Benedetto avrebbe voluto amare il Natale, ma non ci riusciva.
Ogni volta che si avvicinava Benedetto lo aspettava come una festa magica, di luci e serenità. Di amore. La festa dello spirito. La festa della famiglia, dei desideri che si avverano.
Ma lo spirito alla fine soccombeva sempre soffocato dalle tentazioni del consumismo.
Da quando aveva passato i quindici anni nessuno gli faceva più regali; con la scusa che a una certa età non sai più che regalargli, a Natale Benedetto anziché pacchetti di regali riceveva bustine con i soldi.
Benedetto continuava sempre ad aspettarsi la magia e la serenità che doveva portare con sé il Natale, ma di fatto il Natale si rivelava ogni anno come la festa delle corse, dell’affanno e dell’ipocrisia.
Corse per fare il presepe sempre all’ultimo momento, perché i genitori lavoravano fino a due giorni prima della vigilia, e in quella famiglia c’era l’uso di fare un presepe che assomigliava più ad un plastico che ad una rappresentazione simbolica (anche qui stava, per Benedetto la magia del natale, il più fermo sostenitore del presepe-plastico, ma fare un plastico è più complicato che fare un presepio).
Corse per comprare i regali perché uno vorrebbe sì viverlo questo natale con più serenità ma sai come è, ho due nipotini piccoli che fai, non gli fai un pensierino?.
E allora giù a stressarsi e a stressare tutto il giorno, perché il ‘pensierino’ doveva corrispondere esattamente al desiderio espresso dal suddetto viziatissimo nipotino.
E cominciava ad odiarli questi nipotini. Si rendeva conto come il natale fosse solo per loro. Solo per i bambini. Loro che già avevano tutta la magia, si prendevano pure tutti i regali.
"Mi dispiace tanto Benedetto - gli disse la madre - ma quest’anno proprio non faccio in tempo a cercare un regalo per te - e gli diede cinquantamila lire - Comprati qualcosa che ti piace".
Benedetto quell’anno non ricevette nemmeno un regalo. I nipotini ne furono sommersi. Sua madre fece due regali per uno ai nipotini. Tra i regali c’era una scatola di Monopoli, e Benedetto si domandava che cazzo ci facesse un bambino di cinque anni con il Monopoli.
"Era in offerta speciale, e poi non ce l’avevano il Monopoli".
Io non ce l'ho mai avuto il Monopoli! pensò Benedetto.
Ripensava agli anni passati, e si ricordava che quando era piccolo tutti lo sommergevano di regali, anche i parenti dei parenti. Quando era uscito dall’infanzia ed entrato nell’adolescenza avevano cominciato a sostituire i regali con i soldi.
Poi erano spariti tutti i regali e quasi tutti i soldi.
Ora c’erano un paio di bustine di carta ad attenderlo a Natale. E basta. Ricevevano molti più regali i genitori, dai vari amici, parenti, cognati. Ma lui era in un età in cui non era abbastanza grande per essere adulto né abbastanza piccolo per rientrare nella categoria dei bambini.
Il natale non poteva più viverlo come magia perché non era più preparato per lui, ma non aveva ancora l’autorità per decidere come doveva essere organizzato (e far tornare magari la magia perduta).
Ma i genitori non avevano tempo per ascoltarlo, erano impegnati a fare le corse, corse, corse.
Corse per preparare pacchetti e pacchettini per parenti, amici, amici dei parenti e parenti degli amici.
La madre di Benedetto, con tutti gli acciacchi che aveva, piuttosto si sarebbe svenuta dalla fatica, ma comprò e impacchettò regali per TUTTI.
Regali per tutti tranne che per suo marito e per i suoi figli.
E ancora corse, corse, corse.
Corse per sbrigarsi a cenare di corsa per andare poi di corsa a messa puntuali a mezzanotte anzi un po’ prima sennò non troviamo posto seduti.
Rinfacci e insulti in ascensore e poi grandi sorrisi come si valca la soglia della porta di casa di nonna, poi di nuovo parolacce e polemiche fino al portone della chiesa, e poi via con sorrisi e battute spiritose e sguardi sorridenti fino alla fine della messa.
Ecco cos’era il Natale, per Benedetto.
Sembra brutto e incredibile a dirlo ma era proprio così!
(Però se vogliamo dirla tutta bisogna dire pure che quell’anno Babbo Natale non portò nessun regalo a Benedetto, ma la Befana gli portò un bel gioco da tavolo chiamato Vero e Falso mooolto più carino del Monopoli).
Era il settimo giorno prima delle calende di gennaio, giorno del Sol Invictus e tutta la popolazione di Interamna era riunita nel Tempio del Sole per il sacrificio rituale.
Adsio sedeva sul sedile di pietra, con gli altri, e osservava il tempio.
Era un alto cilindro costruito con pietre spugnose prese tra le rocce della Cascata. La gente entrava dall’unica porta e si sedeva lungo la parete circolare, in attesa del sacerdote. Chi non trovava posto tornava fuori e partecipava al rito osservando la scena attraverso alti finestroni posti lungo la parete. Al centro del circolo c’era un ara sacrificale, un altare ai cui angoli erano scolpite quattro teste di bue. Il cerchio umano che si chiudeva attorno all’altare creava un’energia che si percepiva nell’aria appena entrati nel maestoso edificio.
Adsio guardava in alto. Il cilindro si chiudeva con un’alta cupola alla cui sommità era posto un foro circolare da cui penetrava un fascio di luce che invadeva l’altare.
