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Un incontro di due anni fa con Alberto Sordi 

Storia di un Italiano


  di Arnaldo Casali


Dodici anni fa, raccontando un incontro con un grande scienziato disse che questo gli aveva detto: "Vivere per sempre, tutto sommato sarebbe orrendo", ma l'albertone nazionale gli aveva risposto: "Sarà pure così, però se riuscite a trovare una medicina per non morire mai... a me non dispiacerebbe ad un certo punto della mia vita mettermi da parte e stare a guardare".

Invece da una parte a guardare, Alberto Sordi, non ci si è messo mai: l'ultimo film come regista, autore e protagonista risale a meno di quattro anni fa e le sue apparizioni in pubblico non si sono mai fermate. 

Alberto Sordi è stato il più grande protagonista del cinema italiano, forse il più grande di tutti: comico straordinario grande anche nei ruoli drammatici, regista mediocre e consapevolmente - quasi ostentatamente - qualunquista (indimenticabile il grido di Nanni Moretti "Rossi neri tutti zozzi tutti uguali? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi!") ha raccontato - come lui stesso amava ripetere - un secolo di storia italiana: cinquant'anni li ha vissuti, gli altri cinquanta li ha raccontati con film "retroattivi" ambientati nella prima metà del Novecento.

Tutti parleranno di Alberto Sordi, adesso. E non ce ne sarebbe bisogno perché sicuramente non c'era un attore più popolare di lui, penultimo superstite della sua generazione (Tognazzi, Mastroianni, Gassman. E ora rimane solo Manfredi). Quindi è inutile che ci dilunghiamo anche noi in ricordi e celebrazioni: possiamo solo ripetere le parole di Manzoni alla morte di Napoleone: "La sua morte mi colpì come se al mondo venisse a mancare qualcosa di fondamentale, una parte stessa del mondo". Che sia morto Sordi, davvero non lo si riesce a credere; d'altra parte di scomparse illustri negli ultimi tempi ce ne sono state fin troppe, da Giorgio Gaber a Gianni Agnelli, ma abbiamo evitato di allungare l'elenco dei coccodrilli. 

Di Sordi, però, abbiamo un ricordo personale: lo incontrammo a Roma nel 2000, in occasione del restauro  del film Una vita difficile, che Sordi aveva  presentato  agli studenti dell’Università “La Sapienza” di Roma rispondendo poi alle loro domande sulla sua vita e sulla sua carriera. 

E, partendo proprio dal titolo del film, potremmo dire  che la vita del più popolare attore italiano è stata tutt’altro che difficile: un’infanzia serena, un’esperienza religiosa senza dubbi o turbamenti («Ho ricevuto un’educazione cattolica che non ho mai messo in discussione»), un esordio giovanissimo nel campo dello spettacolo come comico in radio, al cinema come doppiatore di Oliver Hardy, e poi tutta una serie di film che l’hanno reso l'attore più famoso del cinema italiano, addirittura l'emblema stesso dell’italiano medio.
Il protagonista della Vita difficile, invece, è molto lontano dal personaggio-Sordi: Silvio Magnozzi è un giornalista idealista e intransigente che non si piega ad una società fondata sull’automobile e la corruzione, sulla volgarità e sulla mediazione. Sordi ne prende le distanze. A chi gli chiedeva quanto gli somigliasse il suo personaggio rispondeva candidamente: «Poco: io sono un conformista. Non sono mai entrato in conflitto con nessuno. Ho sempre usato la diplomazia. Dopo aver preso un cazzottone la vita ti porta al compromesso proprio con chi te l’ha dato. Meglio arrivarci prima».

Come le è nata la voglia di far ridere la gente?

