"E perché dovrei? Dai, dimmelo, su!".
"E va bene - disse infine Daniele, trionfante - Babbo Natale non esiste!".
"Che cretinata!" rispose Dino ridendo.
"Guarda che è vero. Babbo Natale sono mamma e papà. Sono loro che portano i regali".
Dino rimase ammutolito. No, non poteva essere vero.
"No! Non è vero! Non è vero!".
"E allora - rispose Daniele con ancora maggiore sadismo ed esultanza - chiedilo a mamma e papà, se non è vero!".
Purtroppo con quell’assurda ipotesi si spiegavano tutti i misteri! Ma non poteva essere vero.
Dino corse piangendo dalla mamma.
"Mamma! E’ vero che Babbo Natale esiste? Che non è vero che siete voi! Diglielo a Daniele!".
La madre lo guardò con compassione. Con la triste tenerezza di chi deve dare una brutta notizia. Aveva un espressione simile quando gli disse che il nonno era morto.
"Ha ragione Daniele" disse la mamma.
E tuonò nel cervello del piccolo Dino la risata terribile di Daniele.
"E... e la Befana?".
(ultima speranza a cui aggrapparsi, ma già sapeva che...)
"La stessa cosa.
Ma vedrai che te li portano lo stesso i regali, anche se hai scoperto il segreto".
Non era vero. Da quell’anno i genitori gli fecero i regali per natale e per la befana. Ma Babbo Natale e la Befana non portarono più i regali a Dino.
Appena finirono le vacanze di natale Dino si confrontò a scuola con i compagni, e tutti, più o meno, avevano avuto la medesima rivelazione.
Dopo qualche mese Dino e Daniele andarono dalla cuginetta Serena, che aveva tre anni meno di loro, e gli fecero la grande rivelazione. E la fecero piangere per due giorni.
Catherine Peytel passava il natale con i suoi due figli, Rafael e Daniel, nel suo piccolo appartamentino parigino di quattro stanze.
Aveva ricevuto due biglietti di auguri, e per i suoi figli aveva comprato due torroni come regali, perché di più non poteva permettersi.
Avrebbero telefonato in Inghilterra, dove gli altri due figli erano andati a passare il natale con il padre, un batterista nero di Londra, poi sarebbero andati in metropolitana alla messa nella chiesa del convento di Rita, la suora italiana amica di Chaterine.
Era un buon natale, tutto sommato.
C'era la luna piena nel cielo di Vevey, quel Sabato sera.
Era la notte più magica dell’anno.
Oona gli rimboccava le coperte e accarezzava dolcemente la fronte rugosa del vecchio marito.
Aveva cinquantadue anni, Oona, e Charlie ottantotto.
Era giunta la fine, lo sapevano entrambi; le scene erano state girate tutte, il montaggio era completo. I titoli di coda erano pronti a scorrere su quella vita.
E tutto il mondo avrebbe pianto per quella fine. Tutto il mondo avrebbe pianto quando Charlot fosse uscito di scena per sempre.
C’era il grande albero addobbato in sala, e ai suoi piedi tanti pacchi per figli e nipoti. Erano dieci i suoi figli, i nipoti non li contava più.
Charlie era sotto le coperte, e sudava. Oona gli cambiava il panno umido sulla fronte e gli stringeva la mano molle.
Lo baciava teneramente e gli sussurrava ti amo. Allora Charlie accennava un sorriso.
"Mi porti un bicchiere d’acqua?" disse fiocamente.
Oona si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza.
Restò solo.
Stava morendo, lo sapeva. Che buffo, era nato nel periodo di Pasqua e moriva la notte di natale.
Non aveva rimpianti, Charlie. La sua era stata una vita lunga, intensa e bellissima. Una vita vissuta pienamente. Una vita che valeva la pena aver vissuto. Valeva la pena di morire per quella vita.
Si guardava attorno. Guardò l’orologio; scorse lo specchio; fissò il lampadario.
Era tutto così buio. Troppo buio.
Era così fermo. Così immobile. Erano tre giorni che non si alzava dal letto.
Da quant’è che non faceva un film?
Dieci anni. Erano passati dieci anni dal suo ultimo film, quello con Marlon Brando e Sophia Loren.
Il suo unico film a colori.
Erano stati dieci anni belli. Sereni. Tante cose erano accadute in quei dieci anni.
I film di Geraldine, l’Oscar alla carriera.
L’Oscar alla carriera.
Finalmente l’America gli aveva chiesto il perdono.
Che momento quello. Rivedere in due minuti tutti i momenti più belli della sua carriera.
Il Grande Dittatore, Il Monello, Tempi moderni, La febbre dell’oro, e le comiche Mutual, quelle Keystone... tutte accompagnate dalle melodie più allegre, dolci, struggenti scritte da lui.
E riprendere in mano quella statuetta dorata dopo più di quarant’anni.
Poi avevano messo la sua mattonella sulla strada delle Stelle, a Hollywood. E l’anno dopo gli avevano dato un altro Oscar, con il pretesto che Luci della Città non era mai uscito, prima di allora, a Los Angeles e che quindi era premiabile.
Dopo tanti pretesti per non premiarlo adesso trovavano dei pretesti per poterlo premiare.
L’America gli aveva chiesto perdono. Ma quello che gli aveva fatto non si poteva dimenticare.
Ricordava ancora le grida - Comunista! - gli insulti. Mio Dio, quanto tempo che era passato.
Più di vent’anni.
E vent’anni ci aveva messo l’America per chiedergli perdono. Ma vent’anni sono troppi per poter ricucire una ferita così profonda.
L’avevano cacciato. Esiliato. L’avevano espulso.
Gli avevano rifiutato il permesso di soggiorno, a lui, inglese, dopo quarant’anni che viveva in America; dopo decine e decine di film che avevano dato lustro e grandezza al cinema americano.
Lo odiavano.
