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Davide
Toffoli DAVIDE PRECARIO E LA “SUA” II B
In copertina: Nata
Tranquilli, “La finestra”,
acquerello, dicembre 1997, cm.80x56. Davide
Toffoli DAVIDE
PRECARIO E LA “SUA” SECONDA B Quasi un diario, non solo tra i
banchi di scuola
DAVIDE
PRECARIO E
LA “SUA” SECONDA B Via
dei Matti, numero zero. Il nostro indirizzo precario tra immaginazione e
realtà. Unica coordinata palpabile di un intreccio di storie di singoli
più comunemente conosciuto sotto il termine di “anno scolastico”.
Si, perché in questo paese è finalmente giunto il tempo della
fantasia. E solo dalla fantasia, in effetti, poteva nascere un tale
scenario, un tale
disarmante contesto per la nostra avventura così squisitamente reale e,
al tempo stesso, così... così “precaria” insomma. Via dei Matti, dicevamo… Un indirizzo quantomeno insolito per una scuola rispettabile e collaudata di questo impeccabile e riformato sistema d’istruzione. Forse era per quello che di stipendio, dopo quattro mesi, ancora non se ne parlava… Via dei Matti, appunto… Perché un matto non esiste e, a maggior ragione, non va pagato; e poi, parliamoci chiaro, soltanto un matto poteva scegliere adesso, coi tempi che corrono, di dedicare la propria vita ad “educare” le nuove generazioni. Tutto questo col rischio di insegnare concetti superati come quello della “legalità”, del “rispetto”, del “pluralismo” (Avere una coscienza, di questi tempi, potrebbe voler dire “votarsi al massacro”, prestando il fianco alle svicolanti e legalissime spade di chi non ha principi da rispettare e che, quindi, liberamente può colpire quando meglio crede; e allora perché legare le mani con inutili “valori” a queste povere nuove generazioni?). Ma il mio lavoro lo facevo col cuore. E credevo pure di farlo bene. Almeno stando a quello che vedevo nascere, con spontaneità insolita, dai fogli bianchi sul banco dei ragazzi. E non si dimentichi il piccolissimo particolare che, in fondo, la mia esperienza era quella di un “precario”, uno dei tanti: gente per la quale il concetto stesso di “anno scolastico” si frammenta in un insieme di facce, di nomi, di volti, di dubbi da chiarire o dai quali lasciarsi prima spiazzare e poi accompagnare, pure una volta risolti. In quell’agglomerato multiforme di volti, di idee, di teste pensanti, siamo in tanti a cercare di costruire qualcosa di nuovo. Siamo, per così dire, accomunati dalla cosiddetta “sindrome del numero 13”: “tredici” come il numero, spesso, dei giorni di supplenza; “tredici” come i giorni che si impiegano, il più delle volte ad imparare i nomi di chi, ogni mattina per poche ore, classe per classe, ci troviamo davanti. E ancora “tredici” come i minuti che, mediamente, si perdono per fare l’appello, come uno di quei numeri che, fino a qualche tempo fa, anche nel calcio erano appioppati sul groppone di quei giocatori costretti a giocare soltanto uno spezzone di partita e destinati, a seconda delle esigenze, a far “perdere tempo” (portando via minuti preziosi alla gara) o a tentare di recuperare situazioni disperate per la propria squadra incapace di reagire o, e non si trascuri tale possibilità, a rischiare più che altro di “far danno” nel già poco tempo messo a sua disposizione. E poi vi confesso, in tutta franchezza, di non essere mai stato in grado, almeno fino ad oggi, di capire se il “tredici” porta sfiga oppure no (troppe e contrastanti le opinioni al riguardo). Era per affrontare il problema da un punto di vista insolito che quel giorno, appunto, avevo pensato bene di presentarmi in classe con sotto braccio un grosso quadro astratto di una mia amica pittrice. Non era stato da poco neppure il coraggio di affrontare gli sguardi, ora preoccupati e perplessi ora ignari ma divertiti, dei vari collaboratori scolastici. E così, dopo aver superato il veloce e severo giudizio, anche solo di un semplice sguardo, di Vincenzo, Mirta ed Oriana (tre nomi di quelle persone, i nostri “collaboratori scolastici” dicevamo, “ignoratissime” da qualsiasi riforma del sistema scolastico, ma che i ragazzi si portano nel cuore fino alla fine della loro carriera scolastica, forse perché sono le poche con le quali possono sentirsi realmente liberi di essere se stessi senza doversi mascherare dietro inutili finzioni di rito) sono entrato in classe ed ho iniziato ad allestire uno psuedo-cavalletto, che a dire il vero non era di certo il ritratto della stabilità, per tenere esposto il quadro di fronte agli occhi dei ragazzi. Doveva essere un’ora di lezione sull’orientamento, o meglio avevo in mente di tentare di far comprendere loro il concetto importantissimo e molto sottovalutato nascosto dietro la parola “punto di vista”. Che i vari punti di vista sui fatti e sugli avvenimenti che ci circondano fossero l’unica reale possibilità di crescere che ci si presenta, in fondo, lo avevo già detto (anche più di una volta), ma tentavo di sforzarmi di ricordare che si trattava pur sempre di una seconda media e che quindi ripetere un concetto sarebbe sicuramente servito a radicarlo nei ragazzi senza scivolargli addosso senza possibilità di sottrarsi al cosiddetto “dimenticatoio”. Ecco cosa c’era, nella mia testa, dietro quel quadro astratto (al quale peraltro sono sempre stato molto affezionato). Non avevo intenzione di dire nulla ai ragazzi. Volevo solo che riflettessero, che cercassero da soli e singolarmente di dare un senso a quello che avevano davanti. Speravo che, almeno i più attenti, non si lasciassero sfuggire l’occasione di comprendere l’importanza del “punto di vista” in ogni campo dell’esistenza: si pensi, anche solo per un attimo, a cosa saremmo senza un sano “pluralismo” nell’informazione, nella cultura, nella scienza… Saremmo orrendamente condannati a venir su, inchiodati nelle nostre rassicuranti certezze, convinti della nostra potenza e grandezza e destinati ad un risveglio terribile nel quale, finalmente ma troppo tardi, i