Non darsi pace
di
Arnaldo Casali
“Una giornata di così
grave pericolo e di lutto per l’Europa d’Occidente, per il cristianesimo e
per l’Italia, è difficile rintracciarla nella sua pur travagliata storia”.
Così cominciava
l’editoriale di domenica 16 febbraio del Giornale di Berlusconi. E
tutto sommato anche questo ci dà la misura di quanto importante sia stata la
giornata di sabato: 110 milioni di persone in tutto il mondo - di cui 3 milioni a Roma - manifestavano per la pace, per
scongiurare la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq.
Intanto Tarek Aziz,
braccio di Saddam Hussein, pregava (è cristiano) ad Assisi e incontrava il
Papa, mentre il cardinale Etchegaray – collaboratore di Giovanni Paolo II per
le missioni più delicate – incontrava Saddam Hussein.
Nel frattempo il
governo americano annunciava la rinuncia ‘ufficiale’ a stanare Bin Laden per
destinare in Iraq i soldati fino ad oggi addetti alla sua ‘caccia’ e
annunciava il programma delle operazioni militari, previste per la prima metà
di marzo.
I vertici mondiali
della spiritualità e della politica (Giovanni Paolo II e Kofi Annan) si
incontravano per scongiurare il conflitto, e dagli Usa veniva annunciato il
boicottaggio di alcuni formaggi francesi, inizio della ritorsione americana
contro il ‘pacifista’ Chirac, che insieme al cancelliere tedesco può
impedire all’Onu e alla Nato di dichiarare guerra al paese arabo, costringendo
così Usa e Gran Bretagna ad attaccare da soli mettendo in luce ancora meglio
l’illegittimità della guerra più assurda di cui si sia mai parlato
nell’era moderna.
Perché se gli stessi
pacifisti si interrogano se possa esistere una guerra “giusta”, sul fatto
che questa sia ingiusta nessuno ha dubbi. Ed è impressionante come – dalla
fine della guerra fredda – abbiamo assistito ad una serie di guerre
‘mondiali’ sempre meno giustificabili.
Nel 1991 la Guerra del
Golfo era scoppiata in difesa di un paese attaccato, il Kuwait. Anche allora
tutti sapevamo che dietro a quella ‘difesa’ c’erano in realtà interessi
economici. Anche allora sapevamo che gli USA la guerra l’avevano fatta per
arraffare il petrolio del paesino arabo e non certo per questioni umanitarie, ma
da un punto di vista formale, indubbiamente, le ragioni c’erano, tanto è vero
che quella guerra fu promossa dall’ONU, e allora davvero si poteva parlare di
un atto di ‘polizia internazionale’.
Anche nel Kosovo
l’unica cosa che potevamo ripetere era che – come disse Jovanotti a
Celentano – “Se pure una guerra è inevitabile non bisogna mai dire che è
giusta”.
Poi alla Casa Bianca
arrivò George Bush figlio, il più sanguinario dei candidati alla Presidenza
degli Stati Uniti.
Bush era conosciuto per
tre ragioni nel mondo: perché era figlio dell’ex presidente degli USA
(quello, appunto, della guerra del Golfo e del lungo embargo che è costato la
vita a migliaia di bambini iracheni, e contro il quale si sono pronunciati –
tra gli altri – anche Gorbaciov e il Papa) e perché, come governatore del
Texas (lo stato dei grandi petrolieri e quello dove fu ucciso Kennedy)
prima aveva liberalizzato il commercio delle armi a livelli da
scandalizzare lo stesso padre, poi si era distinto come il più acceso
sostenitore della pena di morte, raggiungendo il minimo storico di grazie
concesse e non fermandosi nemmeno di fronte a casi verso cui si era mobilitata
la comunità internazionale (uno per tutti quello di Karla Tucker).
Poi ci fu l’11
settembre, e il Presidente appena
eletto (e in, tra l’altro, molto anomale) sentì il dovere di essere
all’altezza della sua fama: cominciò a parlare di guerra prima ancora di
capire cosa era successo. Mentre i vigili del fuoco cercavano le vittime alle
Twin Towers rischiando la propria vita, lui cercava un nemico su cui vendicare
le vittime dell’attentato. Disse di voler combattere il terrorismo preparando
l’esercito e dando il via ai pregiudizi anti-islamici mentre la CIA dimostrava
che si poteva ancora entrare in un aereoporto con un taglierino.
Poi venne la guerra in
Afghanistan e facendo leva sulla (peraltro dovuta) solidarietà internazionale
gli USA cercarono di convincere il mondo che poteva essere giusta e legittima
una guerra contro un paese inerme, colpevole solo di proteggere il nemico
n.1 degli Stati Uniti: Osama Bin Laden, armato – vale la pena ricordarlo – dalla stessa America, ai
tempi in cui il nemico era l’Unione Sovietica. Secondo il motto “i nemici
dei miei nemici sono miei amici” la CIA aveva sostenuto gli afghani armandoli
contro l’URSS esattamente come fece con gli irakeni di Saddam Hussein, allora
in guerra con l’Iran di Khomeini, grande nemico di Reagan.