Ci credeva in quel Dio, Adsio. Aveva smesso da tempo di credere in Giove, Giunone, Marte e tutte le favole dell’Olimpo. Aveva smesso di partecipare ai sacrifici per Saturno e per tutti gli altri dei. Solo superstizione, pensava Adsio. Nessuno ci credeva veramente in quelle storie, in quei pettegolezzi sugli dei. Era chiaro a tutti che si trattava di un mondo divino fatto a misura di quello umano. Con bugie, tradimenti, rivalità e guerre.
Erano solo storie da raccontare, e i sacrifici semplici scongiuri per cacciare la cattiva sorte.
Ma il Sole no, quello era un Dio Vero. Lui era completamente diverso dagli altri dei, e completamente diverso dagli uomini. E non era un Dio astratto come quello degli Ebrei, che non si sapeva dov’era, o come quello dei Cristiani, che si sarebbe fatto uomo in tempi ormai lontanissimi. Lui era là, nella sommità del cielo. Tutti gli uomini lo potevano vedere, e tutti gli uomini ne sperimentavano ogni giorno la potenza.
A lui gli uomini dovevano la luce e il calore. Senza di lui non crescevano piante, non nascevano gli animali. Senza di lui l’uomo era perduto. Il freddo lo assaliva e nelle tenebre non poteva muoversi, non poteva difendersi dai pericoli né vedere quello che lo circondava.
Quanto più lui era lontano tanto più la vita era difficile per l’uomo. Durante l’Inverno si allontanava e il freddo aumentava e le ore di luce erano più corte e il cibo non c’era.
Questo si festeggiava nel venticinquesimo giorno del mese di dicembre. La rinascita del Sole, il ritorno della luce, dei fiori, del caldo.
Dei rumori e delle grida distrassero Adsio dai suoi pensieri. Alcuni uomini erano entrati nel tempio portando un capretto che si dimenava disperatamente.
Tornò a guardare la cupola, e il fascio di luce che entrava dal foro.
Era un Dio strano. La cosa più bella e potente che si potesse ammirare nella volta celeste. Eppure ogni giorno si spegneva lentamente, scendeva dalla vetta del cielo e cadeva sotto la terra, e moriva. E ogni giorno resuscitava sorgendo all’orizzonte per salire ancora sul suo trono nel cielo. Una passione e una gloria che si rinnovavano ogni giorno, ogni anno. Ogni notte la Luna si faceva portatrice della speranza in un giorno nuovo, ogni giorno l’appassire della luce era l’annuncio di una notte che sarebbe arrivata. Ogni estate si passava nel calore e nella luce aspettando con timore il gelo dell’inverno. Ed ogni duro inverno si affrontava coraggiosamente nella certezza di una nuova estate.
Arrivò il Sacerdote e iniziò la cerimonia. Aiutato da due uomini sgozzò l’agnello. Poi lo pose su un letto di paglia e gli diede fuoco.
L’assemblea intonò canti e preghiere e il fumo salì in alto, fino alla cupola, uscì dal foro e continuò il suo cammino, fino a raggiungere il Sole, che avrebbe ringraziato donando agli uomini una nuova primavera, ancora luce, ancora caldo, ancora vita, ancora speranza.
Babbo Natale testimonial della Coca Cola
Quell’anno i dirigenti della Coca-Cola decisero che per lanciare la nuova bibita analcolica sotto le feste di natale ci sarebbe voluto un testimonial d’eccezione.
Così decisero di assoldare Santa Claus, o Papa Noel, o come lo volete chiamare. Non importava se si chiamasse San Nicolaus e venisse dall’Italia, o se il suo vero nome fosse Joulu Pukki e vivesse in Finlandia. L’importante era che c’era un vecchio che ogni anno a Natale portava i regali ai bambini buoni (o ai bambini ricchi, fate voi) e non ci sarebbe stato sponsor più efficace per ottenere un successo più grande.
Così invitarono il vecchio che si presentò nell’ufficio dei dirigenti con il suo solito abito beige di pelle con bordi di pelliccia grigia. Decisero che per prima cosa dovevano rinnovare completamente il suo Look. Così gli fecero un vestito nuovo di zecca rosso e bianco, i colori della Coca Cola.
Le pubblicità ebbero un tale successo che da un lato contribuirono a rendere l’innovativa bibita la più popolare bevanda del mondo, dall’altro diedero popolarità al vecchio che diffuse la sua fama in tutto il mondo soppiantando rivali come Santa Lucia, la Befana e Gesù Bambino.
La collaborazione fu così redditizia per entrambi che da allora il Babbo ha continuato ad indossare in tutte le sue apparizioni, milioni di migliaia in tutto il mondo, il vestito con i colori della Coca Cola, lasciando stampata, nell’immaginario collettivo la sua figura con il vestito rosso e bianco.
Quest’anno, dopo novant’anni di collaborazione il suo contratto con la Coca Cola è scaduto. E così il vecchio, inebriato dall’improvvisa libertà di contratto, se ne va in giro sperimentando nuovi look e nuovi sponsor, e così si veste di giallo per Strega, di blu per la Motta, di verde per Infostrada.
Il fratellino di Mori era morto qualche giorno prima di Aids. Forse anche lui era infetto; non poteva saperlo perché nel suo villaggio non c'era la possibilità di effettuare il test, non c'era nemmeno la possibilità di curarti quando stavi male, perché non c'era un ospedale ed era difficile far arrivare un dottore fino al suo villaggio. Era difficile farci arrivare anche l'acqua, al suo villaggio. Quella che invece non mancava mai, anche nel suo villaggio, era la Coca-Cola. Costava solo 25 lire a lattina ed era buona. Certo, metteva un po' di sete, ma era buona.