nostri occhi si potrebbero riaprire su un mondo maleodorante e in sfacelo che mai ci era apparso come tale, anche se c’eravamo stati dentro fino al collo sino a quel preciso istante. E’ quando manca un confronto con l’altro, con le opinioni dell’altro, con gli errori dell’altro, che vediamo nascere mostri. E il nostro mondo non ha bisogno di mostri: ce ne sono già troppi. Io ai “miei” ragazzi avrei voluto insegnare a “leggere”, a “pensare”, a non subire passivamente tutto ciò che gli viene proposto. E, soprattutto, a “distinguere” tra finzione e fantasia, tra immaginazione e fatti reali. Impossibile? Non credo proprio. I ragazzi, come sempre, hanno uno sguardo spietato e puro, non ti perdonano nulla. E, dentro di me, speravo che non “perdonassero” nulla neppure a quel quadro, superando le inevitabili difficoltà iniziali e iniziando a cercare, dentro quell’immagine intrisa di colori, la loro inimitabile e personalissima strada. Davanti a loro un banco vuoto e un foglio. Per il resto, bisogna dire che c’erano loro e il quadro, mentre io ne approfittavo per correggere l’ultimo compito in classe sulle “Urne dei forti”. Non si poteva certo parlare di silenzio, ma una volta tanto quel brusio di sottofondo non riusciva proprio ad infastidirmi. I ragazzi li vedevo, chi più chi meno, tutti impegnati a realizzare ciò che avevo sug-gerito: osservare… pensare… scrivere. In quel preciso istante, ciascuno di loro stava percorrendo la propria strada. Non è stato per nulla facile resistere alla tentazione di vedere cosa stava nascendo dai loro personalissimi “incontri” con quel quadro e non nascondo che qualche sbirciatina qua e là, mentre passeggiavo tra i banchi cercando di fare il vago, non mi ero affatto astenuto dal farla: “Secondo me la pittrice stava disegnando una finestra, però pensando al suo passato ha avuto uno schizzo di umore che l’ha portata ad una decisione non precisa di quello che stava disegnando” , scriveva Luana. Pochi banchi più in là, Sergio sosteneva sul suo foglio invece un’altra tesi: “Questo quadro mi fa pensare a due oggetti distinti. Uno è la faccia di un uomo a linee spezzate. Linee blu che formano un gran naso quadrato, un occhio rettangolare aperto; manca l’ultimo lato corto e la bocca, sempre rettangolare, che si va ad appoggiare nel fondo del quadro. Davanti alla faccia di quest’uomo cade una piuma rossa e gialliccia. L’uomo è rivolto con la faccia verso la parte destra ricoperta di blu, rosso, giallo e rosa, come se stesse guardando l’alba, con montagne ricoperte di verde in lontananza”. Una descrizione minuziosa, quasi scientifica…Davvero convincente. Convincente a tal punto che il suo vicino di banco Andrea, forse scegliendo di non perdere l’allenamento in vista di futuri compiti in classe, si è lasciato suggestionare dalle parole “sbirciate” sul foglio di Sergio ed ha scritto: “Il quadro esprime molte sensazioni e molte emozioni. Mi fa pensare in primo piano ad una persona che sta cadendo da un palazzo (ed il verde esprime secondo me molta paura) e affianco a questa persona c’è una piuma che dondola dolcemente”. Che dire? Un geniale accostamento tra un corpo in caduta libera verso il basso (magari “ereditato” dalle terribili immagini dell’11 settembre) ed un oggetto leggero che delicatamente compie il proprio interminabile viaggio, in balia delle correnti, verso il suolo. Naturalmente cercavo di mettere un freno alla mia curiosità. Solo per questo avevo cercato di gettare lo sguardo oltre la finestra che dava sul bosco di Valcanneto. Ricordo chiaramente che mi ero persino avvicinato alla finestra aperta ma, subito scoraggiato da due indiscutibili segni della mia fastidiosa allergia che erano risuonati in tutta la classe tra le sonore risate dei ragazzi, avevo quindi preso tutta un’altra direzione riportandomi repentinamente nei pressi della cattedra. Mentre appunto mi spostavo, non avevo potuto fare a meno di notare che anche Roberta e Mattia, solitamente due tra i più irrequieti, avevano già scritto qualcosa: “Ha me questo disegno mi da l’idea di una sedia in una stanza e una specie di labirinto o di un cielo con delle strisce scure”, Roberta stavolta, grammatica a parte, aveva fatto qualcosa di speciale nel suo personalissimo “incontro” col quadro. Era riuscita, magari svogliata come spesso le capita, a svolgere a pieno ciò che le si proponeva. Personalmente ero al settimo cielo. Anche Mattia come Roberta, a quello che potevo vedere, sembrava avere avuto qualche conflitto con gli ausiliari, ma il suo lavoro era piuttosto interessante: “Questo quadro che io sto vedendo e fatto con colori spumeggianti e molto entusiasti. Questo quadro rappresenta un’entrata con un muro colorato”. Persino Damiano sembrava che stesse scrivendo un poema. Tra le righe scritte in quel suo “stampatello” non proprio comprensibilissimo, riuscivo a leggere: “…Sembra anche una porta misteriosa che magari con un po’ di fantasia ti porta in un mondo passato”. “Perché no?” pensavo tra me e me e, quasi per caso, mi era caduto lo sguardo sul foglio scritto a matita da Alessandro, proprio davanti a noi, che aveva scritto: “Questo quadro rappresenta una finestra che si affaccia su un luogo infernale e malvagio; una porta per raggiungere un mondo diverso”. Non c’erano più dubbi: la classe stava reagendo bene. Per i ragazzi il suono della campanella della seconda ricreazione fu una vera e propria liberazione: ora potevano sottrarsi agli sguardi di quell’insolita spia quasi fastidiosa che sembrava aggirarsi, ormai senza troppe remore, a rubare anzitempo parole dai loro fogli. Le loro attenzioni erano state interamente dirottate sulle rispettive pizzette o panini che, tra passeggiate varie, mi sventolavano sotto il naso suscitandomi un leggero senso di invidia e convincendomi che, una volta uscito da scuola, il forno non molto distante dal nostro istituto sarebbe stata una sorta di tappa obbligata per cercare di soddisfare i miei nascenti appetiti. Tornando verso casa ripensavo all’ora di “lezione” appena trascorsa. Mi chiedevo se i ragazzi avessero compreso il senso profondo di quello che erano stati chiamati a fare. In fondo per comprendere questa particolare “ora di lezione” avrebbero dovuto fare come col quadro: ascoltare… viverla… pensare. E, mentre la striscia d’asfalto della corsia di sorpasso dell’Aurelia si faceva più stretta scorrendo veloce verso Roma, continuava a ronzarmi nella testa un pensiero: “Che mestiere fantastico il nostro!”