Era iniziato tutto ai tempi del Grande Dittatore. Se i fascisti e i nazisti lo avevano bandito dai loro paesi, anche in America aveva cominciato ad attirarsi le antipatie dei conservatori. Infine lo avevano accusato di essere comunista. Perché i suoi film erano troppo amati a Mosca.
E non c’è posto in America per un comunista, come aveva detto il senatore McCarthy, iniziando la nuova caccia alle streghe.
Ma Charlie non era amato solo a Mosca. Tutto il mondo adorava Charlot.
Il Grande Dittatore.
Era stato il suo primo film sonoro. L’addio a Charlot, il vagabondo.
Ricordava ancora il giorno in cui l’aveva creato, il vagabondo, frugando tra i magazzini della Keystone.
Aveva messo insieme quella giacchetta, quella bombetta, quel bastone, e infine quei baffetti neri che cambiavano completamente il suo volto tanto da renderlo quasi irriconoscibile al pubblico quando non li indossava.
Furono quei baffetti che lo facevano assomigliare così tanto al grande dittatore tedesco - glie lo fece notare Douglas Fairbanks? - che gli diedero l’idea di interpretare una parodia di Hitler.
Era in cerca di idee quella mattina in cui inventò il Vagabondo.
Fino ad allora il suo personaggio più riuscito era quello del vecchio ubriacone, che l’aveva reso famoso in teatro.
Ora, entrando dentro quei pantaloni larghi e quelle scarpe sfondate stava nascendo dentro di lui un nuovo personaggio. Povero e dignitoso. Tenero e violento. Egoista e filantropo. Puro e donnaiolo.
Mentre creava, un elemento alla volta, quel costume, cominciava a sentire la personalità dell’ometto, gli venivano spontanei atteggiamenti, espressioni, camminata.
Giunto sul set il personaggio era pronto.
Ed era così che scriveva i suoi film, Charlie. Arrivava sul set senza un’idea in testa. E lasciava che le scenografie, i personaggi, le situazioni improvvisate e le piccole trovate gli dessero uno spunto per la storia.
Partiva magari da una semplice scenetta in un ristorante per costruire, a ritroso, la storia di un emigrante.
Rigirava le scene decine e decine di volte, e ogni volta la scena era diversa. Perché a differenza di qualsiasi altro regista al mondo, Charlie non girava una scena finché non veniva esattamente come l’aveva pensata, no. Lui girava una scena finché non la trovava bella ed efficace, lasciando che si evolvesse da sola. Nemmeno lui sapeva come doveva diventare.
E da ogni scena prendeva lo spunto per una storia. Ogni scena erano spunti nuovi trovati per caso e spunti vecchi gettati via. Spesso la scena definitiva non aveva più niente a che fare con la prima girata.
Certo era un sistema che disperdeva soldi e tempo. Centinaia di metri di pellicola scartati, e decine di idee buttate via, ma a Charlie non importava. L’importante era il risultato finale. L’importante era che fosse perfetto.
Era un lavoro che si fondava tutto sull’ispirazione diretta. Sul set. Anche le scenografie, le ambientazioni lo ispiravano. Non era il set che si adeguava alla sue idee. Erano le sue idee che prendevano spunto dal set.
Era faticosissimo e difficile, specie quando non arrivava l’ispirazione.
Poteva stare giorni, settimane, addirittura mesi con il set montato e gli attori fermi ad aspettare mentre lui cercava un’idea che non voleva arrivare. Era difficile certo, ma era così stimolante!
Quando si era messo anche lui a scrivere le sceneggiature a tavolino con tutte le battute, i risultati gli sembrava che avessero perso tutta la loro efficacia. Era così freddo non poter improvvisare, dover scrivere tutto su un copione da dover far approvare poi alla censura. Era terribilmente frustrante e gli sembrava che tutto il lavoro avesse perso la magia di un tempo.
Monsieur Verdoux. Il suo film più cattivo e graffiante, il più provocatorio. L’aveva preso di mira, la censura, quel film, glie l’aveva contestato tutto, da capo a fondo, battuta per battuta.
Quello era stato il primo film senza Charlot dai tempi di...
Come si chiamava? Per guadagnarsi la vita; il suo primo film in assoluto. La sua prima interpretazione stampata su pellicola.
Era il 1914.
In quel primo film interpretava il ruolo di un signorotto con monocolo e cappello a cilindro, uno dei caratteri tipici delle comiche di quei tempi.
Lo aveva assunto Mack Sennett dopo averlo visto nello spettacolo di Fred Karno, durante la sua turné americana.
Che emozione recitare su un set cinematografico, con le scenografie di cartone, i soffitti di vetro per far entrare la luce solare, e quelle macchine di legno con la manovella girata a mano.
Che emozione quando si rivide la prima volta sul telone bianco, in un piccolo cinemetto con le sedie di legno e il pianista davanti allo schermo che improvvisava melodie cercando di seguire il ritmo dell’azione.
Quando i suoi film si erano fatti più importanti e impegnativi lui stesso ne aveva scritto la colonna sonora, che un’orchestra eseguiva nei grandi teatri dove venivano proiettati i suoi film.
Certo i tempi cambiavano, e Charlie doveva adeguarsi.
Arrivò il sonoro. Un’invenzione inutile, pensava Charlie, che non avrebbe mai preso piede. Il cinema con le parole perdeva tutto il suo fascino. Non aveva ragione di esistere, perché per sentire qualcuno che parla c’era già il teatro, ed era molto più efficace.
Il sonoro avrebbe uccideva la magia del cinema, lo rendeva una brutta copia del teatro.
Il volto, le espressioni, la mimica di Charlot erano universali. Tutto il mondo le comprendeva. La pantomima era sempre stata la sua vocazione. Le parole separano gli uomini dai tempi della torre di Babele.
Per Charlie un attore che parlava in un film era come un ballerino che raccontasse le sue evoluzioni durante la danza.