Così, l’anno scorso,
improvvisamente il mondo si accorse delle condizioni delle donne afghane e del
regime talebano, e decise che bisogna farlo fuori: si bombardò per qualche mese
una popolazione già massacrata dalla guerra civile, si distrussero come sempre
con le bombe intelligenti ospedali, abitazioni civili e interi villaggi, non
si riuscì a stanare Bin Laden (ma qualcuno aveva creduto seriamente di
poterlo fare?), si cambiarono i vertici del regime,
dopodiché si cominciò a parlare di un’altra guerra. E visto che non
c’erano altri nemici in vista, si optò per il jolly. Sì, perché ormai è
diventata una vecchia tradizione americana: quando non si sa chi bombardare, si
bombarda l’Iraq: dopo la fine della guerra del Golfo, infatti,
gli Stati Uniti hanno bombardato ben 13 volte il paese di Saddam, con
pretesti e motivazioni più o meno ‘nobili’: basti pensare a Clinton, che
tornò in Iraq per distrarre l’opinione pubblica sul caso Lewinsky (un caso da
manuale, si direbbe, visto che è la stessa storia raccontata in Sesso e
Potere con Hoffman & De Niro pochi mesi prima). L’ultima volta a
sganciare bombe era stato lo stesso George Bush Jr., appena diventato
presidente, nel febbraio del 2001, che si guadagnò così le critiche aperte
dello stesso Gorbaciov che pure lo aveva velatamente sostenuto in campagna
elettorale.
Non avendo altri
appigli, questa volta la presidenza Usa si è inventata addirittura il concetto
di “guerra preventiva”, perché certo che quello di “guerra petrolifera”
era un po’ troppo sfacciato, ma certo non più grave di un modello di attacco
che, se passasse, legittimerebbe qualsiasi guerra da parte di qualsiasi paese
del mondo contro qualsiasi paese da
esso ritenuto “pericoloso”. A meno che tutto il mondo, in barba all’Onu e
agli organismi internazionali, non siano disposti a riconoscere agli Stati Uniti
il ruolo di ‘polizia del mondo’, di arbitro totale, di monarca assoluto
in grado di stabilire a suo giudizio chi è “buono” e chi è
“cattivo”.
Per questo assume tanta
importanza la mobilitazione internazionale cui stiamo assistendo; la bandiera
della pace, davvero possiamo dire che sta colorando tutto il mondo: dalle
manifestazioni di piazza e dalle marce Perugia-Assisi, l’iride ha fatto la sua
comparsa sui balconi delle case prima, su quello dei municipi poi, e infine
nelle vetrine dei negozi, persino nei loghi di emittenti televisive come MTV o
di riviste come “Film TV”, per non parlare, ovviamente, dei siti internet.
Il 15 gennaio in Piazza
c’era davvero tutto il mondo: da Varsavia a Berlino, da Londra a Parigi, dalla
stessa New York a Roma, che ha visto - per la prima volta insieme - noglobal e
girotondini, fascisti e comunisti, cattolici e politici, Nanni Moretti e Roberto
Benigni, per non parlare degli habitué come Vittorio Agnoletto,
Jovanotti, Alex Zanotelli, don Vitaliano e Casarini.
C’era Rosy Bindi che
si aggirava tra i manifestanti e Massimo D’Alema che rispondeva alle
interviste (d’altra parte cos’altro ci fa a fare, lui, alle
manifestazioni?).
La Chiesa, tutta, è
scesa in campo, e non soltanto i soliti cattolici di prima linea come Rete
Lilliput, comboniani e Pax Christi; seguendo l’esempio dello stesso Giovanni
Paolo II, tutti i giornali cattolici, nazionali, regionali e diocesani, hanno
preso posizione contro la guerra, e così hanno fatto i vescovi, a cominciare da
quelli umbri, che hanno approvato un documento letto in tutte le parrocchie. Il
vescovo di Terni Vincenzo Paglia durante il solenne pontificale di San Valentino
ha ribadito che “Solo la pace è inevitabile” mentre Arduino Bertoldo,
vescovo di Foligno è stato
criticato pesantemente dal senatore Maurizio Ronconi per la sua partecipazione
ad un marcia promossa dal Comune. “Avrebbe modi più credibili – ha detto il
parlamentare democristiano – come quello della preghiera, per manifestare la
voglia di pace”.
D’altra parte
Bertoldo è in buona compagnia: la stessa cosa fu detta a Oscar Romero, e
ad ogni prete o vescovo che abbia osato – nella storia – unire alle
parole anche i fatti. Questa volta, d’altronde, l’invito è arrivato dallo
stesso Papa, che ha detto molto chiaramente che non basta pregare, ma bisogna
impegnarsi personalmente per scongiurare la guerra.
Davvero è tempo di
schierarsi, è nemmeno il tradizionalmente “equidistante” Vaticano si è
tirato indietro: a proposito della mancata diretta Rai della manifestazione L’Osservatore
Romano ha paragonato il Presidente della Rai Baldassarre a Ponzio Pilato.
E che dire di monsignor
Elio Bromuri, direttore del moderatissimo settimanale umbro La voce,
fondato nel 1953 con intenti dichiaratamente anticomunisti (il cuore d’Italia
è sempre stato rosso) che – citando Erasmo da Rotterdam
- ha scritto che “Una pace ingiusta è sempre migliore della guerra più
giusta” e ha ricordato che le analisi prevedono per questa guerra 5000 morti
americani e 100.000 irakeni. “Eppure qualcuno – scrive Bromuri – piuttosto
cinicamente afferma che in seguito ce ne potrebbero essere molti di più se si
scatenasse un’offensiva terroristica a livello mondiale. Lo stesso
ragionamento che è stato fatto per la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki”.