. Si, perché ci arricchiamo ogni giorno di qualcosa di estremamente semplice e puro. Non riesco a pensare a nulla che possa competere con l’incredibile magia del poter “vedere una cosa” con gli occhi incontaminati di un bambino. Tutto è una sorpresa. Tutto una scoperta di dimensioni impensate. Un mondo unico e irripetibile. Ogni “bambino” e come se possedesse le chiavi segrete del giardino della fantasia: “Sullo sfondo un dito di vernice sfumata dalle tinte di rosa più chiare, un labirinto di colori non ben definiti… Quanto è bello osservare il cielo al tramonto con quel silenzio così finto che dà l’impressione di interrompersi da un momento all’altro. La schiuma delle onde che si infrangono bruscamente sugli scogli, in lontananza un grido di un gabbiano si fa sentire. Il sole sembra addormentarsi sulle onde del mare. Sarà banale ma quando penso a un tramonto mi vengono in mente sempre le stesse frasi ripetute già nei tempi passati; a differenza di questi però le emozioni cambiano, si cresce e si provano sensazioni nuove che non sapresti definire. Guardando a fondo il quadro e osservando attentamente il margine in alto ho provato a liberare la mia mente e penso come con poco ci si possa sentire diversi”. Questo, ad esempio, era lo splendido “giardino” di Valentina. Sempre immerso nei miei pensieri, nel frattempo, ero già su Via dell’Acquafredda: iniziavo a rendermi conto che, tra un paio di minuti, sarei arrivato a casa.
QUEL
GIORNO, IL PRANZO…
Ricordo che quel giorno il pranzo volò via come se niente fosse. Era infatti una di quelle classiche giornate che non lasciano neppure il tempo di gustare fino in fondo i delicati piatti preparati con tanta cura da mia madre. Giusto un quarto d’ora ed era già tempo di uscire, sballottato qua e là per la città tra qualche “ora di ripetizione” ed eventuali imprevisti dell’ultima ora da affrontare. Unico appuntamento: una serata al pub con degli amici per scambiarci nuove idee su un progetto editoriale che ormai da tempo da tempo bolliva in pentola. Come mia consuetudine, dopo una giornata passata a correre da una parte all’altra della città senza sosta alcuna, mi ero ritrovato ad arrivare sul luogo dell’ultimo appuntamento con una buona mezz’ora di anticipo. Della serie: corri, corri, corri… e poi aspetti. Ma per me aspettare non è mai stato un peso, così voltandomi sul sedile posteriore avevo allungato la mano per arrivare ad aprire la mia professionalissima borsa da Prof. ; avevo intenzione di iniziare a leggere qualche lavoro a caso tra quelli scritti in mattinata dai ragazzi: quasi senza guardare estrassi un foglio. Era quello di Gianmatteo: “Questo quadro mi fa pensare ad un immenso prato verde che finendo incontra la sabbia e diventa una spiaggia bellissima con sabbia ocra chiara e, a tratti, scura. La spiaggia è delimitata da un bellissimo mare blu cobalto tranquillo ma con tratti bianchi, visto che c’è un po’ di schiuma. Il cielo è rosso… Tutto l’insieme del paesaggio è tranquillo, non ci sono né esseri umani, né animali, né nient’altro. Il prato è tagliato unico senza arbusti e alberi. La spiaggia è pulita: non c’è alcun rifiuto. A me sembra un paesaggio ancora non scoperto dall’uomo e a mio parere dovrebbe rimanere così, vista la sua bellezza”. Tra me e me pensavo: “la mente di questi ragazzi dovrebbe rimanere così! Splendidamente libera di osservare, riflettere ed esprimersi! Altro che lobotomizzazione da trasmissioni insulse da prima serata!”. Non senza sforzo continuavo a leggere, sempre con maggiore entusiasmo, i lavori dei “miei” ragazzi e, tra le ombre sempre più lunghe e fastidiose della città mi ero ritrovato con in mano un foglio a righe di color verde. Ricordavo di averlo notato anche in classe… A chi apparteneva? Nel buio faticavo davvero a distinguere… Ma sì, era quello di Marco: “Una rielaborazione del quadro della stanza di Van Gogh fatto su Paint (al computer) con un virus che fa funzionare solo le attività primarie del mouse con lo schermo modificato. Tanti rettangoli cavi con i colori tenuti troppo cliccati. Comunque è un bel quadro”. Questo appena letto era sicuramente l’ “incontro” più originale e spiazzante. E pensare che quello che vi sto raccontando era accaduto ancora in tempi “non sospetti”, vale a dire prima di uno spiacevole e pericolosissimo incidente nel quale il nostro Marco sarebbe incappato di lì a qualche giorno: sì, perché in Via dei Matti, nel nostro avamposto di una scuola italiana portatrice di nuove proposte e di nuovi stimoli, c’erano ancora dei vecchi “reperti” come i termosifoni in ghisa dagli elementi pieni di spigoli affilati e spietati come coltelli pronti a colpire ogni incauto alunno, troppo rapito da una deleteria e riprovevole voglia di giocare durante i dieci minuti della ricreazione, che si accostasse ad essi con un movimento inaspettato e imprevisto. Risultato: un bello spavento per tutti, un’improvvisa fontanella di sangue nel bel mezzo della classe, una ferita sulla parte posteriore del cranio che gli era valsa ben cinque punti (quasi una media invidiabile in quelle valutazioni dei nuovi test di una qualsiasi verifica di Storia di un alunno dal rendimento discreto), un giorno di controlli in ospedale per controllare se nella sua testolina tutto funzionava ancora a dovere e, soprattutto, una gita scolastica saltata (quella del giorno successivo al Porto di Claudio e di Traiano dove avevamo