Quanti attori furono uccisi dal sonoro! E anche Charlie lo rifiutò finche poté. Girò ben due film ancora muti quando ormai in tutto il mondo si era affermata la tecnica del sonoro e nessuno si sarebbe sognato di non sfruttarla.
Poi era arrivato il colore; Via col vento era uscito un anno prima del Grande Dittatore, il suo primo film sonoro. E aveva inaugurato il Technicolor.
E poi erano arrivati i registi sperimentali, che avevano per motto frasi come quella che disse quel Godard:
"La macchina da presa va sempre messa là dove lo spettatore non si aspetterebbe mai che vada".
Tutte idiozie, pensava Charlie, la cinepresa serve solo a riprendere la scena. E’ l’attore che fa il film, non l’inquadratura.
Charlie era cresciuto in teatro e anche dopo sessant’anni di cinema non dimenticava che la cinepresa era solo uno strumento nelle mani dell’attore per raggiungere gli spettatori di tutti i paesi e di tutti i tempi. Charlie era un attore, un regista e un produttore cinematografico ma non aveva mai dimenticato il suo primo amore.
Il teatro... una meraviglia abbandonata troppo presto.
Il contatto con il pubblico, le quinte, i fischi e le ovazioni...
Ricordava bene il suo esordio in teatro. Era stato proprio il giorno di natale, di settantasette anni prima.
Aveva undici anni e interpretava la parte di un gatto.
I genitori erano entrambi attori. Il padre era morto quando lui era ancora piccolo, e la madre presto si ammalò ed egli stesso dovette sostituirla una sera che non aveva voce.
Cantava una canzone. La gente cominciò ad applaudirlo e a tirargli delle monetine sul palco. Lui smise di cantare e si mise a raccogliere le monetine. E non riprese a cantare finché non ebbe finito di raccoglierle tutte.
In teatro aveva conosciuto Henriette, il suo primo grande amore.
Quando era partito per l’America le aveva detto: "Aspettami, al mio ritorno ci sposeremo".
Ma lei non aspettò. Gli mandò una lettera in America annunciandogli che si era sposata.
Poi si sposò anche lui. Si sposò quattro volte.
Come si chiamava la sua prima moglie? Quella stupida troietta da due soldi che si fece mettere incinta per incastrarlo e poi, dopo il divorzio, tentò di fargli sequestrare i negativi del Monello.
Mildred. Mildred Harris. L’aveva conosciuta ad una festa in casa di Douglas Fairbanks.
Poi c’era stata Lita Gray, e poi Paulette. L’unica vera amica, tra le sue mogli. A parte Oona, ovviamente.
Oona era la donna della sua vita.
Quando si erano sposati lui aveva cinquantaquattro anni e lei diciotto, e avevano fatto scandalo.
Ora stavano insieme da più di vent’anni.
Era l’unica vera moglie che aveva avuto, le altre erano state solo dei goffi tentativi di trovare lei.
Lui l’aveva sempre cercata, da molto prima che lei nascesse.
Oona tornò con il bicchiere d’acqua in mano e tenere parole sulle labbra.
Ma Charlie, uno dei più grandi artisti del secolo, aveva avuto una vita lunga e intensa e, ormai stanco, si era addormentato.
Per Barbara Babbo Natale era una figura familiare. Ogni anno, la sera della vigilia, quando si avvicinava mezzanotte, scendeva dal camino di casa di zia Livia e consegnava i regali a tutti i presenti. Si fermava un momentino a dire due parole e ripartiva subito, uscendo dalla porta.
Era una figura simpatica. Un vecchietto con una lunga barba grigia e un sacco di rughe in faccia. Aveva una grande pancia e camminava sempre un po’ gobbo.
Ma col passare degli anni Barbara cominciò a notare una cosa strana. Che, guarda caso, quando arrivava Babbo Natale il cugino Arnaldo non c’era mai. O stava al bagno, o era uscito, o era andato a una festa. Fatto sta che non era mai riuscita a vedere il cugino e Babbo Natale insieme. Una volta, poi, si accorse che dal cappuccio rosso del vecchietto spuntavano dei capelli castani che avevano proprio lo stesso taglio di quelli di Arnaldo e con quella faccia rugosa e (cominciò a notare) un po’ gommosa, le sue mani era lisce come quelle di un ragazzino.
Tutto questo Barbara lo notò quando aveva sette anni, e quando lo fece notare anche a Babbo Natale, un anno, il detto Babbo ci restò piuttosto male e se ne andò camuffando la voce e borbottando.
Poi, guarda caso, ricomparve dal nulla Arnaldo e Barbara cominciò a tartassarlo finché lui non ammise di essere un aiutante di Babbo Natale, che non poteva girarsi tutte le case del mondo in una notte, le fece promettere però che non avrebbe detto niente a nessuno, perché se il titolare avesse scoperto che qualcuno conosceva questo segreto avrebbe licenziato in tronco l’inetto Arnaldo.
Ovviamente Barbara svelò il segreto a tutti gli amici, o almeno a quelli più intimi.
Lina era infagottata sotto le coperte, chiusa nella sua camera buia. Suo figlio le aveva mandato un mazzo di fiori con gli auguri di natale due giorni prima. Non aveva idea di dove fosse andato a trascorrere il natale con la sua famiglia.
Sopra il suo comodino c’era una statuetta della madonna con un piccolo lumino acceso che stendeva una fioca luce sul bicchiere d’acqua e sulla scatola di pasticche.
Fuori, nel corridoio silenzioso c’era un piccolo alberello di natale, di sotto, nel salone, un gruppetto di vecchietti giocava noiosamente a carte sul tavolinetto. Olga era sulla sua solita sedia che ripeteva lamenti e cantilene e parlava da sola. Vicino al termosifone c’era uno squallido presepietto fatto dai pochi infermieri che erano rimasti all’ospizio durante le feste.
Liliana sulla sua sedia a rotelle leggeva Confidenze. Un infermiere si trastullava con un giochetto elettronico, un altro parlava al cellulare e faceva gli auguri ad amici e parenti, un altro ancora, insieme ad un altro patetico gruppetto formato da Ernesto, Antonio e Rosaria giocava a tombola.
