Montaggio assassino, sceneggiatura infantile, attori allo sbaraglio, scenografie sprecate
"Pinocchio", che delusione!
di
Arnaldo Casali
“Non ne posso più di vedere questo film”. Così il direttore di produzione di “Pinocchio” commentava fuori del cinema dopo la prima proiezione pubblica del film in presenza dell’autore. Certo il fatto che a due giorni dalla sua uscita il kolossal più atteso della cinematografia italiana abbia già stancato uno dei più importanti componenti della troupe non è proprio un segnale buonissimo. Così come non è un buon segnale il fatto che il film sia stato stroncato da quasi tutti i critici italiani tanto da innescare una polemica con Vincenzo Cerami. Il peggio, poi, è che anche molti dei centinaia di spettatori che hanno invaso le sale nel primo fine settimana di programmazione battendo ogni record, all’uscita dal cinema si sono detti molto delusi, fatta eccezione per i bambini.
D’altra parte, per quanto sia l’affetto che ci lega a questo film non possiamo negarlo: “Pinocchio” è brutto. E’ fondamentalmente un film non riuscito: affascinante, spettacolare anche divertente, ma alla fine dà l’impressione di essere un giocattolone senz’anima, uno spreco sciagurato di miliardi, scenografie, attori. Ed è un vero peccato, perché le carte in regola per essere un capolavoro ce le aveva tutte né gli mancava una sincera passione per Collodi da parte di chi ha messo in piedi il baraccone.
Perché quello di Benigni per Pinocchio è un affetto sincero, si vede, ma forse – dispiace dirlo – non è sostenuto dal talento necessario ad un’opera di questa portata, e soffocato almeno in parte dalle esigenze commerciali degli americani. Benigni è un grande comico, questo nessuno lo mette in dubbio. Evidentemente è anche un ottimo imprenditore e se la cava piuttosto bene come diplomatico, visto come è stato in grado di aggirare le polemiche a Sanremo. E nessuno vuole mettere in discussione il suo talento di attore. Ma per fare un kolossal come il suo “Pinocchio”, è inutile girarci intorno, ci vuole un grande regista. E non basta una nomination all’Oscar a trasformare un “nuovo comico” in un regista vero. Benigni, come i suoi colleghi Verdone, Nuti e Troisi (e i suoi figli degeneri come Panariello, Pieraccioni e Ceccherini) i suoi film se li è diretti solo per avere il controllo completo della sua opera, non per – non dico talento – ma almeno autentica passione per il lavoro di regista. Nei suoi film ha sempre lavorato sulle gag, sulla sceneggiatura, sulle sue prodezze comiche senza mai dimostrare interesse per l’inquadratura, la poetica, il lavoro sugli attori. Finché si fanno commedie all’italiana la cosa può anche bastare, quando si gira un kolossal da 90 miliardi il salto si fa più lungo della gamba. Come se “Titanic” lo avesse diretto Woody Allen o “Intelligenza Artificiale” fosse stato girato da Robin Williams.
La cosa peggiore del film è senza dubbio il montaggio, che ha falciato senza pietà le tre ore originali per ridurle a quella misera ora e quarantacinque assolutamente inadeguata alla ricchezza del capolavoro di Collodi, ma anche molto lontana dal progetto originario di Benigni, che ha ammesso egli stesso di aver dovuto – con rammarico – tagliare oltre 50 minuti di pellicola.
E si vede: il film sembra più un lunghissimo trailer di un opera che forse non vedremo mai piuttosto che il lavoro che ci si aspetta. Sono stati tagliati interi “capitoli” (come quello di Pinocchio a scuola) girati e mai montati, così come tantissime scene del film sono state fatte a pezzettini. Una per tutte quella del Paese dei Balocchi: un mese di riprese per un minuto scarso di film. Ma anche la sceneggiatura ha fatto la sua parte: Benigni non ha avuto il coraggio né di rileggere la fiaba originale né essergli fedele. Il finale “geniale” dimostra che gli autori non hanno voluto seguire né la lettura tradizionale “paternalista” – che vede il discolo disobbediente diventare finalmente un bravo bambino, né quella sessantottina, che vede invece il burattino come modello di libertà e anticonformismo, schiacciato alla fine dal Sistema borghese e perbenista.
Cerami e Benigni hanno invece voluto, come si dice, prendere “capra e cavoli” portando fino alla fine il modello collodiano del Pinocchio che diventa un ragazzo altruista e pieno di voglia di lavorare, inserendo però quel “guizzo” finale con l’ombra che abbandona Pinocchio mentre sta per entrare a scuola e fugge inseguendo una farfalla.