Mori imbracciò la stampella e si incamminò. Ci sarebbe voluta mezza giornata per arrivare fino alla Chiesa e la strada era faticosa con una gamba sola (e malediva ancora la sua curiosità ingenua nel prendere in mano quel giocattolo che nascondeva la mina) ma ne valeva la pena: già assaporava la lunga celebrazione che lo aspettava: il Vangelo, i canti, la croce, il prete, la speranza; la festa.
C'era le neve a Greccio.
Da tutte le contrade la gente era arrivata con ceri e fiaccole alla grotta per illuminare quella sera così importante.
La notte era illuminata da miliardi di stelle e solo una mancava perché il cielo fosse come quella notte di mille anni prima.
Nella grotta erano stati posti un bue e un asinello, e in mezzo una greppia piena di paglia.
Francesco era chinato in ginocchio davanti a quella greppia. Tutta la gente del posto si era inginocchiata, seguendo l’esempio di Francesco, di fronte alla mangiatoia riscaldata dal fiato dei due animali.
Quando fu mezzanotte Francesco alzò il volto e fissò la mangiatoia, e gli sembrò di vedere un bambino, disteso su quella mangiatoia.
Gli vennero le lacrime agli occhi e il volto divenne tutto un sorriso, cominciò a cantare pieno di gioia.
Dio si era fatto bambino. La più grande e potente entità dell’Universo era diventata la creatura più piccola e indifesa che ci fosse al mondo. E tutto questo lo aveva fatto per amore dell’uomo.
Francesco non riusciva a trattenersi, aveva voglia di saltare dappertutto di baciare e abbracciare tutti i presenti, perché questa era una cosa bellissima.
"Oggi è nato il Salvatore!" disse alla gente che era con lui. Erano decine e decine di persone e lo ascoltavano in silenzio.
"Oggi è nato il Bambino di Betlemme, è nato in una grotta, al freddo e al gelo, perché non c’era posto per lui in albergo.
A Betlemme è nato Cristo Gesù!" annunciò gridando tutto contento.
Ripeteva la parola Betlemme e ci si riempiva la bocca di voce e di affetto. Il suono che ne usciva sembrava un tenerissimo belato di pecora.
E ogni volta che diceva Bambino di Betlemme o Gesù si passava la lingua sulle labbra, come se volesse gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
"Dove è al mondo umiltà più grande? - diceva - Di un Dio che si fa uomo?
Tutti noi vorremmo essere grandi, buoni, potenti, e saggi come Dio. Cos’altro è, altrimenti, il peccato originale? Se non l’invidia dell'Onnipotente, Onniscente, Onnipresente? L’aspirazione ad essere sempre più grandi, a mettersi al posto di Dio! E Dio si è messo al posto nostro! Lui, l’essere più perfetto, si è fatto uomo, l’essere più imperfetto!
Tutti noi impieghiamo tutta la nostra vita cercando di essere sempre più potenti, più ricchi, più colti, più buoni, più saggi, più perfetti. E la perfezione si è fatta imperfetta. L’essere sommamente ricco, potente, colto e saggio si è fatto uomo come noi, con tutte le debolezze e i limiti che abbiamo, perché noi potessimo toccarlo, guardarlo, conoscerlo. Si è messo al nostro livello per farci capire meglio.
È nato bambino come noi, è cresciuto, ha imparato, è stato sgridato dalla mamma esattamente come noi. Ha avuto paura e si è arrabbiato, ha sofferto e ha riso come noi.
Ha parlato la nostra lingua, ci ha spiegato la Verità con la pazienza di un padre che si mette in ginocchio per parlare con il suo bambino.
Ma questo non gli bastava. Egli era Re dell’Universo, e sarebbe stato giusto che il figlio di Dio nascesse in una reggia, erede al trono del più grande dei regni della terra, e tanto sarebbe stato nulla in confronto al regno che aveva in cielo. Ma no! Gesù voleva dimostrarci che la gloria di Dio è ben diversa da quella degli uomini! Egli è nato figlio di un umile falegname qualsiasi, e guardate dove è nato! Egli è nato ultimo fra gli ultimi!".
Francesco si avvicinò alla mangiatoia e guardò il suo bambino con tenerezza. Gli sistemò la paglia e si voltò commosso.
"Fratelli! Oggi siamo testimoni di un grande miracolo! Non siamo più soli, da oggi! Dio è nato, ed è qui con noi!".
E a tutti sembrava di vederlo, quel bambino steso sulla mangiatoia infreddolito dal gelo dell’inverno e scaldato dal fiato degli animali.
Seduta su quella strana sedia mezza inclinata, con le gambe larghe, nude, senza mutandine.
La stanza era fredda. Fredda come le pareti bianche che la circondavano. Fredda come la luce a neon che illuminava con indifferenza quella camera.
Laura aspettava.
Pensava a come era arrivata a quella drammatica decisione.
Pensava alla faccia di Fabio, quando gli aveva detto che aspettava un bambino.
Pensava alle parole di quel vigliacco, a come era fuggito dalle sue responsabilità.
Pensava a quella cosa che aveva dentro.
Cercava di immaginarselo come una specie di virus da eliminare.