Franca la cieca litigava furiosamente con Rosanna e Berta che la chiamavano la matta e la cieca di Sorrento e Fernando la difendeva e urlava insulti alle due e le minacciava di ammazzarle se non la finivano.
Alcuni stavano con i parenti. Pochi di essi ci parlavano. La maggior parte stavano lì ad osservarli mentre quelli guardavano l’orologio ogni cinque minuti. Si guardavano annoiati padre e figlia, nonna e nipote, senza parlare. Aspettavano soltanto che fosse il momento di andare, i visitatori, non vedevano l’ora che finisse il momento del dovere e arrivasse finalmente il momento di liberarsi da quel supplizio, di uscire da quel luogo orrendo e buttarsi nelle luci della città e delle feste.
E Augusta, ogni persona che le passava davanti, ogni visitatore che andava a trovare i suoi parenti, Augusta gli diceva ripetendolo come una cantilena "dammi un bacio dammi un bacio dammi un bacio" e cercava di alzarsi dalla sedia a cui l’avevano legata, si sforzava di sollevarsi, si sporgeva quanto più le riusciva verso quella persona finché non otteneva quanto richiesto.
Parecchi la guardavano incuriositi, infastiditi o spaventati, e si affrettavano ad allontanarsi. Ma alcuni le concedevano quello che lei voleva, e lei era tutta contenta, e sorrideva.
Gli altri, quelli che non avevano niente da fare, stavano sul divano davanti alla televisione. Qualcuno dormiva, qualcuno si lamentava, qualcuno guardava Rita dalla Chiesa.
Lina si rigirò sul letto e cercò di dormire, ma non riusciva a prendere sonno.
Cosa ci faceva in quel posto? E come si era ridotta, lei stessa, a dormire alle tre del pomeriggio il giorno di natale?
Pensava a quanto era bello il natale una volta. Quando era bambina, e scriveva in bella calligrafia la sua lettera a Santa Lucia, e gli lasciava il latte e un arancia sul tavolinetto. E la mattina il latte era bevuto e dell’arancia non c’erano che le bucce, e sotto l’albero addobbato con candele e mandarini c’erano tanti pacchi pieni di balocchi. E se non c’erano si andava in piazza a bruciare la vecchia.
Pensava a quando era ancora vivo suo marito, e la sera c’era il cenone con tutta la grande famiglia, e poi la messa di mezzanotte nella grande chiesa densa di incenso e cori d’angeli, e a notte fonda lei e Luigi mettevano i pacchi sotto l’albero e facevano sparire latte e mandarini, e la mattina i bambini correvano a svegliarli che era passato Gesù bambino.
Ora era in quel posto squallido e triste da tre anni, dimenticata da tutti, senza più amici e senza più parenti. E nemmeno una messa, perché in quel posto erano quattro mesi che un prete non metteva piede.
Si rigirò ancora sul letto, chiuse gli occhi; in quel buio silenzioso si sentiva come in prigione. Era prigioniera della vita, condannata all’ergastolo. Si sentiva stanca, stanca di vivere, ma non riusciva nemmeno a prendere sonno.
Ad un tratto sentì suonare il campanello. Qualcuno andò ad aprire. Sentì dei passi, delle voci provenire dall’ingresso.
Si girò ad ascoltare, si sollevò dal letto. Erano voci allegre, festose. Improvvisamente sembrava che quel posto si fosse risvegliato dal mortorio e dall’apatia che vi regnava.
Aprì la porta della sua stanza e scese le scale con un’ansia sempre crescente. Si affacciò sul salone e vide don Luca insieme a dei giovani seminaristi e ad altri ragazzi. Avevano una chitarra e ridevano e scherzavano con tutti.
Lina guardava perplessa; improvvisamente Luca la vide e le corse incontro. La abbracciò e la baciò sulle guance. "Come stai, Lina?" disse con la voce piena di allegria.
Don Luca celebrò la messa per loro. E cantò e fece cantare tutti.
Scherzava con ognuno di loro e raccontava barzellette simpaticissime. Poi accese lo stereo e fece ballare tutti quanti, anche quelli sulla carrozzella, spostandola per il salone, anche Lina. I ragazzi che accompagnavano Luca avevano preparato dei regalini per tutti e Lina ricevette un alberello in pasta di pane.
Si sentiva improvvisamente ringiovanita; le era tornata la voglia di ridere, di danzare, di parlare, di divertirsi. Le era tornata la voglia di vivere.
Non ricordava più da quanto tempo non si divertiva tanto. "Che bel natale! Che bel natale!" non faceva che ripetere a tutti. Aveva le lacrime agli occhi; improvvisamente, anche se solo per due ore, la vita era tornata ad essere una cosa bella.
Passò davanti ad un grande cinema multisala. C’erano cartelli pubblicitari enormi con scritto: Il film di natale.
Spesso uscivano film appositamente ambientati in periodo natalizio che andavano da Per amore solo per amore a Vacanze di Natale. Da La storia di Babbo Natale a Un magico natale. E ce ne erano molti, molti altri. Ogni anno ne uscivano almeno un paio.
Isabella li conosceva tutti, i titoli, e anche le locandine. Ma solo quello, niente della trama.
Se la inventava lei la trama, passeggiando e fantasticando su quei titoli e quelle foto, e ne inventava di storie natalizie.
Non ricordava da quanto tempo non andava al cinema, Isabella.
Non ricordava nemmeno se c’era mai stata, al cinema.
Kate odiava il natale. Odiava l’allegria stampata sulle facce di tutti. Odiava i festoni, odiava i regali, odiava i canti e odiava gli auguri. Soprattutto odiava Babbo Natale.
Per lei il giorno di natale era il più triste di tutto l'anno.
Quando era bambina il padre era sparito la notte di natale.
