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Intervista ad ALESSANDRO BENVENUTI 

  "L'umiltà ti dà la libertà"

“Abbiamo messo una D davanti ad IO per non assumerci le responsabilità delle guerre”

di Arnaldo Casali

  Fu Francesco Nuti il nome che si impose di più tra i tre componenti del comico toscano dei “Giancattivi” (da “Iam captivus”, lo schiavo liberato) alla fine degli anni ’70 entrando nella schiera dei comici-registi che segnarono un decennio di cinema italiano. In realtà, però, Nuti non fu che una breve parentesi di quel trio: il suo posto, nella storia del gruppo comico, fu preso da ben altre quattro persone, tre prima di lui e una dopo. Leader indiscusso dei Giancattivi fu invece Alessandro Benvenuti, che lo fondò nel 1972 con Athina Cenci rivestendo sempre il ruolo di autore e regista degli spettacoli, così come del film di esordio: “Ad ovest di Paperino”, uscito nel 1982. Da allora Benvenuti ha portato avanti una carriera da outsider nel panorama dello spettacolo italiano, dividendosi tra il teatro e il cinema, il mestiere di attore e quello di regista, confezionando film originali come “Ivo il tardivo” o “Belle al bar” e interpretazioni memorabili come quella in “Soldati” di Marco Risi o “Compagni di scuola” di Carlo Verdone.

Lo abbiamo incontrato a Terni, dove ha inaugurato la Stagione di Prosa 2002-2003 con “Atletico Ghiacciaia”.

Come nasce “Atletico ghiacciaia”?

“Nasce dalla riscrittura di un altro mio testo, “Il mitico 11” portato in scena prima da Novello Novelli e in seguito ripreso in bolognese da Vito. Dopo queste due esperienze ho deciso di dargli la “stesura definitiva”, d’altra parte molti dei miei testi sono figli di una sperimentazione che dura anni. Alla fine di ogni anno medito sempre sul testo che ho messo in scena per capire le potenzialità che può avere ancora, perché per me la scrittura è una materia viva. In questo caso la caratteristica principale di questa nuova versione è l’aver assunto sul mio corpo di attore le caratteristiche fisiche e caratteriali di Gino, che poi è mio padre, ed è il capofamiglia nella saga dei Gori; è un personaggio talmente pieno di vita che ho pensato di estrapolarlo dalla trilogia per dargli caratteristiche di protagonismo assoluto. Rispetto alle altre due versioni qui il personaggio è più focoso, acceso, biliare, anarchico, politicamente scorretto”.

Perché?

“Perché i tempi cambiano, e con il passare del tempo a mio parere peggiora sempre di più la situazione in termini di rapporti umani, in termini di rispetto dei confronti degli altri, di correttezza. Più passa il tempo e più ci si sente autorizzati (e l’esempio viene dall’alto)  ad essere più furbi, scaltri, individualisti, consumisti. Gino quindi porta in questo spettacolo la sua visione del mondo, che poi è anche la mia”.

Nello spettacolo ci sono riferimenti molto diretti alla televisione, all’attualità, alla politica degli Stati Uniti…

“Il mio personaggio è un vecchio comunista e si assume le responsabilità di quello che dice. Sicuramente è una persona che ha perso il terreno da sotto i piedi, è un pensionato della SIP, un’azienda che non c’è più. Ma non è uno spettacolo sulla nostalgia; piuttosto su come un uomo può diventare una pila atomica”.

Gino dice: “Abbiamo messo una D davanti ad IO per non assumerci le responsabilità delle guerre”.

“Dietro a Dio c’è il business, così come dietro le guerre. Non esiste una ragione pulita e gli imbecilli sono da tutte le parti. Gino lo sa, per questo è molto disincantato e si rifiuta di dare ragione ad uno più che ad un altro e li manda a quel paese tutti quanti. E’ un uomo che sa che la storia, oggi, non la fanno le masse ma pochi potenti e che i media ci plagiano per convincerci chi ha ragione e chi no, invece alla fine poi sono tutti degli idioti”.

Crede che il ruolo dell’artista possa essere quello di scuotere le coscienze addormentate?

“Prima di meritarsi il titolo di artista ce ne vuole, comunque la ringrazio. Sicuramente il nostro dovere è quello di tenerci svegli, altrimenti è difficile svegliare qualcun altro. E poi è importante non sentirsi un eroe o un mistico, ma semplicemente una persona che attraverso il proprio impegno e la propria serietà progettuale riesce a tenere la postazione dentro una piccola, minuscola, fangosissima e schifosissima trincea. L’artista deve essere disincantato, avere meno opinioni possibili, rimanere aperto a tutto e non farsi portavoce di idee se non è sicuro di quello che dice. In questo grande enigma l’artista deve risultare un po’ enigmatico, con sé stesso soprattutto. Insomma abbiamo il dovere di dire delle cose senza credere di essere Dio né un suo succedaneo: dobbiamo dire alla gente: “Ti dico la mia con grande sincerità sperando che tu apprezzi lo sforzo che faccio di essere chiaro con me stesso. Se poi ti serve bene, altrimenti spero che comunque tu non rimpianga il biglietto che hai pagato per vedermi”.