Cercava di non pensare ai volti di tutti i neonati che aveva visto in quei diciannove anni e si augurava, pregava il signore con tutto il cuore di dimenticare quel momento, quando avesse visto nuovamente un bambino appena nato.
Voleva solo guarire.
Pensava a suo padre, a quello che le avrebbe fatto se avesse scoperto che era incinta.
Pensava alla madre, al dolore che le avrebbe dato.
E pensava cosa avrebbe pensato ora, se avesse saputo quello che stava facendo. Si sarebbe uccisa dal dolore, forse.
Pensava anche, con amarezza, che in realtà, forse, in fondo al suo cuore la madre avrebbe preferito così; che era meglio che l’errore fosse riparato nel silenzio piuttosto che Laura diventasse una ragazza madre gettando il disonore su tutta la famiglia.
Pensava ai bastardi ipocriti moralisti benpensanti che l’avrebbero chiamata assassina. E sentiva quelle voci risuonare nella sua testa, ricordava tutti i discorsi contro le donne omicide che abortiscono.
Assassina!
Assassina!
E aveva tanta voglia di piangere.
"Cosa volete saperne - pensava - di quello che sto passando io in questo momento? - e piangeva - E' facile per voi, brave persone, giudicare! Mi condannate in nome della Religione che dice Non Uccidere, buoni cattolici, ma dimenticate che è scritto anche NON GIUDICARE".
E poi pensava a quelli che la giustificavano, che la difendevano, a coloro che l’avevano incoraggiata in quella scelta terribile convincendola che non c’era un’altra soluzione
non c’era un'altra soluzione
Pensava a quelle cretine, idiote imbecilli e superficiali femministe del cazzo che propugnavano l’aborto come un diritto sacrosanto, perché l’utero è mio e me lo gestisco io, coloro che avevano fatto di un dramma così orribile uno strumento e un simbolo per una lotta sociale.
Coloro che le avevano detto che era una cosa da niente, un piccolo intervento che ti elimina un grosso problema.
Tanto lontane dal suo dramma quanto coloro che la condannavano senza pietà.
Avrebbe voluto mandare tutti quanti a fanculo.
Cosa ne volete sapere
continuava a ripetersi
cosa ne volete sapere...
cosa?
Prese a singhiozzare e i suoi singhiozzi risuonavano nella stanza vuota tra le pareti bianche e fredde come il ghiaccio illuminate da una lampada a neon altrettanto fredda e inespressiva.
Sentì dei passi. Stava arrivando qualcuno.
Proprio quel giorno i telegiornali avevano dato la notizia di un terrorista arrestato mentre tentava di far esplodere una bomba in un aereo appartenente alla stessa linea di quelli finiti dentro le Torri Gemelle. Il presidente Arafat non poteva recarsi a messa a Betlemme con la moglie cattolica perché Sharon lo teneva confinato a Ramallah; ennesimo schiaffo al dialogo, mentre israeliani e palestinesi continuavano ad insanguinare la Terra Santa con l'esercito e con il terrorismo. In Afghanistan Santa Claus ai bambini portava viveri che sembravano bombe e bombe che sembravano viveri. A Omar avevano massacrato tutti e dodici i suoi familiari: gli americani erano convinti che nel suo villaggio si nascondessero dei terroristi: su 200 abitanti ne avevano uccisi 150, di cui 50 bambini. Pina ascoltava incredula ed esterrefatta la cassiera di Upim: come sarebbe a dire che il Game Boy di Harry Potter che ho prenotato più di due settimane fa non è arrivato? Mi avevate assicurato che per la vigilia di Natale sarebbe arrivato! Avevo lasciato anche un acconto di cinquantamila lire! Come sarebbe a dire che la colpa non è vostra ma della Sony? Come sarebbe a dire che per avere il rimborso devo aspettare che arrivi la cassiera con cui avevo parlato l'altra volta? Scorrettezza che si aggiunge alla scorrettezza! E ora cosa gli faccio trovare sotto l'albero al mio povero bambino?
"Bene, allora per favore mi dà il suo nome, quello dell'altra cassiera e il numero della direzione, per favore".
I
giornalisti lo aspettavano fuori della Cappella del Commiato della Croce
d’oro, come uno stormo di falchi pronti a piombare sulla preda, non appena
fosse uscita allo scoperto.
Era
dentro da quarantacinque minuti, Roberto. L’aria seria, quasi concentrata.
Osservava
il volto di Isolina, così sereno. Poi alzava lo sguardo su quelli rigati di
lacrime di Albertina e Bruna. Ascoltava i singhiozzi di Anna, alle sue spalle.
Sentiva la mano di Nicoletta stringersi alla sua.
Aveva
passato con loro la vigilia di Natale, a Vergaio, come sempre. Quest’anno, però,
per la prima volta, nella grande
tavolata della famiglia mancavano sia il babbo che la mamma.
Luigi
era morto il 26 agosto. Isolina era all’ospedale di Prato, in fin di vita.
Dopo
pranzo qualche parola con sorelle e nipoti. A Stefano e Stefania aveva
raccontato delle riprese del film. Era stata una giornata serena, nonostante
l’aria triste. Poi erano partiti alla volta di Cesena, dalla famiglia di
Nicoletta.
In
tarda serata era arrivata la telefonata, attesa e temuta.
Era voluto ripartire
subito, Roberto, e quella notte stessa era arrivato a Prato.
I
giornalisti aspettavano fuori della cappella, come uno stormo di avvoltoi che si
preparano a consumare il lauto pasto.