Nessuno aveva idea di dove fosse finito. Fino a quel pomeriggio era stato con loro, sembrava fosse tranquillo, sereno. Sembrava che tutto andasse bene. Poi era uscito, poco dopo cena, e non era più tornato a casa. Quella notte la madre di Kate chiamò la polizia e denunciò la scomparsa.
Qualche giorno dopo notarono una puzza sempre più forte provenire dal camino. Pensarono che qualche animale doveva essere finito dentro la cappa, e chiamarono lo spazzacamino.
Quello uscì dal comignolo, bianco in faccia e tutto tremante; disse che bisognava chiamare subito l’ambulanza e i pompieri.
Tirarono fuori da quel comignolo il cadavere di un uomo vestito da Babbo Natale.
Era il padre di Kate. Voleva farle una sorpresa e scendere dal camino a mezzanotte. Ma era rimasto incastrato nella cappa e non ne era più uscito.
Quel giorno Kate scoprì che Babbo Natale non esiste.
Kevin si svegliò di soprassalto sul grande letto della soffitta. L’avevano mandato lassù la sera prima per punirlo degli insulti che aveva rivolto al fratello.
Erano le undici passate.
Ma non dovevano partire quella mattina alle nove?
Corse giù per le scale. Tutto era silenzio. La casa era deserta.
Gli addobbi luccicavano sull’albero. Le finestre erano chiuse. La porta serrata a chiave.
Erano partiti tutti. Tutta la grande famiglia. Tutti tranne lui.
"Mi hanno dimenticato qui?".
Kevin fu invaso da una profonda tristezza. Come avevano potuto dimenticarlo? Partire senza di lui? Lasciarlo solo in casa, in città, a undici anni!
Solo?
Solo!
Improvvisamente la parola si colorò di entusiasmo. Solo! Finalmente solo! Libero da quella schiera di rompiscatole. Ora poteva finalmente fare tutto quello che gli pareva. Leggere i giornaletti del fratello, andare a fare la spesa da solo e comprare tutte le schifezze che gli pareva senza nessuno che gli dicesse: fai questo, fai quest'altro. Poteva andare a messa da solo, fare amicizia con i vagabondi e difendere la casa dalle insidie dei ladri.
Ora era lui l’uomo di casa.
Palladio Canestri non aveva una famiglia con cui passare il natale. Non aveva nemmeno un presepio o un albero.
La sua casa era uno scatolone sporco di merde di piccione. Il suo brindisi lo faceva da solo con un cartone di vino. Non aveva nemmeno un motivo per festeggiare questo natale. La gente gli passava accanto indifferente affannata dalle compere da fare più intenta a domandarsi che cosa regalare piuttosto che al perché.
Il freddo della stagione lo costringeva a bere di più per riscaldarsi e l’alcool dava alla sua visione del mondo un ancor maggiore confusione e vedeva tutte queste persone che gli scorrevano davanti come manichini che scorrevano su un unica rotaia guidati da una qualche forza magnetica senza vita né anima, spinti forse dal Grande Spirito del Natale che guidava la gente come la centralina elettrica guida i tram. E in questa situazione assurda, lui, vecchio ubriacone si sentiva l’unico lucido, l’unico libero dagli impegni mondani e consumistici, l’unico che non aveva il problema di come e dove spendere i soldi, l’unico che non aveva il problema di comprare i regali perché non aveva i soldi per farlo né qualcuno a cui donarli.
Questa visione dei fatti gli appariva comunque come quella in negativo, ma Palladio nel suo ottimismo ne aveva anche una alternativa.
Perché in fondo non era vero che non avesse una casa.
Palladio una casa ce l’aveva, ed era la casa più grande e più bella che ci fosse al mondo. Aveva un soffitto bellissimo pieno di luci che in quel periodo dell’anno si colorava di festosi fuochi d’artificio.
A Natale la sua casa era piena di addobbi e di luci che brillavano ovunque. Era un po’ fredda in quella stagione, è vero, ma non sopra la grata che soffiava aria calda dove dormiva. Ed era pieno di posti caldi e profumati dove andare, anche se la gente lo guardava schifata e cercava di farlo sentire un rifiuto, un elemento indesiderato dovunque andasse. Ma Palladio se ne fregava.
C’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire in quella casa immensa e ogni giorno poteva decidere dove andare, dove mangiare, dove dormire. Ogni giorno poteva scegliere se mangiare, se dormire, se camminare. Non era schiavo di ritmi e di abitudini.
Puzzava molto quella casa, è vero, e non tanto per le genuine scorregge di Palladio e i suoi occasionali scarichi di vomito, quanto invece per quelle macchine prepotenti e maleducate che sputavano fumo velenoso ovunque.
Attraverso gli occhi annebbiati dai fumi dell’alcool ad Palladio l’atmosfera soffusa del natale appariva ancora più densa di magia.
Palladio Canestri era libero. Libero dagli impegni pressanti delle feste. Libero da cene noiose e formali, libero dai regali da ricevere e da fare costretti dalle circostanze, libero da sorrisi vuoti e ipocriti. Libero dai soldi da spendere. Libero dai desideri frivoli. Libero dalla dignità.
E non la rimpiangeva, perché sapeva quanto spesso dietro l’ostentazione della dignità si nasconda l’orgoglio, e quanto facilmente l’orgoglio porti alla superbia.
Non gli piacevano le persone dignitose.
Entrava nelle chiese e osservava i crocifissi.
Era dignitoso Gesù sulla croce?
Eppure è il simbolo di tutta questa gente che va in giro a testa alta firmata da capo a piedi e mi guarda schifata.
L’aveva capito quel San Francesco che andava in giro con la stessa dignità con cui ci andava lui, Palladio Canestri.
Non avevano capito niente quelli che avevano collocato una grande e maestosa statua di quel santo in un posto d’onore nella più grande e ricca chiesa del mondo. L’unica chiesa al mondo, aveva notato una volta, osservandola attentamente (tanto, di tempo da passarci dentro ne aveva), in cui non c’era neanche un crocifisso; e lì, al centro dell’altare, dove quasi tutte le chiese hanno Gesù sulla croce, la basilica di San Pietro aveva un enorme trono.