visto appunto coi nostri occhi che, col passare dei secoli in prossimità delle foci dei grandi fiumi, la costa può miracolosamente avanzare a grandi passi e rubare spazio al mare). Per fortuna, quasi che una mano invisibile si fosse posta tra quella giovane testa e lo spietato termosifone, era rimasto il Marco di sempre: simpatico e geniale. Proprio come quello “raccontato” da queste poche righe con le quali aveva scelto di descrivere il quadro. Un’occhiata quasi distratta all’orologio mi aveva fatto notare che erano passati soltanto dieci minuti e che quindi avevo ancora molto da aspettare. Fu sufficiente per farmi trovare coraggio e voglia di leggere ancora un lavoro: “Secondo me la pittrice ha voluto rappresentare 31 bottiglie. Le sfumature di verde fanno pensare al colore delle bottiglie di vetro; le sfumature di rosso invece al colore di un buon vino. Il giallo presente sulla parte superiore del quadro rappresenta il coperchio delle bottiglie; una non ha il coperchio : è aperta. Le sfumature di bianco potrebbero rappresentare il riflesso della luce, il colore blu rappresenta il cielo e quello più scuro, in basso, il tavolo”. Vi assicuro che non riuscivo a capire dove mai fosse riuscito a vedere 31 bottiglie in quel quadro, però tornavo a leggere quelle righe ed ero quantomeno costretto ad ammettere che aveva saputo essere piuttosto convincente. Tra tutto quel parlare di bottiglie mi era venuta una gran sete. Decisi che era arrivato davvero giunto il momento di incamminarmi verso il pub. Là avrei trovato tutto quello che cercavo. Cosa ci poteva essere di meglio, in effetti, di un luogo in cui avevo finalmente la possibilità di leggere senza più costringere la mia vista a veri e propri salti mortali e potevo prendere qualcosa per soddisfare la sete; metteteci anche la rassicurante presenza di due simpatiche cameriere dal fascino indiscutibile e raro e ottenete il motivo per cui iniziavo a non avvertire più la stanchezza dovuta ad una giornata frenetica e senza soste. Nel frattempo, la ragazza mora si era avvicinata a chiedermi se aspettavo qualcuno o se invece volevo ordinare qualcosa. Le risposi, con un sorriso rilassato ed ammiccante che non riuscivo a trattenere, che stavo aspettando altre due persone, ma che avevo davvero una gran sete: chiesi la mia solita Harp Lager media. Mentre si allontanava dal mio tavolo e scivolava dietro al bancone, non potevo fare a meno di seguirla con lo sguardo osservandone i movimenti sinuosi e disinvolti. “Secondo me rappresenta un paesaggio naturale: lo si vede dai colori che gli danno la caratteristica. Innanzi tutto questo paesaggio è ambientato nella sera, verso il tramonto, in cui il rosso, il verde e il blu sono mischiati nel bianco e danno secondo me una vera e propria immagine di come deve essere il tramonto, che porta con sé quella sensazione di stanchezza. Il resto del quadro è ricoperto dal blu e dalle sfumature verdi e rosse che potrebbero essere degli alberi e il resto del blu è l’ombra di questi dopo il tramonto, come se questo paesaggio rappresenti il bosco. Poi, in alcune parti, ci sono delle piccolissime sfumature bianche che sembrano delle piccole sorgenti che scendono a valle. Questo quadro rappresenta la purezza della natura e quindi anche la parte interiore della pittrice e di me stessa”. Quasi per sottrarmi a quel meccanismo che mi aveva portato a non staccarle un attimo gli occhi di dosso, avevo ripreso a leggere e il primo lavoro capitatomi tra le mani era stato quello di Cristiana: un vero e proprio incontro con la purezza della natura. “Purezza della natura…”, pensavo poi tra me e me: è incredibile in quante forme si manifesti. Mentre noi di puro abbiamo davvero ben poco, siamo capaci di mascherare… na-scondere… cambiare i fatti o l’accaduto come meglio pensiamo… Altro che purezza! Forse è proprio questo che rende unici gli occhi di un bambino. Un bambino si salva con la fantasia; col suo sguardo supera i muri più impenetrabili, oltrepassa tutto quello che lo divide dal mondo. Poi arriviamo noi e mettiamo tutto a tacere: “questo non si dice…quello non si fa…” e alla fine regaliamo ai bambini il nostro pacchetto regalo pieno di nevrosi, repressioni e pseudoverità preconfezionate. La sola idea mi distruggeva la mente, ma non riuscivo ormai da tempo a vedere una reale via d’uscita: siamo in un mondo nel quale è troppo netta ed evidente la distinzione tra “chi può” e “chi non può”. Chi grida e si straccia le vesti , parlando di obbligo morale a seguire le regole, è il primo a farne carta straccia e a mandarle alle ortiche alla prima banale occasione. Tutto è guidato da una logica di mero profitto personale, di sete malata di denaro e potere; ed il brutto è che chi se ne sottrae sembra destinato a divenire “carne da macello”, “bersaglio mobile”, “crepa” nell’intoccabile meccanismo globale. Di fronte a ciascuno di noi si pongono sostanzialmente due strade: continuare a guardare il mondo “con gli occhi di un bambino” oppure adeguarsi ai tempi e imparare a guardare il mondo “con gli occhi del denaro”. Tanto per capirci, gli “occhi del denaro” sono quelli che vedono un paese invaso ed aggredito abbandonato a se stesso, sono quelli che mettono a tacere il fatto che un paese come Israele abbia fatto carta straccia delle risoluzioni dell’ONU senza che nessuno abbia fatto una piega, quelli che nascondono i propri interessi dietro ogni guerra, quelli che hanno paura di raccontare per paura che la gente capisca, quelli che si nascondono dietro i cordoni di sicurezza per continuare impuniti a saccheggiare i cadaveri degli uccisi. Gli “occhi di un bambino” sono quelli invece che vedono tutto questo e lo superano con la fantasia; occhi di chi cresce nella miseria e nel dolore e continua a sperare che la vita sia bellissima, occhi di chi capisce l’insensatezza del nostro frenetico e distruttivo correre e, continuando col proprio passo tranquillo, non si vergogna