Adesso Online

 

Intervista a Renato De Maria regista di “Paz” e "Distretto di Polizia"

 

Andrea Pazienza e la “generazione degli invisibili”

 

Tre anni di lavoro per realizzare il film tratto dai fumetti del fondatore di "Frigidaire"

 

"Quelli della mia generazione che rifiutavano il sistema o sono diventati terroristi o hanno cominciato a farsi di eroina".

 

di Arnaldo Casali

Con "Distretto di Polizia" è riuscito in un'impresa quasi impossibile: assecondare i gusti del pubblico senza rinunciare alla qualità, e ha realizzato il migliore serial televisivo che si sia mai visto negli ultimi anni ottenendo anche un grandissimo successo di pubblico; un successo che gli ha permesso di coronare un vecchio sogno: girare un film tratto dai fumetti di Andrea Pazienza, il più grande artista del pennarello che il nostro paese abbia mai vissuto: amico di Freak Antoni e di Vincenzo Mollica, fondatore con Massimo Mattioli (il creatore di "Pinky" celebre coniglio rosa del "Giornalino") di "Frigidaire" e punto di riferimento imprenscindibile per tutti i fumettisti cresciuti artisticamente negli ultimi vent'anni.

Di Pazienza - morto per overdose nel 1988 a 32 anni - Renato De Maria è stato amico ai tempi dell'Università, quando Andrea - studente al Dams - muoveva i primi passi nel mondo del fumetto mentre De Maria girava video sperimentali.

"Paz", che vede insieme Zanardi, Penthotal e gli altri personaggi usciti dalla penna di Pazienza, racconta quindi anche quella generazione - detta comunemente del '77 - che viveva, secondo le parole di De Maria "con un approccio creativo alla vita, con un atteggiamento di curiosità e libertà".

Una generazione influenzata molto dal punk, dalla letteratura pulp, dalla fantascienza, ma anche dai gialli.

"Una generazione che voleva vivere al 100% rifiutando qualsiasi cosa potesse mettere in pericolo la propria libertà, intesa come libertà di non accettare i valori comuni, ma anche la libertà di non lavorare, di non fare il militare, libertà anche - al limite - di ammazzare il gatto della vicina che ti sta antipatico".

 

Secondo te quali sono stati i limiti di quell’esperienza generazionale?

“La dispersione gratuita di talento e di vita. E’ una generazione che non ha capitalizzato niente. Si facevano tante cose, nascevano ogni settimana riviste e radio libere, ma c’era questo ‘pregio maledetto’ che era il nichilismo, la vita buttata via per esistenzialismo poetico.

D’altra parte nessuno ci ha aiutato:  c’è stata una repressione fortissima a livello politico, tanto da destra che da sinistra. Per capire come fosse guardata, dall’una e dall’altra parte politica, la nostra generazione, basta leggere le recensioni a “Paz” pubblicate sul “Tempo” e sull’”Unità”. Rondi ha scritto “personaggi disgustosi e abominevoli”, Crespi: “avrei voglia di prenderli a schiaffi”.

Una violenza e un'intolleranza che continuo a trovare davvero inconcepibile, che ti fa capire però come la mia generazione sia stata davvero schiacciata contro un muro, massacrata dall’intero sistema politico, lasciandola quindi senza riferimenti. Poi c’è stato questo arrivo incredibile e improvviso delle droghe pesanti.  Quelli di noi che hanno rifiutato di integrarsi nel sistema o sono diventati terroristi o hanno cominciato a farsi di eroina”.

Andrea Pazienza è stato un vero e proprio mito per Enrico Brizzi, scrittore simbolo della nostra generazione, che gli ha dedicato i suoi primi due libri, “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e “Bastogne”.

Cosa credi che la vostra generazione abbia lasciato a chi è venuto dopo?

“Secondo me tantissimo, a parte Brizzi c’è tutta una generazione di scrittori che ha ripreso il modo di raccontare e i personaggi di Andrea. E la stessa cosa è successa anche nel cinema e nella musica, non solo nella letteratura. Ad ogni modo vedo strani parallelismi tra questa generazione e quella del ’77. Per esempio il rapporto con la classe politica: a Genova l’Ulivo non c’è andato, non ha capito l’importanza di quell’evento. Ogni volta che c’è una generazione che si ribella e vuole cambiare il mondo c’è un parallelismo con la nostra, perché è l’ultima che si è davvero ribellata; poi c’è stato il riflusso degli anni ’80, cui sono seguiti timidi tentativi: oggi finalmente c’è di nuovo chi scende in piazza”.