Ci andava spesso a visitarla, quella chiesa, affascinato dalle bellezze che vi si potevano ammirare, ma ogni volta che ci capitava tutti lo guardavano storto, tutti questi che hanno più parabole sul tetto che san Marco nel Vangelo (aveva sentito queste parole da qualche parte ma non ricordava dove). Anche le guardie spesso gli facevano storie e lo cacciavano via, anche perché non era molto estetico e avevano paura dell’effetto che poteva fare sui turisti. Certo, non potevano mandarlo via senza motivo. Aspettavano che facesse qualcosa di vietato, come sedersi sulla base di una colonna o salire sulla pedana dell’altare. Di posti vietati, dove non si poteva andare quella chiesa ne era piena. Così come era piena di posti dove potevi andare solo se pagavi. E Palladio, che ovviamente non aveva mai una lira in tasca, si domandava se fosse giusto che lui non potesse visitare la casa di Dio solo perché non aveva i soldi. La casa di quel Dio che, i preti continuavano a dire, era venuto per tutti e soprattutto per i poveri, per quelli come lui.
Un’altra riflessione che faceva spesso, girando per le basiliche romane, era su cosa avrebbe detto Gesù vedendo le bancarelle di souvenir in tutte le sacrestie o addirittura dentro le chiese, in nicchie ricavate da cappelle laterali. Perché si ricordava che l’unica volta che nella sua vita Gesù si era arrabbiato era quando si era trovato davanti ai mercanti del tempio. E quelli non vendevano souvenir, vendevano cose indispensabili al culto del tempio, e quelli non lo facevano in nome suo.
Vi riconosceranno da come vi amerete, questa frase l’aveva sentita centinaia di volte. I souvenir e le cartoline delle chiese di Roma si riconoscevano perché costavano il doppio di quelle normali.
La gente lo guardava storto, in queste grandi case di dio anche perché non si faceva mai il segno della croce entrando in chiesa, e non si inginocchiava mai davanti all’altare maggiore. Non riusciva a credere che Dio potesse essere là dentro più di quanto fosse fuori. Trovò persino persone che vennero a rimproverarlo e che tentarono quasi di cacciarlo, per questo motivo. Gli bastava entrare per attirare lo sguardo irritato delle persone.
Ma non gli importava più di tanto. Nessuno sguardo ostile poteva condizionarlo.
Lui era libero. Ed era contento così. Lui non doveva preoccuparsi che il suo vestito fosse troppo brutto o troppo o vecchio, non doveva preoccuparsi di essere bello e pulito. Non doveva preoccuparsi di come lo guardava la gente, di quello che avrebbe detto, o cosa avrebbe pensato osservandolo, perché non glie ne fregava niente. Palladio era libero dalla buona educazione, libero dall’etichetta e dal Galateo, libero di essere ridicolo e sgradevole, libero di essere vero.
Libero di girare per le vetrine a guardare le cose esposte senza farsi prendere dal desiderio ardente di comprarle, di possederle.
Lui possedeva tutto. Possedeva il mondo e ne faceva l’uso migliore: lo lasciava libero.
Palladio non doveva preoccuparsi di fare brutta figura facendo regali troppo poco costosi o non abbastanza utili.
Palladio regalava qualcosa che era sempre utile (anche se non tutti lo sapevano) e che pur non costando nulla era ciò che di più prezioso esistesse.
Palladio regalava liberamente. Senza aspettarsi niente in cambio e senza intenzione di saldare debiti.
I suoi regali il signor Canestri non li comprava in un negozio, non li barattava per soldi.
Avevano un valore incalcolabile eppure non costavano una sola lira. Costavano solo uno sforzo dei muscoli del viso e della mente. E soprattutto del cuore.
Perché il suo regalo sgorgava direttamente dal cuore e andava dritto verso il destinatario, e non importava se quest'ultimo gradisse o meno il regalo, non importava se ne avesse una qualche utilità o se ne sentisse infastidito. Non importava se il destinatario ricambiasse il regalo o se reagisse con indifferenza.
Alcuni reagivano con freddezza al suo regalo, e affrettavano il passo. Ma c’era anche qualcuno per cui il regalo di Palladio fu il più bel dono ricevuto a natale. C’era anche chi gli cambiava la giornata, il dono di Palladio.
Palladio Canestri osservava la gente che passava, e se qualcuno lo guardava lui gli sorrideva.
Isabella continuava a camminare per le strade sempre più deserte della città, la gente, finite le spese, se ne tornava a casa per il cenone con la famiglia.
Isabella cominciava a sentirsi stanca, era tutto il giorno che camminava, ma non aveva voglia di tornare in quella casa vuota e mangiare da sola.
Continuava a camminare, e si sentiva sempre più depressa nel vedere come il mondo la stava sempre più escludendo dalla sua gioia.
C’era un barbone mezzo ubriaco sul marciapiede. Non aveva nulla da dargli. Lo guardò e quello le sorrise e gli augurò un felice natale.
E il sorriso tornò anche sul volto di Isabella.
Continuò a passeggiare riscaldata da quel gesto così umano e gratuito e inaspettato.
Le vennero in mente le parole di una vecchia canzone: "con un sorriso mi ha rimesso al mondo, con un sorriso solo, con un sorriso che non mi aspettavo, con un sorriso gratis".
Era una notte di profondo inverno. Mirana, Benedetta e Leida dormivano immerse nel piccolo lettino di paglia in quella stalla che gli faceva da camera da letto. Fuori nevicava e le tre piccole si stringevano l’una all’altra per riscaldarsi.
Avevano pianto fino a tardi tutte e tre perché sapevano che presto avrebbero dovuto lasciare quella casa. Era stato già deciso che sarebbero state vendute come schiave perché la famiglia era povera e non poteva assegnare loro una dote con la quale, divenute grandi, si sarebbero sposate.