di fermarsi lungo il tragitto a raccogliere e tirar su tutti quelli che nella loro corsa senza esclusione di colpi sono caduti o scivolati, occhi che non temono di chiamare le cose col proprio nome. L’amore è amore, la guerra è guerra, senza tante categorie intermedie che si divertano solo a confondere le carte sul tavolo. Gli “occhi di un bambino” sfruttano per “rubare” sempre nuove esperienze e crescere; gli “occhi del denaro” sfruttano per incrementare il profitto e aumentare il proprio capitale (chi mai si sentirebbe in diritto di biasimare il fatto che per fare questo sembra inevitabile o quantomeno lecito “uccidere”, “commettere vere e proprie stragi”, “lasciare dietro di sé una lunga scia di sangue di persone senza voce”?). Un bambino tutto questo lo vede, si tura il naso, e tira oltre. Un bambino è l’unico eroe possibile in questo mondo. Intrigato su questi pensieri mi era tornato in mente quanto avevo scritto, in occasione della prima mostra personale di pittura di quella che di lì in poi era diventata mia amica, proprio a proposito del quadro che avevo proposto ai ragazzi: “…Per comprendere e dialogare con la pittura di Nata Tranquilli bisogna munirsi di “occhi da bambino”. C’è bisogno insomma di uno sguardo incontaminato, come quello di un bambino appunto, capace di partecipare attivamente al dialogo che potrebbe delinearsi. Serve la capacità di stupirsi e di fantasticare tipica di un poeta e di tutti coloro che sono innamorati della vita e del mondo che li circonda”. In quel preciso istante, mentre nel pub vedevo entrare i miei amici, avevo già deciso che appena arrivato a casa sarei tornato a dare un’occhiata alla mia vecchia recensione. NELLA
NOTTE, PER FINIRE…
La riunione al pub era volata via tra grandi entusiasmi, buone proposte e pochi intoppi. Ognuno di noi, dopo i saluti di rito, se ne tornava soddisfatto verso casa. Io, personalmente, avevo in mente di riprendere il “discorso” lasciato poco prima in sospeso: giusto il tempo di parcheggiare in garage, di salire le scale… e con la mia “borsa da Prof.” ero già in camera mia davanti al computer per andarmi a leggere il file relativo alla recensione su “Le vie del colore”, la prima mostra personale di Nata. Dove eravamo rimasti? Ah sì, giusto!“…Serve la capacità di stupirsi e di fantasticare tipica di un poeta e di tutti coloro che sono innamorati della vita e del mondo che li circonda”. Potevo finalmente leggere cosa avevo scritto con esattezza ancora su quel quadro:“Ma è nel colore il segreto della pittura della Tranquilli: l’anima che dipinge è bambina anch’essa, si serve del colore per le sue ribellioni infantili, per le sue bizzose ripicche, ma anche (ed è qui che ci sorprende e ci apre nuove prospettive) per fornire degli “spiragli di scavo” e delle “possibilità d’indagine introspettiva” inaspettate. Si può affermare che, laddove incontra il limite, la pittrice reagisce giocando con il colore. C’è un quadro in particolare che, nel mio personalissimo “incontro” con esso, ha preso da subito il titolo di “La finestra” (perché ciascuno che si avvicini alle opere della Tranquilli può togliersi lo sfizio di fornire di persona un titolo a ciò che osserva su tele dense di emozioni, ma sempre aperte e disponibili all’interazione con l’osservatore) e mi è sempre apparso come una sorta di opera-manifesto. Provo a raccontarvi il mio “incontro”: vedo una finestra chiusa, con gli scuri completamente sbarrati. E’ il più tipico degli elementi di impedimento allo “scavo”, ma l’ansia di sottrarsi a questa “ impossibilità di scavo e di indagine” è tale da imporsi senza mezzi termini agli occhi dell’interlocutore. Nata Tranquilli reagisce come potrebbe fare un bambino offeso da un qualsivoglia sgarbo compiuto da un adulto. Una specie di sfogo. Sembra prendere a colpi di colore gli scuri della finestra chiusa: macchia su macchia, pennellata dopo pennellata, riesce a delineare uno scenario diverso da offrire allo spettatore. Il colore, questo elemento fantastico nelle sue mani, usato con maestria e profondo equilibrio, riesce a scardinare anche quella finestra pur sempre chiusa, trasmettendo un così vivo e tangibile desiderio di oltrepassare quel limite che sembra persino superfluo soffermarsi ad indagare se effettivamente quel limite venga poi oltrepassato. E l’opera vive in una duplice dimensione incontaminata: quella dell’artista e della sua finestra imbrattata e quella dell’interlocutore che, con la sua fantasia, si spinge oltre ad immaginare e a disegnare nella propria mente tutti gli eventuali mondi possibili oltre quel limite che gli si mostra. In questo spessore psicologico, oltre che nell’indubbia padronanza del gesto tecnico, risiede tutta la grandezza e l’innovazione dell’opera di Nata tranquilli”. Beh, non eravamo di certo molto lontani da quello che avevano scritto i ragazzi e, soprattutto, non eravamo affatto lontani da quanto affermato nella recensione. Anche i ragazzi di una seconda media hanno davvero uno sguardo speciale sul mondo e sulle cose che ne fanno parte. Ulteriore
prova erano quelle parole di Martina che potevo leggere mentre ultimavo,
dopo aver consultato l’aggiornamento delle graduatorie permanenti
relative all’insegnamento per l’anno scolastico 2002-2003, le
consuete procedure per chiudere la sessione del mio PC: “Un insieme
di colori, l’uno che si sovrappone all’altro, una linea che spezza
il colore; in tutto questo inseguirsi di sfumature…”, sosteneva
Martina, “…si scorge un palazzo enorme con mille finestre. La sua
facciata sembra dipinta da un pittore –pazzariello-, da un gruppo di
bambini che si divertono in un pomeriggio d’estate. Tante pennellate
sono segno di molte persone che si sono ristorate in questo albergo dove
hanno mangiato e dove, nei letti morbidi, hanno riposato. Il bene di una
notte stellata, investita da mille cose che brillano coperte da
pennellate di cielo in una giornata di primavera. Il verde, l’erba
