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Diario dal set di "Pinocchio"

  Cronache dal paese 
dei balocchi

di Arnaldo Casali


Dopo otto mesi di attesa, il 28 novembre a sera, finalmente, si rompe il lungo silenzio: la telefonata attesa da una vita: convocato a Papigno per la prova costumi: sarò uno dei bambini nel Paese dei balocchi.

Mentre proviamo pantaloni e camicie, rigorosamente ottocentesche e scarpe superga (scelta di Donati) arrivano i Fichi d’India. Hanno già finito le loro scene, ma continuano a venire sul set per chiacchierare con le sarte o per mostrare le bellissime scenografie alle figlie. Sono  incontenibili, come in televisione: una raffica di battute, barzellette,  gag con tutti noi.

Ancora qualche giorno di attesa, e poi finalmente le riprese: la convocazione è per le 6 di mattina, la procedura è: costume, capelli, trucco e colazione nella mensa.
Poi, verso le nove e mezza, si entra nei teatri di posa.

Quando faccio finalmente il mio ingresso nell’immenso Teatro 1 la prima impressione è deludente: mi aspettavo un paese e mi trovo in una sorta di grande salone delle feste con il pavimento colorato, dipinti ovunque e tanti giocattoli giganti; gli edifici  non sono altro che case delle bambole grandi a dismisura e semovibili. Anzi, il ruolo meno ambito, tra le comparse, è proprio quello degli ‘spingitori di case’: bisogna stare là dentro, invisibili, a muovere il giocattolone, mentre gli altri fuori giocano. E giocano davvero!

Se riesci a svignartela quando chiamaano gli ‘spingitori’ e ad impossessarti di uno dei giocattoli in scena in quel momento puoi davvero divertirti.

In dieci giorni duelliamo con le spade di legno, corriamo sui monopattini a forma di animali,  sventoliamo farfallone e girandole, cavalchiamo cavallucci di legno, tiriamo le freccette addosso al grillo parlante, corriamo sui sacchi (e le  scorrettezze, bisogna dire, si sprecano) suoniamo trombette di carta e tamburelli al seguito di una banda ‘vera’.

Siamo davvero nel paese dei balocchi: pagati centomila lire al giorno per giocare, aspettare,  aspettare, aspettare e poi rigirare pazientemente per decine di volte quindici secondi di scena per una mattinata intera.

L’atmosfera è
cameratesca:  i bambini del paese dei balocchi sono quasi tutti studenti del liceo o all’università; molti sono attori dilettanti militanti un po’ in tutte le compagnie ternane. Per passare il tempo si organizzano scherzi che colpiscono i più ingenui. Un giorno si sparge la voce che stanno facendo provini per fare gli asinelli. Vengono  organizzate finte audizioni a spese di alcuni sprovveduti e con la complicità di alcuni assistenti alla regia. Uno viene mandato a ragliare addirittura dall’aiuto regista, Alberto Mangiante, colui manovra i fili  di tutti noi: Roberto Benigni, invece, come regista è esattamente come  ci si aspetta che sia: si limita ad osservare il lavoro di Dante Spinotti ­ il direttore della fotografia - e Mangiante  e a dare qualche  indicazione.

Le scene di massa del paese dei balocchi sono tra le più
difficili e delicate del film: Benigni osserva la scena appena girata sul monitor con le braccia tese, all’indietro, muovendo le dita come se  stesse maneggiando un anti-stress; è buffo anche quando non vuole  Benigni: ricorda un po’ i tic di Johnny Stecchino. Non si rivolge quasi  mai a noi comparse, anche se quando sta in mezzo a noi per girare una  scena (come quella della mosca cieca) si sofferma a spiegarci un po’  tutto: come funzionano gli effetti speciali,  cosa succede in quella  scena, che significano le sigle scritte sul "ciak", ma anche il simbolismo nascosto delle scenografie, come quella  raffigurante una donna che si apre per far penetrare Pinocchio dentro  due specchi rossi. “Invidia della vagina” riassume Benigni.

Un giorno lo sto osservando mentre la sarta gli apre la giacchetta per sistemargli il microfono. Lui mi guarda impassibile e ad un tratto fa:  “Visto che fisico? E nemmeno un’ora di palestra! Tutto dono di natura,  non ci credi, eh?” . E inizia una sorta di gag come sulla celebre scena de "La vita è bella".

In questi dieci giorni di ripresa alterna il vestito di ‘carta fiorita’  di Pinocchio con tanto di cappellino di mollica di pane (attaccato direttamente sui capelli), a quello da ‘regista’ molto felliniano:  cappotto nero, occhiali da vista e sciarpa rossa. D’altra parte il  freddo è quasi intollerabile.

Gli studios non sono ancora completati e i riscaldamenti non ci sono, e poi le scene che giriamo sono tutte ambientate più o meno d’estate.

Il paradosso è che in piena
estate avevano girato le scene con la neve e ghiaccio e stalattiti finte fanno ancora bella mostra di sé nella grande fontana, sistemata   fuori dei teatri, all’aperto, mentre adesso che noi giriamo in maniche di camicia, fuori gela.

E un giorno nevica davvero. Quel giorno c’è anche Nicola Piovani, sul set, insieme a Nicoletta Braschi  e a Benigni. D’un tratto si ‘sparge la voce’ che sta nevicando.

Piovani, Braschi e Benigni fermano il lavoro e escono fuori, a  guardare.

Da che mondo è mondo se c’è una cosa immancabile su un set sono i  “cestini”; a Papigno, invece, i cestini non ci sono, perché c’è la  mensa. Anzi, tre; e anche qui regna una fantozziana gerarchia: la  mensa delle comparse è senza i riscaldamenti, con i tavoli di  plastica e un rigoroso controllo dei buoni pasto.
La mensa della troupe  non ha la fila chilometrica, in compenso ha i tavoli di formica e la saliera su ogni tavolino. La mensa VIP nessuno l’ha mai vista, ma si narra che ci siano posate in oro massiccio, poltrone in pelle umana e cameriere in topless. 

Fare la comparsa può significare tante cose: puoi essere una delle centinaia di persone che ‘passano’ in una scena di massa, ma puoi avere anche un primo piano, persino qualche battuta. Io ho capito che non l’avrei mai avuta quando, prima di girare la scena della torta gigante, Benigni si è messo a cercare una comparsa per una scena ‘solista’ e io  ero proprio lì, davanti a lui, con un’espressione  molto invitante: Benigni si avvicina, mi tocca una spalla, poi mi sposta indica uno dietro di me e fa: “Ecco, questo qui ha la faccia simpatica”.


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