Il dibattito intorno a "L'ora di religione"
di Arnaldo Casali
Cardinali ipocriti e familiari atei – ma assetati di potere – cercano di convincere un pittore ateo a testimoniare a favore della tesi che vedrebbe la madre – in realtà donna stupida e bigotta – salire agli onori degli altari. In mezzo c’è una bellissima - e finta - insegnante di religione (di cui non si capisce però la funzionalità all’interno della vicenda) un duello con un nobile romano fautore del ritorno alla monarchia assoluta e tutta una serie di personaggi grotteschi e surreali che fanno discorsi grotteschi e surreali. E si finisce per non capire se Bellocchio volesse raccontare la storia di un incubo mistico o denunciare la fabbrica dei santi della Chiesa; in quest’ultimo caso dimostra di non conoscere minimamente i meccanismi che muovono i processi di canonizzazione: è vero che ci sono dietro interessi economici e giochi di potere (basti pensare al mercato che c’è dietro Padre Pio o alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei) ma è ridicolo pensare che la Chiesa possa santificare una donna uccisa solo perché diceva al figlio di non bestemmiare, e solo – oltre tutto – per dare potere alla famiglia. Allo stesso modo prelati come quelli che si vedono nel film sono totalmente irreali (non si è mai visto un cardinale così giovane!) così come lo è l’ipocrisia sistematica che Bellocchio vede nei cattolici (il cinismo è una realtà quotidiana nelle Curie, ma non si può pretendere che tutti i cristiani siano degli ipocriti).
La verità è che la visione di Bellocchio del mondo sembra sia ferma al secolo XIX. Siamo nell’era della globalizzazione, del potere delle multinazionali, e l’autore di “Pugni in tasca” vede ancora il mondo regolato da clero e nobiltà. D’altra parte anche la sua “buona fede” artistica è molto dubbia: le due bestemmie che hanno reso celebre il film sono meticolosamente (e rozzamente) preparate per tutto il primo tempo con il protagonista che grida “Porca… Porco…” (con tanto di puntini di sospensione) e ralenty e musica che anticipano e seguono le due celebri imprecazioni nella scena clou del film, totalmente privata – oltrettutto – di qualsiasi contesto e motivazione.
Mettere una bestemmia in bocca ad un pazzo, è stato notato da più parti, è una vigliaccata colossale: quell’imprecazione non è né un’invocazione al divino (una preghiera al contrario, un atto di disperazione) ma nemmeno un’ostentazione di disprezzo nei confronti della Chiesa e della religione. Non è Nulla, perché messa in bocca ad un pazzo, ad un uomo che non è cosciente delle sue azioni. Alla fine, quindi, inserita così clamorosamente all’interno del film risulta essere molto palesemente una provocazione gratuita, un mezzo – anche piuttosto rozzo – per fare scandalo, per trasformare un film mediocre nel caso cinematografico dell’anno.
Non ci scandalizza, la bestemmia, vogliamo dirlo molto chiaramente: Bellocchio non è né il primo né l’ultimo artista (se di artista si può parlare) ad aver inserito un’espressione blasfema in una sua opera. Lo avevano fatto – tanto per fare due esempi – Andrea Pazienza nei suoi fumetti ed Enrico Brizzi nel suo secondo romanzo, “Bastogne”. E nessuno si era scandalizzato. La bestemmia fa parte del quotidiano, se si vuole mettere in scena la realtà senza scrupoli non c’è nulla di così clamoroso ad inserire espressioni forti e sgradevoli ma che fanno parte del linguaggio comune.
Ma Bellocchio è in cattiva fede. D’altraparte altrettanti dubbi sulla sua buona fede la lascia la scelta di scegliere come protagonista un pittore, per leggere poi sui titoli di coda che quei quadri – che nel film vengono definiti ‘capolavori’ – sono opera dello stesso Bellocchio.
Insomma fa la festa e se la gode. Mette insieme un film con una sceneggiatura scritta con i piedi, le musiche messe a caso (che c’entra Capossela con una festa romana di clero e nobilità?), le non-recitazioni di tutti gli attori (ad eccezione del grande Castellitto che ce la mette tutta per dare credibilità al suo personaggio) e un ‘messaggio’ profondamente stupido e incoerente.
Eppure ha centrato il bersaglio: il film inspiegabilmente ha raccolto successi ovunque, probabilmente perché – come spesso capita – da “Pugni in tasca” in poi Bellocchio è un “autore”, è un “artista”, è un “mostro sacro” e quindi qualsiasi cosa faccia merita la considerazione dei critici.
D’altra parte paradossalmente il film – che è totalmente anti-cattolico, anti-cristiano e anti-religioso – ha ottenuto il plauso anche di una buona parte della Chiesa cattolica.
Di quella parte della Chiesa, probabilmente, che essendosi oramai auto-etichettata come aperta, tollerante, disponibile al dialogo, deve necessariamente valorizzare quello che i conservatori attaccano.
E così se quattordici anni fa la visione di un film interessante (anche se certamente non un capolavoro) come “L’ultima tentazione di Cristo” veniva addirittura proibita ai cattolici, oggi il manifesto anti-religioso di Bellocchio vince a Cannes il premio della “Giuria Ecumenica”, composta da sacerdoti e apprezzato da molti cattolici. Un film che certo di ecumenico ha ben poco, visto che afferma senza lasciare spazio alle repliche che la Chiesa è solo oscurantismo, potere e ipocrisia.
Come mai?
Con un po’ di cattiveria potremmo dire che il film offre un’immagine talmente fasulla, talmente datata della Chiesa che non può seriamente danneggiarla; nessun cattolico, nemmeno il più conservatore o il più corrotto dal potere si può seriamente identificare nel ritratto di Bellocchio, chiunque può quindi dire: non è quella la nostra Chiesa. Non è questa la Chiesa che vogliamo. Fa bene il regista a condannarla!
D’altra parte, la tendenza degli ultimi anni della Chiesa cattolica è quella di fagocitare i propri nemici, piuttosto che di combatterli. E con Bellocchio c’è riuscita benissimo. Dopo i premi e le critiche positive il lupo è diventato un agnellino, l’anti-clericale ora è quasi simpatizzante. E il film anti-cattolico è diventato il film “su un uomo che non si arrende all’ipocrisia”.