fresca di rugiada dove molti bambini giocano felici con la palla. Questo
è il mio mondo dove tutto è possibile”. E grazie a
loro era davvero possibile tutto: anche scordarsi per un attimo
dell’ennesimo contrattempo, una costante nel nostro mondo lavorativo
in continua, chiamiamola così, “evoluzione”. In fondo avevo appena
potuto vedere sul sito della Pubblica Istruzione che… Sì, insomma…
Si erano scordati che esistevo. Altro che graduatoria aggiornata:
l’unico aggiornamento che avevo trovato era il fatto di essere
addirittura scomparso dalle graduatorie, sia nelle scuole medie che
nelle superiori. E neppure potevo dire che fossero almeno stati
originali: a quanto pare è un’esperienza per la quale, prima o poi,
passano tutti i “precari”; a dire il vero, qualche volta si
“sparisce”, altre volte si figura con un punteggio errato…
Insomma, almeno qui non c’è proprio da annoiarsi. Ma per fortuna,
come sempre ci piace dire, ci sono loro: i ragazzi. Forse, a voler
proprio essere onesti, è solo per merito loro che si sceglie di fare
questo tipo di vita. E’ solo per loro che si resta convinti e si
sopportano malesseri e inconvenienti che sembrano destinati a restare
immutati nel corso del tempo. Infatti l’unico momento in cui realmente hai la sensazione di non essere affatto “precario” è quando, magari attraverso un rapido e semplicissimo scambio di battute, ti accorgi di “crescere insieme” a chi hai davanti. E’ un attimo di magia… Uno di quei rari attimi in cui amore e passione vengono a coincidere e ti sembra di vivere qualcosa di grande e di irripetibile. E tutto ciò che viene dopo non è che un tentativo forse un po’ folle di riprovare a vivere quel qualcosa di così speciale che abbiamo avuto la fortuna di conoscere e di apprezzare. Il bello è che ogni parola profonda e spontanea tirata fuori ad un ragazzo conserva in sé quel seme di magia e io, per continuare a vivere attimi del genere, sarei pronto anche “a farmi cancellare da tutte le graduatorie di questo mondo”, nient’altro che liste fredde e senz’anima. E una scuola fredda e senz’anima non è in grado di andare da nessuna parte: la raccontassero a qualcun altro la “favola sciroppata” della scuola-azienda. Quella è la favola raccontata da chi “comanda” (ed è un vero peccato che non sappia fare neppure questo molto bene!), non certamente da chi, ogni giorno, cerca di “crescere” tra mille sforzi “assieme ai ragazzi”. Una scuola fredda e senz’anima può anche permettersi il lusso di scordare il nome di tutti coloro che lavorano per lei, noi no. Noi il nome dei nostri ragazzi, credetemi, magari dopo una decina di giorni, lo ricordiamo bene. Ricordiamo ogni loro espressione, ogni loro gesto, ogni loro paura, ma non perché siamo speciali o diversi, semplicemente perché siamo lì per crescere con loro cercando di aiutarli a scoprire se stessi. Non potremmo mai dimenticare che abbiamo un senso solo all’interno di un reale incontro con la quotidianità dei ragazzi, col loro vissuto sempre nuovo. La scuola-azienda cerca di fare di noi e di loro delle semplici merci, ma io ho già scelto: “tenere la scuola e dare un calcio all’azienda!”. Credo che solo se la scuola riuscirà a farsi “casa” saremo in grado di avere ancora qualcosa da insegnare ai nostri ragazzi e ad imparare qualcosa di prezioso da loro: non riesco proprio a concepirla come “immagine mutevole della disgregazione”, preferisco continuare a soffrire e a lottare per realizzarla come “laboratorio di rispetto e di democrazia”. Perché non divenga mai immagine di una società in cui vige la legge del più forte, o del più “intoccabile”, bensì si faccia teatro reale delle mille esperienze (spesso anche drammatiche) del quotidiano. Non una “fabbrica” dunque “di piccoli egoisti” pronti a fagocitare ogni cosa e a trasformarla in futuro strumento di offesa, ma una più umile e genuina “casa” ospitale dove ciascuno impari prima di tutto a riconoscere la propria unicità all’interno di un gruppo di altrettanto “unici” compagni e riceva stimoli per crescere insieme a ciascuno di loro arrichendosi reciprocamente della propria unicità. Un luogo nel quale si impari a riflettere sul senso profondo di ogni parola; si pensi ad esempio a cosa significa per l’appunto il termine “compagno”: CUM… PANIS… Ovvero “colui che mangia e divide il pane con qualcun altro”. Beh, nella mia scuola ideale, “condividere il pane” poteva voler dire anche presentarsi in classe con un quadro astratto e, senza dire nulla, chiedere che mi guidassero ad un incontro più vero con esso. Ogni loro considerazione o interpretazione contribuiva a completare l’immagine: “Per me il quadro rappresenta la vita di tutti i giorni, infatti raffigura l’immagine di due palazzi. Il colore gli dà il significato: il giallo e il verde rappresentano l’allegria che si può provare in una giornata, le poche tonalità di bianco rappresentano la poca serenità che esiste, il rosso rappresenta per me la stanchezza di quando si torna a casa dopo una dura giornata; in qualche modo il blu e il rosso si collegano, perché per me il blu rappresenta la notte in cui la mente si libera dalle sue catene che sarebbero i pensieri. I due palazzi rappresentati sono collegati da una striscia di colore e, per me, questo significa che gli uomini trascorrono la stessa vita e, prima o poi, provano gli stessi sentimenti”. Queste parole di Letizia mi avevano dato più di un semplice spunto di riflessione. Mi veniva soprattutto da pensare a quelle particolarissime e suggestive interpretazioni dei colori del quadro… Nella notte, per finire, mi sarei davvero liberato da tutte le mie catene? Infilatomi
il pigiama, entravo nel letto ancora con il foglio in mano: volevo
tornare a leggere di quella striscia di colore che sembrava collegare i
due palazzi. Poi, visto che la stanchezza aveva ormai preso il
sopravvento, spensi la luce e cercai di dormire. Non sarebbe di certo
stato difficile. E’ ORA DI LASCIARE L’ALBERGO?