Avrebbe
detto solo una frase, una volta uscito fuori. Lo sapevano bene. Nessuno si
aspettava di vederlo saltare su un tavolo e declamare una poesia in rima baciata
su mamma Isolina.
No,
una frase sola avrebbe pronunciato: otto parole, non di più. I giornalisti lo
sapevano, e sapevano anche – esattamente - quali sarebbero state le otto
parole che avrebbe pronunciato. Però restavano lì, ad aspettare solo che le
pronunciasse.
E
certo che quel giorno, ne avrebbero avute di cose ben più importanti di cui
occuparsi. Per esempio i 200mila morti per lo tsunami nell’Oceano indiano.
E
invece stavano lì, ad aspettare di ascoltare una frase che conoscevano già,
che avevano già scritto dieci, venti, cento volte. Che avrebbero potuto
scrivere benissimo senza passarsi la giornata di fronte ad un obitorio.
Che
assurdi rituali che ha a volte il mondo del giornalismo.
No,
in fondo non erano avvoltoi, pensava Roberto. No, solo gente
che faceva il proprio lavoro. Anzi, qualcuno tra loro era anche un amico.
Ma
non ci voleva pensare, adesso, ai giornalisti. Voleva pensare solo a Isolina.
Erano gli ultimi momenti che passava con lei. Presto sarebbe calato un coperchio
scuro su quel volto, su quelle mani, sulle carezze che avevano dato e sui pranzi
che avevano preparato, sarebbe calato un coperchio scuro su Spicciolo e su tutte
le bischerate di un bambino che non si era mai rassegnato a morire.
Già,
perché in fondo cos’altro è un artista, se non un bambino che non ha mai
accettato l’idea di crescere?
Ma quando ti muore la mamma, però, devi crescere per forza.
A quel bambino devi dire addio.
Isolina
non sorrideva. Anzi, a dire il vero aveva un’aria vagamente imbronciata, quasi
che se la fosse presa un po’ con il Padre Eterno perché non le aveva permesso
di finire tutto. C’era ancora qualche vestito da stirare, qualche pranzo da
cucinare per figli e nipoti, un po’ di ordine da fare dentro casa.
Ma va bene, va bene così, quando il Signore chiama bisogna rispondere.
All’improvviso
si sentì solo. Disperatamente solo.
Sentiva
come se in quell’affollata cappella non ci fosse nessuno. Nessuno, se non lui,
Roberto, di fronte all’infinito.
Come
se l’intero ospedale fosse deserto. Come
se in tutta Prato non ci fosse più nemmeno un abitante, in tutta la Toscana una
persona con cui parlare, in tutta Italia un volto conosciuto in tutto il mondo
un essere vivente con cui condividere la vita. Come se l’intero universo fosse
vuoto e ci fosse rimasto solo lui,
Spicciolo, schiacciato dall’eterno.
Perché non c’erano più né babbo né mamma. Non c’era rimasto più nessuno a vegliare su questo figlio; figlio rimasto figlio, perché non era mai diventato padre.
Si
guardò intorno.
C’era
Nicoletta. C’erano Albertina, Bruna, Anna. C’era la sua famiglia, c’erano
tanti amici sparsi per il mondo.
Eppure
sentiva freddo. Tanto freddo. E non c’era più la mamma a riscaldarlo con un
abbraccio. Aveva voglia di scoppiare a piangere. E non c’erano più le carezze
di mamma ad asciugare il suo volto di bambino.
Perché
piangere? La vita è bella. Si diceva Roberto. E’ bellissima, ed è sempre più
bella.
La
ripercorreva tutta in un secondo. Non la vita passata; la vita presente.
Era
un uomo felice, Roberto Benigni, l’amico delle star hollywoodiane, dei critici
francesi e dei cantautori snob.
Ed
era un momento felice quello. Davvero. Era nel mezzo di un grande fermento
creativo, nel pieno delle riprese del suo nuovo film, il film della riscossa, il
film più poetico che avesse mai girato.
Il
primo film che Luigi e Isolina non avrebbero visto, perché se ne erano andati a
quattro mesi di distanza, uno pochi giorni dopo l’inizio delle riprese,
l’altra pochi mesi prima della fine.
Un
film da dedicare a loro. Sì. Con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta
la gratitudine, con tutta l’arte.
Quanto gli doveva, la star del cinema internazionale, a quei due contadini toscani.
Tutto.
A babbo Luigi - deportato nei campi di concentramento - doveva pure il suo
capolavoro.
Ma un dono, sopra a tutti, doveva ai genitori: la povertà. Sì, la povertà. In
questo si era sempre sentito diverso da tutti i suoi colleghi, e non solo dalle
star hollywoodiane, ma anche dagli attori italiani, tutti figli della borghesia,
da Moretti a Verdone; lui, invece,
era un figlio della campagna, figlio della terra. E non avrebbe mai ringraziato
abbastanza Luigi e Isolina di avergli fatto questo dono, davvero il più
prezioso: avergli fatto conoscere il sapore della povertà.
Però
che bello, quanto è poetico, morire insieme.
Davvero
è un grande amore, quando non si riesce a sopravvivere al proprio marito, o
alla propria moglie.
In
fondo succede a tante coppie. Basti pensare a Federico Fellini e Giulietta
Masina...
Chissà
se sarebbe successo anche a lui e a Nicoletta.
Beh, tutto sommato non sarebbe stato male, sorrise Roberto con quella sua aria
da Pinocchietto guardando il volto della sua fatina.