Credi che anche il "Popolo di Seattle" rischi di finire come i ragazzi del '77?

“No, credo e spero che questa repressione non si ripeterà.  D’altra parte penso che nei confronti delle droghe oggi ci sia un atteggiamento più consapevole; comunque mi sembra che i movimenti no global non abbiamo niente a che fare né con le droghe né con il terrorismo. Quindi i nostri errori non credo saranno ripetuti”.

Pazienza ha lavorato nel periodo d’oro del fumetto, ha vissuto la Pop Art, è stato contemporaneo di figure come Andy Wharol e Keith Haring. Oggi l’atteggiamento nei confronti del fumetto è diverso. Pensi che anche oggi Andrea Pazienza sarebbe considerato un grande artista?

“Allora il fumetto era molto più importante di adesso. Aveva un importanza nell’immaginario giovanile che oggi forse ha preso internet o altri media. Una rivista di fumetti vendeva moltissimo e faceva opinione. Quando Andrea pubblicò la sua prima tavola divenne subito famoso. Oggi sarebbe diventato sicuramente meno importante anche se era un talento così grande che penso sarebbe emerso comunque”.

Quale è stato il tuo rapporto personale con lui?

“Era il rapporto che avevo con tanti altri ragazzi che frequentavo. Un rapporto di vitalità, ricerca, sperimentazione, facevamo anche errori, ma cercando di stare sempre al centro della vita. Facevamo cose diverse: io realizzavo video sperimentali, lui faceva fumetti ed era il più famoso di tutti tra noi, era quello che era emerso. Poi c’erano ragazzi che facevano musica come gli  Skiantos – che sono anche nel film – che stavano inventando il rock demenziale. Insomma c’era un po’ di tutto: tante riviste, scrittori come Piersanti e Palandri… in generale c’era molto fermento. Anche persone che poi non hanno combinato niente, ma che erano geniali, creative. Poi c’è chi è emerso e chi si è inabissato prima ancora di riuscire ad esprimersi”.

Con “Distretto di Polizia” hai dimostrato che si può fare televisione popolare e di qualità.

“Ci ho provato. A me piacevano le storie. Per me che vengo dal pop era divertente fare storie seriali, e di genere. Posso dire di averlo fatto con grande entusiasmo”.

La mia impressione è che l'unica differenza rispetto agli altri sceneggiati fosse la qualità con cui erano curati tutti i particolari: regia, musica, scenografie, dialoghi…

“Non a caso gli autori sono due bravissimi scrittori: uno è Marcello Fois: è un giallista che ha pubblicato in tutto il mondo, mentre Gabriele Romagnoli è un giornalista che ha fatto cronaca nera per anni con Repubblica e la Stampa. Anche il produttore è molto bravo: ha fatto “Ultimo”, “Testimone a rischio”, “Un eroe borghese”. Tutti volevamo realizzare un buon prodotto".

Quindi non è vero che per assecondare il pubblico bisogna fare pessimi prodotti, basterebbe prendere gente brava.

“Persone di qualità, non mestieranti. La differenza sta tra chi lo fa per pagare le bollette e chi lo fa con passione”.

La seconda serie è stata affidata ad un altro grande regista cinematografico, Antonello Grimaldi, che ha collaborato anche con Ligabue per Radiofreccia. Ti è piaciuta?

“Sì… (ride e mi fa le corna) Sì!”.

La terza chi la farà?

“Una regista debuttante, che era la mia aiuto regista nella prima ed è stata regista di seconda unità nella seconda serie. Adesso è stata giustamente promossa, anche perché nessuno conosce meglio di lei ‘Distretto’”.

Ricky Memphis e Giorgio Tirabassi li hai portati in “Paz”, che ha un cast ricchissimo. Come lo hai messo insieme?

“Ho fatto un sacco di provini cercando facce nuove, che fossero ‘pazienziane’ e che avessero talento. Facendo un film tratto dai fumetti le facce non le puoi sbagliare. Per dirti, Max Mazzotta che fa Fiabeschi l’ho incontrato proprio sul set di Distretto”.

Ora cosa farai?

“Ho in cantiere una miniserie per la televisione e poi un altro film”.

 

Per saperne di più consulta il sito web www.pazilfilm.it