Alle 8:00 in punto ero sveglio e pronto a tuffarmi nella nuova giornata che mi aspettava: un giovedì come tanti? Forse sì, ma di certo non come quelli più recenti nei quali mi ero abituato al mio gruppetto di ragazzi vivaci e disarmanti sempre pronti a ridere di tutto. Per fortuna che la loro era anche una sanissima vivacità mentale che permetteva di raggiungere buoni livelli di apprendimento col minimo sforzo. Quando sapevano gestirsi, o quando magari si degnavano di ascoltare chi suggeriva loro come fare, difficilmente non arrivavano a cogliere ottimi risultati. Questo mio giovedì, invece, tornava ad essere un punto d’arrivo, la fine di una bella parentesi che forse proprio sul più bello si chiudeva: la supplenza era finita e, a dirla tutta, avevo ancora un sacco di cose da fare. Con verifiche di rito ed interrogazioni varie la situazione era a posto: avevo già trascritto tutto quello che dovevo sul registro della professoressa che sostituivo. Di storia e geografia avevo persino portato a termine il programma; sicuramente, per quanto riguarda la parte antologica di italiano, la titolare di cattedra avrebbe svolto un paio di argomenti nuovi. Per la parte grammaticale, i ragazzi avevano superato in maniera quasi brillante i miei spietati (e un po’ attempati, a dire il vero) esercizi di analisi logica e mi ritenevo decisamente soddisfatto. Mi restavano da leggere gli ultimi tre lavori di “interpretazione” del quadro e poi dovevo decidere come valutare questo inconsueto lavoro che avevo richiesto ai ragazzi. Con buona probabilità avrei finito col quantificare un voto da inserire nel criterio specifico di valutazione relativo all’ “ascolto”; nulla inoltre mi impediva di dare un voto anche sulla “produzione della lingua scritta”. Avevo intenzione di arrivare a scuola un po’ prima proprio per sistemare tutto questo. Quel giorno infatti avevo lezione solo alla III e alla IV ora: le avrei impiegate entrambe per sentire cos’era restato ai ragazzi delle due “uscite” che avevamo fatto assieme: una al Porto di Claudio e al Museo delle Navi, l’altra per le strade e le chiese di Roma “Barocca”. Entro la terza ora era indispensabile che riuscissi a leggere gli ultimi tre lavori e che trascrivessi tutti i voti sul registro. Era per questo che mi ero svegliato così presto. Dopo la consueta colazione abbondante, scesi in garage, accesi il motore e la radio della macchina ed iniziai con buona lena a percorrere, per la penultima volta, quel tragitto che ormai mi era divenuto familiare. Mancavano ancora una decina di minuti alle nove quando, fermata la macchina su una piazzola circondata da alberi, a due passi dalla pineta di Ceri, iniziavo a sfogliare il lavoro di Davide: “Questo quadro mi fa pensare ad una porta dietro la quale si può affermare tutto, ma ora mi sono accorto che può assomigliare a una via nascosta e anche ad un buffo labirinto. Un’altra immagine che riesco a intravedere sono due persone che conversano tra loro”. Non una parola di più, nel più classico stile di Davide: in un’ora di osservazione, non aveva tirato fuori più di cinque righe scritte di fretta e quasi distrattamente. Come negare però che il suo lavoro, pur nella sua rapidità e sommarietà, suggeriva addirittura quattro strade, una più suggestiva dell’altra, per “leggere” il quadro. Beh, questa era proprio l’immagine adatta a descrivere un alunno sempre impegnato a fare qualcosa di diverso e sempre distratto, ma dalle enormi potenzialità pronte a trasformarsi in qualcosa di molto concreto ogni qualvolta l’attenzione si dimostrasse in grado di soffermarsi anche solo per qualcosina di più di un semplice istante. Era per questo che non mi sentivo di perdonargli nulla durante compiti ed interrogazioni: si trattava di un grande talento troppo spesso gettato volutamente alle ortiche. Claudia invece, dettagliata e rigorosa come il solito, aveva scritto: “Per me questo quadro rappresenta un edificio visto dal pittore in due diversi modi: una casa considerata da alcune persone da distruggere e una casa considerata accogliente dalla pittrice. Le linee esterne che formano un rettangolo che si sviluppa in altezza e i quadrati presenti in esso mi danno proprio l’immagine di un edificio. Il verde nelle finestre mi rappresenta il verde delle foglie che ornano i tulipani (per me rappresentati dal rosso). Ma solo il rosso nelle finestre rappresenta i tulipani, mentre quello fuori dalle finestre per me è il simbolo dell’amore che la pittrice prova verso la propria casa e la sfumatura di bianco sulla porta rappresenta l’accoglienza che la casa offre alla pittrice. Il blu, per me, sono le persone che per motivi di lavoro vogliono distruggere l’edificio, mentre il verde fuori dalle finestre rappresenta la paura della pittrice di perdere la sua casa. La sfumatura di blu e di rosso che va dal basso verso l’alto per me esprime la tranquillità che aumenta man mano che ci si allontana dal mondo”. Forse c’era qualche “rappresenta” di troppo, ma si trattava di una lettura decisamente approfondita. Mi
rimaneva un solo lavoro da leggere, quello di Virginia. Non sapevo
ancora che quello che avrei letto, di lì a qualche minuto, sarebbe
stato in grado di sprofondarmi in una dimensione quasi sospesa dalla
realtà. Così infatti aveva scritto Virginia: “Giallo, verde, blu,
rosso, rosa, bianco, linee verticali e orizzontali, sfumature, un
miscuglio che all’apparenza potrebbe non significare nulla, ma se lo
si guarda attentamente ci si potrebbero vedere cose inimmaginabili.