Si
avvicinò alla bara e accarezzò il volto di Isolina.
No,
davvero non aveva niente da rimproverare al Padre Eterno. In fondo non capita a
tutti di avere mamma e babbo fino a cinquant’anni.
Beh,
un sacco di altre cose non capitano a tutti. Per esempio vincere l’Oscar,
andare al cinema con il Papa, diventare il comico più famoso del mondo, essere
paragonato a Charlot,, possedere degli studios cinematografici tutti tuoi,
essere premiato a Cannes, a Parigi, a Gerusalemme, persino al Nuovo Sacher, e
allo stesso tempo non perdere il contatto con le tue radici. Riuscire a sentire
ancora il sapore delle cose semplici, come la neve.
Ripensava
a quella sera di dicembre, a Papigno, in cui all’improvviso cominciò a
nevicare. E lui, Nicoletta e Nicola Piovani interruppero le riprese di Pinocchio
per andare a vedere la neve.
A
pensarci bene, non capita a tutti nemmeno
di avere per oltre vent’anni a fianco la stessa donna. Socia d’affari,
musa ispiratrice, compagna di viaggio.
Non
male, davvero non male per bischero partito a vent’anni da una cascina di
contadini di Vergaio, in provincia di Prato, armato solo di una chitarra e tanta
voglia di fare l’artista.
Eppure
continuava a sentire freddo, sentiva una malinconia infinita invadergli il
cuore. Perché?
Perché
sentiva lucidamente, aveva l’esatta consapevolezza, che con Isolina era morto
per sempre anche Spicciolo.
Era
morto il pinocchietto dispettoso che faceva impazzire la
mamma, il giullare che a Natale saltava sulle sedie e anziché
declamarle, le poesie, le improvvisava; ma era morta anche la star
internazionale che tornava sempre in quella cascina di contadini, dove lo
aspettavano a braccia aperte Luigi e Isolina.
Rivedeva
in un secondo tutta la sua infanzia.
Quel
giorno di pioggia, a quattro anni, quando traslocarono da Misericordia a Vergaio,
costretti a lasciare la casa per poter lavorare, tentare la fortuna in un altro
paese.
E
poi le notti a dormire tutti sullo stesso letto, perché la famiglia Benigni era
una di quelle con la fame epica, con una proprietà che tutta insieme
comprendeva tre o quattro anatroccoli.
Ricordava
i pomeriggi dagli stregoni e dai fattucchieri, per togliere il malocchio che
Isolina – a vederlo sempre così silenzioso e magrolino -
si era convinta che qualcuno gli avesse fatto.
Ricordava
le serate di festa in quel paesino, un po’ cristiano, un po’ comunista, un
po’ stregone.
Le
gite al mare la domenica con gli amici, le partite a carte alla Casa del Popolo,
le bischerate e le cacate dietro un albero.
Le
letture di Asterix, e quella volta che voleva scrivere agli autori per
protestare perché i romani perdevano sempre.
Il
seminario a Firenze, l’alluvione del ’66 e il ritorno a casa, con Luigi e
Isolina, ancora una volta, ad aspettarlo.
E
quel giorno di settembre, quando Donato e Carlo Monni lo passarono a prendere
con la macchina. Sosta a Calenzano a prendere Aldo. E poi via, verso la
capitale, a fare il teatro, ad inseguire un sogno di artisti.
Ma
perché adesso questi pensieri facevano così male?
Quanto
era più bella la vita adesso?
Sì.
Era dieci, cento, mille volte più bella.
Quei
momenti, però, non sarebbero mai tornati. Mai. Ed era questo che faceva male.
Non
ci sarebbe più stata una telefonata – guardami mamma che sono in tivù –
non ci sarebbe stato più un ritorno a casa, da babbo e mamma. No, mai più.
La
vita è bella. Ma passa. E non torna.
Neanche
Hollywood sarebbe stata più la stessa. Nemmeno altri due Oscar gli avrebbero
restituito l’atmosfera di quel lunedì sera.
“Ciao
Albertina, sono Roberto. Come sta il cuore del babbo? E la mamma?”
“Vedessi
che festa quaggiù, alla Casa del popolo”.
“Lo
so, lo so tutto quello che avete fatto. Non lo so quando tornerò. C’è tanto
da lavorare. Ma appena rientro in Italia sono da voi”.
“Ti
passo il babbo”.
“Sono
tanto contento babbo. Sapessi che emozione alla cerimonia degli Oscar”.
E
prima di riattaccare, un saluto anche a mamma Isolina.
“Quando
torno mi fai un bel desinare, eh? Ritelefonerò qualche giorno prima di
tornare”.
Un
sospiro. Un ritorno al presente. Un cenno ad Albertina ed Anna. L’ultimo
sguardo sul volto di Isolina.
Prese
la mano di Nicoletta ed uscì dalla cappella.
Appena
varcata la soglia si trovò circondato dai giornalisti, con sei o sette
microfoni puntati sotto il mento.
Esitò
un momento. Poi disse pacatamente: “Vi chiedo solo di rispettare il mio
dolore”. E si allontanò, mentre dieci penne si tuffavano ad imbrattare i
taccuini.
Viale Trieste, bimestrale del Dipartimento di Salute Mentale dell'Asl di Terni.
Nel numero 7 vengono pubblicati racconti, poesie e articoli di uomini e ragazzi residenti nelle varie comunità terapeutiche. C'è anche un racconto di Mirko, 45 anni, ex poliziotto.