Era stata una decisione drammatica, ma nessuno era riuscito a trovare un'altra soluzione.
Le tre piccole non avevano idea di quale sarebbe stato il loro futuro, di dove sarebbero finite, cosa avrebbero fatto. Le avrebbero separate e mandate lontane.
Avevano pregato fino a tardi perché Gesù non permettesse che le portassero via dalla famiglia e finalmente rasserenate erano crollate in un sonno profondo.
Sullo sfondo innevato che si apriva sulla piccola finestra chiusa da una grata di ferro si disegnò, in lontananza, nel pieno della notte, la sagoma di un uomo. Sopra la neve che brillava al chiarore della luna, nella notte profonda, camminava in lontananza un vecchio signore, con il suo asino.
Il vecchio si avvicinò, scese dall’asino avvolto nel suo mantello. Aveva una lunga barba bianca, aveva grandi guanti viola e una veste rossa. Era il vescovo Nicola.
Estrasse dalla sua bisaccia tre sacchetti pieni d’oro e li posò sul davanzale della finestra.
Poi ripartì, silenziosamente, in groppa al suo asinello.
Il giorno dopo la famiglia trovò i tre sacchetti e si rallegrò alquanto perché le tre bambine non dovevano più essere vendute.
Dopo di allora il vescovo Nicola aiutò molti altri bambini tanto da essere considerato, anche dopo la sua morte, il protettore dei piccini, il vecchio che porta i regali ai bambini bisognosi.
Tra tutte le corse del giorno della vigilia dovette andare anche alla posta a ricevere questo misterioso regalo.
Lo aprì. Era un servizio da té. Glie l’aveva spedito la cognata da Frosinone.
"Ma che cazzo gli salta in mente! Non ci siamo mai fatti i regali a Natale! Che cosa ci faccio con questo servizio da té? Che cazzo di regalo è? Quando mai ho usato un servizio da te io? Da due persone poi! Vorrei proprio sapere cosa cazzo ci faccio con un servizio da te per due persone! E’ un regalo del cazzo! E' un regalo inutile! Adesso dovrò andare pure a cercare un regalo per quella stronza!".
Fannio controllò come ogni giorno il lavoro dei suoi operai. Controllò che ogni rotolo, ogni plagula, ogni fettuccia fosse lavorata a regola d’arte. La sua era la più importante bottega di lavorazione del papiro di tutta Roma e ci teneva a non perdere questa fama.
Chiudendo il negozio ammirò, come ogni giorno, la maestà e bellezza dell’Anfiteatro Flavio, il più grande e il più bello di tutto l’impero, passò sotto al Colosso e, dopo una fermata obbligata al vespasiano, si diresse verso casa.
Si fermò a comprare i regali per gli amici e per i parenti. Per le due figlie comprò due bambole di terracotta, per la moglie dei monili in oro e argento.
Il giorno successivo sarebbero cominciati i Saturnalia, la più importante festività romana. Di gran lunga più importante dei Neptunalia, dei Vinalia, persino più importanti del Cavallo di Ottobre. Era l’unica che festa che si celebrava in tutto l’impero. Per sette giorni tutte le città sottomesse a Roma si riempivano di allegria e di festa. Le strade erano addobbate e la gente andava in giro mascherata come gli attori teatrali. Si festeggiava Saturno, Dio del tempo e della fertilità. Si ricordava l’età dell’oro, quando tutti gli uomini erano uguali, senza schiavi né padroni.
Così per una settimana non c’era differenza tra servi e signori. Anzi, erano gli stessi padroni che servivano i loro schiavi. Fannio stesso avrebbe imbandito una tavola per i suoi schiavi, durante i festeggiamenti del giorno successivo.
Mentre camminava per le vie di Roma scegliendo i regali e ammirando le bellezze dell’impero ripensava alla storia di Saturno, che il padre gli raccontava ogni anno in questo periodo, quando era bambino.
"Saturno - cominciava sempre - era arrivato nel Lazio per sfuggire all’ira del figlio Giove. Giunto per mare risalendo il Tevere arrivò fino al Gianicolo, e qui fu accolto da Giano (la stessa divinità alla quale è dedicato il mese di Gennaio) che lo aiutò a stabilirsi sulla riva sinistra del fiume, alle radici del campidoglio, dove sorse poi il suo tempio. Fu proprio Saturno che tolse i romani alla pastorizia vagante e che gli insegnò la coltivazione dei campi. Per questo ora è il Dio della fertilità e dell’abbondanza!".
Passò davanti al tempio di Saturno. L’indomani si sarebbero trovati tutti là dentro a venerare il simulacro del Dio, che era pieno di olio e legato con delle bende (per impedirgli di lasciare il suo posto), bende che nel momento più solenne del rito, dopo il sacrificio, sarebbero state sciolte.
Alla fine del rito ci sarebbe stato un grande banchetto pubblico, con il brindisi finale durante il quale tutti ripetevano insieme: "Io, Saturnalia!".
Nel pomeriggio parenti e amici di Fannio si sarebbero riuniti tutti nella sua villa per il cenone, sarebbero state servite vivande prelibate e Fannio stesso sarebbe andato nelle cantine a prendere i vini migliori da servire ad amici e servitù. Poi si sarebbero lasciati andare in danze ed orge e avrebbero giocato a dadi fino a notte fonda.
Fannio assaporava già quei momenti mentre comprava i regali e osservava le maschere girare per le strade. Ci sarebbero stati tutti i suoi amici al banchetto.
Tutti tranne Lucina e la sua famiglia.
Si erano convertiti al cristianesimo.
I cristiani erano gli unici in tutta Roma che non prendevano parte ai festeggiamenti. Gli unici assenti dalle celebrazioni e dai banchetti. Gli unici che non si scambiavano i regali per festeggiare la fine del freddo e la venuta della stagione buona. Avversi ad ogni aspetto della religione pagana non avrebbero partecipato a brindisi né ad orge.