Luci, colori, oggetti, si può vedere di tutto, e tutto è giusto e
tutto è sbagliato, ci si potrebbero passare ore ed ore davanti a questo
quadro ed anche il più grande enigmista non troverebbe mai una
risoluzione. Forse non c’è. Personalmente vedo un albergo, capi
d’abbigliamento, finestre, luci, ma tutto ciò è sbagliato: secondo
me, la pittrice non voleva rappresentare nulla di materiale, di reale,
ma forse voleva solo rappresentare il suo stato d’animo, confuso in
quel momento, voleva sfogarsi, confidarsi, esprimere con il –suo-
miglior modo: la pittura. Il “mio” albergo non ha una vera forma,
non ha delimitazioni; delle linee che dovrebbero delimitarlo si riesce
solo a vedere l’inizio. E’ un albergo, un albergo infinito, spezzato
ogni tanto da colori, sfumature e luci. Dentro, il tramonto con le sue
sfumature rosate dà un tocco di sensibilità, di morbidezza a questo
quadro che può rappresentare tutto e niente allo stesso momento”.
Tra me e me riflettevo: “Anche il mio albergo non ha una forma!”. Tutto cambia repentino e costante, nulla si propone uguale a se stesso, tutto si gioca sul fatto di sapersi di continuo reinventare senza snaturarsi o perdere la propria identità. Via dei Matti, numero zero, un indirizzo precario tra immaginazione e realtà: forse l’indirizzo di tutte le scuole possibili, forse l’unico punto di riferimento per avere un’idea di stabilità almeno sommaria per il mio albergo in continua evoluzione. Ormai avevo la testa tra le nuvole… Quasi non mi ero reso conto del suono della campanella che mi reclamava in II B per le ultime due ore di supplenza. Anche in classe il tempo scivolava via come se non ci fosse davvero più nulla a trattenerlo. Anche gli ultimi segni tracciati dalla mia penna blu sul registro sembravano scivolar via più facili e, mentre controllavo la situazione delle assenze e trascrivevo l’argomento della lezione del giorno, i ragazzi erano impegnati in una verifica sulle due “uscite” più recenti. Avevo già potuto rendermi conto, passeggiando come di consueto tra i banchi, che sembrava non esser loro sfuggito nulla del Porto di Claudio e di Traiano: ricordavano anche i particolari meno importanti. Dell’uscita a Roma erano invece rimasti affascinati dalle suggestive illusioni ottiche della volta affrescata della chiesa di S.Ignazio. Ricordavo bene, facendo un breve salto indietro con la memoria, che anche durante l’uscita si erano fermati un bel po’ con il naso all’insù ad ammirare gli insoliti virtuosismi di quelle pitture. Beh, dovevo proprio ammettere che qualcosa di positivo quelle due giornate trascorse lontano da scuola avevano lasciato nelle loro teste: c’era da ritenersi soddisfatti. Pochi minuti prima che anche la seconda campanella portasse via la mia ultima ora trascorsa in quella classe (sembra incredibile quanto possa volare il tempo in determinate situazioni!), alla porta dell’aula aveva bussato Oriana per avvertirmi che era arrivata una telefonata per me. Giusto il tempo di chiarire alcune cose con la segreteria della sede centrale dell’Istituto Comprensivo ed ero di nuovo in classe per sfruttare gli ultimi attimi dell’ora per i saluti: si respirava un’atmosfera da ultimo giorno di scuola e, in fondo, per me lo era. Il suono della campanella era stato messo a tacere da un coretto improvvisato dai ragazzi che, nel loro ultimo saluto, mi regalavano l’ennesimo assaggio della loro caratteristica vivacità. Mentre ancora gridavano a gran voce il mio nome, forse cogliendo il pretesto del mio congedo per allenare l’ugola in vista dei mondiali di calcio ormai alle porte, scivolavo via dalla classe col sorriso sulle labbra, dopo avere augurato a tutti una buona conclusione di anno scolastico.
Li sentivo ancora strillare e, soprattutto, sentivo le urla della
collega dell’ora successiva che tentava invano di riportare la
situazione alla normalità (“Ogni scusa è buona…” pensavo dentro
di me) quando, dal registro che tenevo sotto braccio, avevo visto
scivolare a terra un piccolo foglio a quadretti. Era piegato in quattro
e, dopo averlo raccolto e aperto, potevo leggere: “Caro Toffoli,
ora lei andrà in un’altra scuola dove avrà altri alunni ma non ci
dimenticherà mai; noi, per lo meno la maggior parte delle femmine, la
adoriamo. Lei è l’unico professore che ci abbia fatto ridere ed è
uno dei professori che sappia insegnare senza farci annoiare ed è
proprio questo che ci mancherà di lei. Non rideremo mai più. Ogni
giorno, ogni ora di questi due ultimi mesi li abbiamo passati con lei e
poi, in una settimana di maggio, sparisce come nulla. E’ come quando
ti svegli una mattina e conosci nuove cose, come è il mondo e poi
queste cose scompaiono come lei. Mi
raccomando, non pianga (io forse sì). I veri prof. non piangono. Tanto
lei anche se piange non ha bisogno di rifarsi il trucco, io sì. Ciao da Cristiana” Doveva averlo infilato nel registro mentre ero uscito dalla classe per andare a rispondere al telefono. Ero senza parole. Sfogliai curioso le prime pagine del registro e mi resi conto che di foglietti del genere ce n’erano altri cinque. Lasciai nel cassetto della professoressa tutto quello che dovevo lasciare e, foglietti alla mano, mi incamminai verso la macchina continuando a leggerli voracemente, uno dopo l’altro. Mi sembrava di volare… La lettera di Valentina si chiudeva con una richiesta: “…Quando avrà letto questa lettera deve promettermi che tornerà a trovarci alla fine dell’anno per poi salutarci!!! OK?”. Certo che sarei tornato. Non sarei mancato per nessuna ragione al mondo. Nel mio albergo infinito in Via dei Matti numero zero, da sempre era questo, senz’altro, lo stipendio più bello.
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