Era la notte di Natale e io volevo comprare un panettone e un torrone per i miei genitori ma persi i soldini lungo le strade innevate di Terni. Ad un tratto mi si avvicinò un uomo che mi disse: "So che non hai i soldi per i dolci di Natale, così i dolci, te li voglio regalare io". Disse queste parole guardandomi negli occhi con dolcezza e soltanto allora mi resi conto che quell'uomo, con la barba ghiacciata per il gran freddo, era mio padre. Gli dissi: "Papà, non mi riconosci?". Piangendo lui mi guardò e rispose che il Natale era arrivato ma che lui, quella stessa notte, sarebbe partito per u n viaggio senza ritorno e, come ultimo regalo, mi voleva far trovare sotto l'albero una principessa, una bellissima principessa tutta per me. E mentre la neve scendeva lenta e profumata mio padre si allontanò in braccio alla sua stella cometa.
Agnese
Oltre
il bosco.
La
mente vagava per quelle colline.
Si
rigirava sul suo lettuccio di paglia e le immagini della celebrazione di pochi
attimi prima, dentro la Porziuncola, si mescolavano a ricordi ormai lontani.
I
canti, le parole di Francesco. La mano di Dio sopra la sua testa. La gioia
semplice della venuta al mondo di Cristo.
Ma
il cuore tornava al di là del bosco; sopra quella collina, a San Damiano; alle
poverelle del Signore.
La
mente tornava a quella notte, quando l’aveva vista per la prima volta.
Perché?
Perché? - non riusciva a trattenersi dal ripetere – Dove eri prima?
Possibile
che in tanti anni non l’avesse mai incontrata? Eppure, più o meno, i giovani
di Assisi si conoscevano tutti.
Chissà
in quale mondo era rimasta nascosta, tutto quel tempo.
E
così la vidi per la prima volta quella notte, nel bosco.
Ed
era già troppo tardi.
Aveva
seguito le orme di sua sorella, anche nella fuga notturna.
C’erano
stati dei colloqui con Francesco prima, certo.
E
quando fu il momento del grande passo Francesco scelse proprio me e Rufino.
Agnese
fuggì di casa nel pieno della notte, passando dalla porta dei morti, sul retro:
quella chiusa, che si apriva – appunto – solo per far uscire i cadaveri.
Poi
l’affannato cammino per le vie deserte di Assisi, l’uscita dalla porta della
città, con la complicità di una guardia. E infine la corsa gioiosa per il
bosco fino a quando – nel luogo convenuto – non si incontrarono, lei e Bona
di Guelfuccio, che la accompagnava, con i due fraticelli.
La
vidi così la prima volta, Agnese: l’affanno; il sorriso; i lunghi capelli
biondi sciolti che le ricoprivano le spalle come un manto dorato; la torcia in
mano; e quegli occhi neri che sprizzavano gioia.
Non
pronunciammo una parola. Sorridemmo e cominciammo a camminare verso la
Porziuncola, dove ci aspettavano Francesco con gli altri.
Una
grande gioia e una gran confusione in testa mentre gli otto piedi marciavano
verso Santa Maria degli Angeli.
Ero
felice. Felice di esserci, felice di vedere una ragazza così bella donarsi a
Dio.
Le
sfiorai più di una volta le spalle, in quel breve e lunghissimo cammino. Senza
malizia; mi veniva spontaneo. Mi sentivo trascinato verso quella donna senza che
questo potesse in alcun modo intaccare le nostre reciproche vocazioni. E sentivo anche, in qualche modo, che
Agnese ricambiava quel mio sentimento. Perché in quello sguardo –
quell’unico sguardo che ci eravamo scambiati conoscendoci
- avevo visto qualcosa. Avevo visto una luce, una complicità. Come se ci
conoscessimo da sempre; come se davvero fossimo state due anime gemelle
nell’eternità che si erano ritrovate nella vita.
Arrivarono
alla Porziuncola accolti da decine di fiaccole. C’erano tutti, e c’era anche
Chiara.
Una
gioia immensa, la più grande che avesse mai provato. Tutti riuniti in quella
piccola chiesetta; l’aria fresca di quella notte di fine giugno (era il giorno
dei Santi Pietro e Paolo). Guardare Francesco mentre le tagliava i capelli,
osservarla mentre si allontanava, usciva dalla chiesetta per cambiarsi l’abito
secolare con il saio francescano e il velo.
Non
era stato così emozionante per Chiara. Eppure quello era stato uno dei momenti
più importanti dell’intera storia francescana. Lo sapevano tutti: Chiara era
stata la prima donna a seguire Francesco; tutti erano profondamente eccitati, ma
nello stesso tempo turbati nel pensiero di quello che le sarebbe potuto
accadere, nella preoccupazione di dove poterla rifugiare. Perché sapevano bene
che Chiara non avrebbe mai potuto vivere con loro; che la cosa li avrebbe
inevitabilmente associati agli eretici, proprio ora che il Papa li aveva onorati
della sua approvazione.
Eppure
non era stato così, quella notte con Chiara. Non si era sentito così
coinvolto.
Agnese,
invece, anche se non l’aveva mai vista prima, era come se fosse sua sorella.
Francesco,
però, preferiva evitare di frequentarlo e mandava i suoi frati.
Chiara
aveva quattro anni meno di me, eppure per me era come una madre. Quando parlava
pendevo davvero dalle sue labbra. Era saggia, allegra, dolce e severa.