Lei, almeno anagraficamente, appartiene alla generazione dei cosiddetti “Nuovi comici” che all’inizio degli anni ’80 si sono impossessati del cinema italiano come attori-registi-autori, ma che oggi – fatta eccezione per Moretti e Benigni – si sono tutti più o meno spenti.

“E’ molto facile avere paura nelle nostre condizioni, perché l’attore vive in un precariato tremendo, dorato, perché quando le cose vanno bene fai un sacco di soldi più o meno meritatamente, ma poi ti viene la paura che se non fai esattamente quello che vuole il pubblico tu possa essere spazzato via nell’arco di un secondo. Io mi ritengo una persona molto coraggiosa da questo punto di vista. Certo, ho paura di mettere a rischio il futuro della mia famiglia, delle mie figlie, ma non ho mai pensato fosse intelligente e giusto fare quello che vuole il pubblico. Io credo che con esso ci voglia un confronto diretto dove tu proponi delle cose tentando di sorprenderlo ogni volta. Penso questa sia una cosa molto facile a dirsi ma difficile a farsi, per fortuna io non ho mai aspirato al grande pubblico, mi sono sempre tenuto in disparte e quindi ho sempre avuto intorno a me della gente che si è abituata alla mia strana carriera, al mio modo di pormi sempre in discussione sulle cose, senza fare grandi rivoluzioni, perdendo ogni volta un po’ di persone e acquistandone altre. In questa misura io non ho né appartamenti, né barche, né conti in banca all’estero; sono una persona normalissima,  ricca solo della propria libertà, se posso permettermi questa frase un po’ ad effetto. La mia unica ricchezza è poter continuare a fare quello che mi piace”.

Lei è anche l’unico, tra i “Nuovi comici” a fare teatro. Questo sicuramente la aiutata molto a mantenere questa libertà.

“Certo, ma anche al cinema non ho mai fatto le cose che non volevo fare. Non ho mai incassato oltre i 10 miliardi, però  ho fatto dei film che anche rivedendoli oggi non sono delle bufale, a differenza di tanti film miliardari dei miei colleghi. Ho il senso della carriera a lunga scadenza, non mi piacciono le cose cotte e mangiate. Io non ho ancora fatto i miei capolavori, sto ancora studiando!”.

Un'altra differenza, rispetto ai suoi colleghi, è stata l’importanza che ha dato alla sua carriera di attore, sia comico che drammatico.

“Sto facendo un film anche ora, un'opera di impegno sociale sulla storia di Massimo Parlotto. Ma ho fatto anche molti cortometraggi di autori giovani, anche in ruoli da non protagonista perché magari ritenevo che quel regista lo meritava. Se posso dare una mano ad un giovane talento sono ben contento di farlo. E non è solo altruismo, far emergere un grande regista è anche un investimento! Non bisogna aver paura del talento degli altri”.

E’ questa paura che ha portato la sua generazione ad un cinema ‘autarchico’? Fatta eccezione per “Non ci resta che piangere” i nuovi comici non si sono mai confrontati tra loro. Solo lei lo ha fatto, recitando ad esempio per Verdone.

“Perché si dà molto più credito alla propria personalità che al prodotto artistico. Ce ne sono centinaia di attori e scrittori più bravi di me. Questo non vuol dire che io debba smettere di fare questo lavoro: ho tutto da imparare, e fra due anni sarò più bravo di quanto sono oggi. Non si può pretendere di essere il numero 1. Se anche lo diventi, presto ci sarà qualcun altro che prenderà il tuo posto. Le persone che hanno troppa stima di sé sono dei poveri idioti che saranno infelici tutta la vita. Sono persone che si negano la possibilità di sfruttare la propria intelligenza. Bisogna avere il coraggio della propria fragilità; è solo accettandola che non hai più paura e anche quando hai successo non ti senti onnipotente e sopratutto non pensi di essere migliorato solo perché hai incassato due miliardi in più”.

Invece questo delirio di onnipotenza mi sembra sempre più comune, anche nella cosiddetta scuola toscana: basti pensare a Pieraccioni, Panariello, Ceccherini…

“Capita a tutti che quando succedono grandi cose sono sconquassi. Se non si ha una filosofia del vivere molto presente, un autocontrollo continuo, è abbastanza facile esaltarsi. Pensare che improvvisamente sei diventato un fenomeno è una cosa non semplice da gestire. A me è capitato quando ho fatto “Nonstop” vent’anni fa. Pur essendo una persona molto strutturata mentalmente ho avuto un mese in cui ho perso i confini di me stesso, per fortuna poi mi sono ritrovato e mi sono detto: “guarda potenzialmente che imbecille sono anch’io”.

Per finire, da toscano, qual è il suo rapporto con la figura di Pinocchio?

“Il film di Benigni non l’ho visto. “Pinocchio” è un libro molto bello che amo molto, ma non ho nessuna fascinazione per la figura del burattino in sé. L’unico che è riuscito davvero ad appassionarmi  nel farlo è stato Carmelo Bene in teatro. La sua versione è davvero sublime, inarrivabile. Vera arte, altissima".

 

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