«Di far ridere non mi sono mai preoccupato. Fui cacciato dall’Accademia dei Filodrammatici a sedici anni perché parlavo male. Perché vedi, io parlo come la gente, io non dico tutto enfatico "Guerra!", io dico "guera"
E così ho approfittato del neorealismo, che nasceva anche da una condizione economica in cui versava il cinema italiano di quegli anni: a Hollywood si ricostruiva tutto in studio, ma da noi non c’erano soldi. La mia proposta era quella di continuare il neorealismo, non come genere drammatico però, ma con uno sfondo ironico. 
Ho sempre fatto personaggi negativi perché sono loro che fanno ridere, un personaggio tragico, un eroe non fa ridere. Nel 1983 ho sentito il bisogno di rappresentare un giudice integerrimo e girai Tutti dentro.
Quando uscì mi dissero: «Hai un po’ esagerato». Dieci anni dopo Di Pietro ha fatto esattamente quello che io avevo rappresentato nel film, e gli hanno chiesto: «Ma ti sei ispirato a Sordi?». E anche il finale è stato uguale, quando per fermare il giudice riescono ad incastrarlo ed incriminare pure lui. Perché quando si racconta la realtà si rappresentano o cose che sono accadute o cose che accadranno».

Nel film si parla di un personaggio che fa una vita difficile. La sua vita reale come è stata?

«Ho fatto del cinema la mia ragione di vita, e questo mi ha portato a sacrificare un po’ la mia vita privata. Ho fatto 190 film in cinquant’anni e se consideri i film retrodatati posso dire di aver avuto la soddisfazione di raccontare 100 anni della Storia d’Italia; così, vent’anni fa dalla mia carriera abbiamo tratto, un programma televisivo di 80 puntate: Storia di un italiano, che adesso aggiorneremo con gli ultimi vent’anni del secolo.
Nella mia carriera ho interpretato figli, fidanzati, mariti, padri; adesso faccio il nonno».

Il giornalista della Vita difficile è un partigiano, un uomo impegnato politicamente…

«Io personalmente non ho mai aderito a nessuna ideologia. Ero solo un attore che raccontava quello che vedeva. Non sono mai stato di sinistra e nemmeno di destra. Non ho mai accettato nessuna offerta, anche lusinghiera, dei partiti politici, proprio per poter essere libero di attaccare qualsiasi parte».

Qual è il suo rapporto con Roma, di cui è stato sindaco per un giorno, in occasione dei suoi ottant’anni?

«Ho visto tutto il mondo e ho capito che noi viviamo davvero nel posto più bello che c’è. Roma è un grande museo, è depositaria di tanti tesori trascurati, abbandonati a sé stessi non so per quali interessi. E questo perché viviamo in una società dove non conosci più chi ti sta davanti».

Che consiglio darebbe a chi vuole fare il suo mestiere?

«Io non ho mai dato retta ai consigli che mi hanno dato. Non avevo nessun virtuosismo, non ero bello né aitante. “Se lei vuole fare l’attore non può assomigliare alla gente” - mi ripetevano sempre a teatro - L’attore non parla il linguaggio della gente, parla un linguaggio suo”.
Poi ho trovato un altro ambiente, quello della rivista. Uno dei fan più accaniti del mio personaggio radiofonico era Vittorio De Sica. Si trattava di un personaggio che veniva dalla mia esperienza della mia vita con i “compagnucci della parrocchietta”. Ho sempre raccontato caratteri che conoscevo bene. Soprattutto, però, non mi sono mai reoccupato della reazione della gente: Il marito era un film che nessuno voleva fare; abbiamo trovato un produttore spagnolo, e il film è andato bene. Da allora tutti i produttori mi hanno dato carta bianca, e ho sempre fatto film che rispecchiassero il mio programma. Ho rifiutato centinaia di film, anche in America. Perché? Perché l’America non la conoscevo. Cosa potevo dire di lei?
Con Fellini ci siamo dovuti salutare perché io dovevo rispecchiare la realtà e lui doveva sognare. 
Quindi se vuoi fare l’attore devi chiedere a te stesso “Perché?”.
E poi bisogna amarlo, questo lavoro; se ti racconto i miei primi anni… avrebbero fatto desistere chiunque. Poi ci vuole anche un pochino di fortuna, incontrare quella gente che può introdurti nell’ambiente giusto».

CE LO SIAMO MERITATO