Agnese,
invece, parlava molto meno; ma amava molto ascoltarmi, qualsiasi cosa le
dicessi. Sia che le raccontassi le gesta di re Artù e dei cavalieri della
Tavola Rotonda, sia che esprimessi le mie opinioni in merito alla situazione
della Chiesa, ai movimenti degli eretici, alle crociate in Terrasanta. E poi le
raccontavo di come avevo conosciuto Francesco, ed era entusiasta. Oppure dei
miei sogni giovanili, quando volevo diventare un trovatore. Le cantavo anche
qualche canzone provenzale, ogni tanto. O le recitavo versi di canzoni
d’amore, che Francesco amava rileggere in chiave mistica.
“Tanto
è il bene che mi aspetto, che ogni pena m’è diletto”
E’
vero, mi accorgevo di desiderare sempre di più un contatto fisico. Quando le
nostre mani si sfioravano per qualche ragione sentivo tutta la gioia del mondo
scorrermi nelle vene. Provavo un sentimento di comunione totale perdendomi nei
suoi occhi, sentendo, anche se solo per pochi istanti la sua pelle a contatto
con la mia.
Ma
non collegavo questo a niente che avesse a che fare con le tentazioni della
carne, che pure conoscevo molto bene.
“Meglio
sposarsi che ardere” dice San Paolo. Ma io volevo ardere solo nell’amore per
Cristo.
Ed
era questo tipo di ardore che sentivo per Agnese. Qualcosa che aveva a che fare
con l’estasi mistica, non certo con l’amplesso fisico.
Pregava in solitudine di fronte al crocifisso della chiesa, Agnese, una mattina di luglio; quando per la prima volta la sfiorò un pensiero strano. Per la prima volta pensò a quel giovane frate in modo diverso. Un pensiero dolce, che metteva un po' paura. Un calore improvviso nel cuore che rischiava di bruciarlo. Lo confessò al Signore guardandolo negli occhi. In quegli occhi teneri e severi del crocifisso.
Fu
invece proprio Francesco a suggerirmi che potesse esserci qualcosa di sbagliato
in tutto questo.
“Tu
ami molto andare dalle Povere Dame” mi disse un giorno.
“Sì,
davvero” gli risposi.
E
le parlai di quanto bene mi facessero i momenti che passavo con le nostre
sorelle.
Da
allora mi mandò sempre più raramente a San Damiano.
Non
ho mai capito bene (non ho mai osato chiederglielo) se pensava ci fosse il
rischio che succedesse qualcosa di sbagliato o semplicemente perché non trovava
giusto assecondare i nostri desideri.
Se
bisogna digiunare dai cibi che danno troppa gioia al nostro palato, e dai
vestiti che troppo calore o tenerezza danno alla nostra pelle, è altrettanto
giusto digiunare dalle persone che danno troppa gioia al nostro cuore.
“Se
ti avessi sarei ricco più di un re, ma la ricchezza non è fatta più per
me”.
Sposa,
sì. Dio mio, cosa mi passa per la mente?
Quante
notti ho pensato di fuggire, di correre di nascosto a San Damiano, di gridare il
suo nome, di abbracciarla, di baciarla sulla bocca (sei
la mia Signora, Agnese di Dio, e io il tuo vassallo), di stringerla forte, di
sentirla dentro di me io dentro di lei
Signore
perdonami
“Francesco,
Francesco!” chiamai.
Francesco
si alzò e mi corse incontro.
“Che
c’è?”.
“Francesco
io sono Lancillotto, che per amore ha tradito il suo signore”.
Poi
mi spiegò che noi non siamo preti né monaci. Che nemmeno lui è poi così
sicuro che non prenderà mai moglie. Che questa vita non è per tutti. Che
nessuno è costretto.
Che
dovevo fare luce in me e capire quale era la mia chiamata.
Ho
riletto il passo del Vangelo sul giovane ricco.
“Se
vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi
vieni e seguimi”
Appena
possibile partirò per una terra più lontana possibile.
Mentre si
addormentava rivide nella sua mente le immagini di Maria, così bella da essere
scelta dal Signore per essere sua Madre,
e di Giuseppe, così innamorato di Dio e di Maria da rinunciare all’amore per
amore.
E
nel sogno Agnese era Maria e lui era Giuseppe: uniti e distanti, perfetti e
incompiuti…
La notte era calata sulla città.
La luna e le stelle si confondevano nel cielo con le mille altre luci, le mille altre stelle colorate.
Le strade erano quasi deserte. Tirava un vento leggero che spostava tutti i volantini e le cartacce sparsi sulla strada.
Nelle case le famiglie finivano di cenare e i bambini cominciavano ad aspettare l’arrivo di Babbo Natale.
Isabella continuava a camminare; non aveva mangiato ma non aveva fame.
La città era molto silenziosa in quel momento.
Arrivò in una piazza e c’era una grande basilica.
Entrò da una porta laterale.
Erano spente quasi tutte le luci e la grande chiesa era avvolta nella penombra.
La chiesa era deserta. Solo in fondo all’abside un gruppo di ragazzi provava i canti per la messa di mezzanotte.
Isabella camminava lentamente guardandosi intorno e i suoi passi sul pavimento liscio di marmo risuonavano tra le navate.
Si fermò su una cappella laterale.
C’era un grande quadro di una madonna con il bambino.
Si pose proprio davanti al quadro e si inginocchiò. Si accucciò.
Chinò la testa e chiuse gli occhi.