La
satira politica in televisione da Noschese a Grillo |
di
Francesco Borzini
Certo, non sempre chi
fa satira, in TV o sui giornali, usa davvero quest’arma spietata, per affinare
la proprie analisi della realtà e criticare, grazie ad essa, i mali della
nostra società insieme agli errori e gli eccessi del potere (castiga, ridendo,
mores!).
Più spesso, chi fa
satira non usa il riso per criticare il “potere”, ma parla dei potenti al
solo fine di suscitare il riso, così come potrebbe parlare dei carabinieri,
facendosi beffa di loro, magari anche con un filo di acredine, ma in maniera
sostanzialmente bonaria ed innocua: carri di Viareggio ambulanti, cagnolini che
abbaiano molto, ma mordono poco o niente.
Tali sedicenti
“satiri” si comportano un po’ come i giullari di corte o come quei romani
che sussurravano all’orecchio dell’imperatore trionfante il loro memento
mori! Dai potenti sono infatti tollerati di buon grado: la loro presenza fa
tanto “democrazia” ed aiuta a far sfogare in una risata “liberatoria” la
rabbia popolare.
Del resto, la bonaria
caricatura del potente lo aiuta ad essere più vicino alla gente comune, più
avvicinabile, più popolare: i politici degli anni’60 non facevano forse la
fila per farsi imitare in TV dal pur bravo Noschese? “Bene o male, purché
se ne parli” è la legge aurea della TV, cui andrebbe aggiunto un
secondo, fondamentale, comma: “Ma entro certi limiti da non oltrepassare”.
Fuori dai limiti di
tale giullaresca tolleranza, escono spesso coloro che, invece, hanno una ben più
alta idea di cosa significhi fare satira, nel loro usare non la politica “per
far ridere”, ma la risata, o lo sghignazzo arlecchinesco, ai fini di criticare
con veemenza il potere costituito. Quando poi tale critica non si limita allo
sfogo di rabbia, ma cerca di essere il più possibile precisa e circostanziata,
con la pretesa più che legittima di usare, insieme alla frusta dell’ironia
(come diceva Puskin), il fioretto tagliente della ricerca
dettagliata nei contenuti, essa diventa intollerabile.
L’ostracismo da
sempre applicato contro il Beppe Grillo dell’assalto all’arma bianca contro
le grandi multinazionali o contro il Dario Fo della dettagliatissima analisi
fatta sul caso Calabresi, sono un esempio lampante di come la satira sia
accettata solo ove non pretenda di uscire dal suo recinto di bonari schiamazzi,
per parlare con la lucidità che
solo l’ironia può offrire, di cose serie.
Del resto sembra
proprio che il potere politico italiano non riesca a non considerarsi legibus
solutus, incapace com’è di accettare l’esistenza di qualsiasi altro potere
istituzionale (come la magistratura) o di fatto (come il giornalismo satirico e
no), che pretenda legittimamente di controllare il suo operato.
Quando si parla di
modello anglosassone, si dovrebbe pensare che il rigidissimo controllo
dell’operato degli “uomini pubblici” è una delle colonne portanti della
democrazia made in USA, in cui i politici considerano come
fastidioso, ma necessario, il “fiato
sul collo” dei giudici, dei giornalisti e, persino, dei comici più informati
e caustici.
(da Adesso n.25,
maggio 2001)