Molti di loro si sarebbero riuniti in casa di Lucina come ogni settimana per leggere i libri sacri e commemorare la morte e la e resurrezione del loro Dio.
I figli dei cristiani erano gli unici che a Natale non ricevevano doni, per questo molti dei cristiani, bambini e adulti (quasi tutti per la verità) invidiavano moltissimo i pagani in questo periodo dell’anno. La loro religione prevedeva una vita senza vanità, una vita che mirava all’essenziale, era una religione che non permetteva allo spirito di concordare con il corpo.
Molti di loro però non resistevano al richiamo della festa, evitavano il culto nel tempio ma appena finita la liturgia cristiana correvano nelle case degli amici pagani per i banchetti e festeggiavano con loro; alcuni si facevano anche i regali tra loro e li facevano ai loro bambini. In questo modo assorbivano sempre più le usanze pagane così come assorbivano i costumi e il pensiero, tanto che, una volta preso il sopravvento sulla vecchia religione, ci avrebbero adattato sopra alla perfezione quella nuova: avrebbero edificato templi ai loro dei, dedicato ad essi un giorno del calendario, venerato reliquie e simulacri, elaborato preghiere particolari per ognuno di loro, così come ognuno di loro avrebbe avuto una sua specificità, un suo campo d’azione e categorie umane predilette. E così, se avrebbero cambiato tutto a livello teologico, di fatto nella pratica quotidiana non avrebbero cambiato niente.
L'ultimo Natale di Patrick Sonnier
Gli altri detenuti della prigione di Angola stanno festeggiando il Natale con i loro familiari che sono andati a trovarli, e chi è solo festeggia con gli altri; tra loro ridono, bevono e scherzano, hanno fatto anche degli addobbi nelle celle e nei corridoi.
Ma non Patrick Sonnier.
Patrick Sonnier è chiuso nel braccio della morte, per l’omicidio di due ragazzi, già da sette anni.
L’esecuzione di Pat è prevista per il 4 aprile 1984, a mezzanotte in punto.
Non c’è niente che fermerà quell'esecuzione. Tutti i ricorsi in appello, tutte le prove per l’innocenza, tutte le suppliche e tutti i tentativi di salvarlo saranno inutili.
Ormai solo il governatore Edwards potrebbe salvare la vita di Pat.
C’è un telefono della stanza della morte. Un telefono rosso. Basta che squilli, anche un secondo prima che sia tirata la leva e il condannato è salvo.
Ma non squillerà.
Nella campagna elettorale che ha preceduto le ultime elezioni l’avversario repubblicano di Edwards, David Treen, aveva affisso cartelloni in tutto lo stato e mandato spot alla Tv ricordando il numero di grazie concesse dal governatore durante il precedente mandato con slogan come:
Ci va leggero col crimine o Coccola gli assassini.
Edwards aveva rischiato di perdere le elezioni. E da allora ha evitato di concedere grazie.
Non importa di salvare la vita di un uomo, anche se innocente, quando si rischia di perdere il potere.
Patrick Sonnier è solo nella sua cella. Nessuno vi può entrare mai e per nessun motivo se non i secondini.
Nessuno va mai a trovarlo. Il fratello è in prigione anche lui per lo stesso omicidio e la madre ha paura di entrare in un posto così orribile.
L’unica persona che gli fa compagnia, nella sua ultima notte di natale, è suor Helen Prejean, che sta cercando di salvare al condannato a morte tanto l’anima quanto il corpo.
Non possono toccarsi; possono guardarsi attraverso uno spesso vetro e comunicare. Questo è tutto il contatto che gli è permesso.
Parlano.
Parlano di Gesù. Parlano del processo. Parlano dell’esecuzione.
Patrick morirà sulla sedia elettrica, con due elettrodi e tre sacriche da millenovecento volt, cinquecento volt, ancora millenovecento.
Impiegherà diversi minuti per morire, bruciato dalla corrente. E i genitori delle vittime staranno lì a guardarlo, impassibili. E diranno Giustizia è fatta.
"Hai parlato con il governatore Edwards?".
"Sì, gli ho detto quanto ingiusto è il tuo caso".
"E allora?".
"Ha emanato un decreto secondo cui non spetta più a lui concedere la grazia, ma al giudice che ti ha condannato".
Patrick Sonnier è stato condannato a morte, come l’uomo che si festeggia in questa notte.
Sarà torturato, umiliato e ucciso come quell’uomo.
Sarà vittima di un governatore codardo, come quell’uomo.
Quell’uomo ora lo ama.
Il grande camino era acceso nella casa della famiglia Tramaglino, Lucia stava sparecchiando la grande tavola imbandita; don Abbondio era già andato in chiesa a prepararsi per la messa di mezzanotte.
Renzo e Bortolo si scaldavano al fuoco e chiacchieravano; i bambini giocavano intorno al tavolo e correvano dappertutto e facevano un gran chiasso. Agnese li rincorreva ovunque e gridava: "Fermatevi piccole pesti, cattivacci venite qua da nonna Agnese!". Poi li acchiappava, li prendeva in braccio e gli stampava in faccia dei bacioni così forti che ci lasciavano il bianco per un minuto.
Maria corse da Renzo: "Babbo, babbo! Ci racconti la storia di don Rodrigo che non voleva che sposassi mamma?".
"Ancora una volta?" diceva Renzo e guardava negli occhi Lucia che sorrideva e scuoteva la testa.
"Quante cose ho imparato da quella storia! - cominciava Renzo - Quante cose! Ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non alzar troppo il gomito. Ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima di aver pensato quel che ne possa nascere. E cent’ altre cose!".
E i bambini erano tutti lì, ai suoi piedi, ansiosi di sentire ancora una volta la stessa storia con le stesse parole.
"Ma perché don Rodrigo non voleva che sposassi mamma?" chiedeva Maria.
Allora anche Renzo arrossiva e Lucia andava nell’altra stanza.