Anche il copione non è all’altezza: non è all’altezza, addirittura, dei film precedenti di Benigni, che avevano una costruzione di battute impeccabile: qui invece, ancora una volta gli autori non sanno scegliere tra il linguaggio-Benigni e il linguaggio-Collodi e il risultato è una sceneggiatura che sembra ‘improvvisata’ come una recita di bambini: battute ridondanti e ripetizioni inutili che stonano cn la frenesia del montaggio e l’eleganza della confezione.
Molto deludente (ma questo è un giudizio che non può che essere soggettivo) anche l’interpretazione di Benigni: qualcuno ha scritto che era molto più Pinocchio nel “Piccolo diavolo”. Ed è vero: Benigni Pinocchio ce l’ha dentro, non ha bisogno di recitarlo; ma proprio per questo, per paura di fare troppo il “Benigni” ha cercato di fare Pinocchio. Ma Pinocchio non si può fare, si può solo essere e il risultato è un Benigni che un po’ fa sé stesso un po’ fa l’imitazione stilizzata e goffa di un bambino.
Per quanto riguarda il resto del cast, a parte Kim Rossi Stuart (unico attore cinematografico) che ci regala un’interpretazione assolutamente impeccabile, deludono più o meno tutti. O per mancanza di spazio (Peppe Barra) o di buone battute (Bergonzoni e Pani, il giudice-scimmia, al quale è stata cambiata la battuta originale del libro con una molto più stupida e che ne tradisce completamente il significato anti-giustizialista) o per un impostazione troppo teatrale: in sostanza per mancanza, ancora una volta, di un vero regista a dirigerli.
Per i Fichi d’India un interpretazione discreta ma “inutile”. Non ci voleva una coppia di comici per fare quello che fanno loro. Esattamente come ha fatto con sé stesso, Benigni ha soffocato la loro comicità per paura di soffocare Collodi, ma il risultato è un’interpretazione totalmente inespressiva. Anche Comencini aveva scelto la coppia comica del momento per interpretare il gatto e la volpe, Ciccio Ingrassia e Franco Franchi: non facevano ridere, ma erano inquietanti come solo un comico sa essere.
Ma più di tutti delude Carlo Giuffré, che non regge minimamente il confronto con il Manfredi televisivo: intenso, commovente e comico insieme. Giuffré, tra i più grandi maestri del teatro italiano, è, appunto, teatrale, rigido, disorientato e, anche lui, ‘tagliato’ senza pietà. Ed è stata tale la sua delusione, dopo aver visto il film, da indurlo a scagliarsi violentemente contro Benigni in una serie di interviste (“Non gli voglio più bene” ha detto) proprio per il taglio di numerose sequenze a suo parere fondamentali.
Per finire, dispiace dirlo, ma deludono molto anche gli effetti speciali: con l’unico americano della troupe – forte dell’esperienza della “Tigre e il dragone” - sembrava dovessero essere da Oscar, invece no, sono da film italiano: belli, certo, ma – come si dice – si vede che sono finti: assolutamente non competitivi né paragonabili a quelli di qualsiasi grossa produzione americana.
Alla fine a questo film gli vogliamo bene lo stesso, perché alla fine è Benigni, alla fine è Pinocchio, alla fine è un film in cui abbiamo anche lavorato personalmente e ne abbiamo respirato quindi tutta la magia, ne abbiamo seguito l’intera evoluzione. Proprio per questo le nostre critiche sono così severe: perché non possono che essere all’altezza delle nostre aspettative, che erano tante. E’ vero, però che probabilmente Roberto Benigni, meglio di così, “Pinocchio” non lo poteva fare, e sicuramente, rivendendo il film, lo accetteremo per quello che è e non per quello che doveva essere: e tiferemo, con Giuffré, perché vinca tanti Oscar e diventi un grande successo internazionale.
Rimane quindi solo un unico grande rammarico: possiamo accettare, di quello che non ci è piaciuto, quello che dipende dalle capacità di Benigni o dalle sue scelte artistiche, ma non quello che è - con ogni evidenza – un’imposizione dall’alto dettata da ragioni squisitamente commerciali: e cioè il montaggio che, come detto, è davvero la cosa peggiore del film.
Perché “Pinocchio” non poteva durare tre ore? C’è bisogno di citare grandi successi recenti come “Titanic” o “Balla coi lupi” per accettare l’idea che spesso un ‘grande film’ è anche molto lungo?
Non c’è bisogno, basta la parola degli americani, che ci ricordano che un bambino tre ore al cinema non le regge. E “Pinocchio”, specie in America, è anche e soprattutto, un film per bambini.
L’unica speranza, quindi, rimane quella che Roberto ci ripensi (come ci ripensò per ‘La vita è bella’) e almeno per versione in videocassetta appronti un’edizione ‘integrale’ del film.