LA TESTIMONIANZA
Io & don Tonino
di Ciro Miele
Ho conosciuto don Tonino nel 1987. Io ero seminarista a Molfetta e lui era vescovo. L’ho incontrato ad uno degli incontri - affollatissimi - con i giovani che organizzava durante la quaresima ogni mercoledì. Incontrarlo per me ha significato mettere in discussione tutto il mio modo di vedere il sacerdozio. Io mi stavo formando come “pretino” tutto cotta e talare, attento alle formalità, ai voti ineccepibili, che già guardava con distanza e superiorità al mondo. Don Tonino mi ha sconvolto perché ho incontrato in lui soprattutto un uomo. Il prete – diceva – deve essere un uomo che “profuma di popolo”. La cosa più bella che poteva sentirsi dire era che un prete della sua diocesi era “umano”. Del resto Gesù si è incarnato e ha vissuto la sua umanità senza sconti. E l’umanità era una delle sue caratteristiche peculiari: con lui non eri mai uno tra tanti, eri sempre una persona speciale. Me ne sono accorto soprattutto in un momento in cui ero in crisi, a causa dei contrasti con i miei superiori. Gli scrissi una lettera e lui – dopo qualche mese - mi rispose dicendomi “non pensare che siccome non ti ho scritto subito ti ho dimenticato”. In quella lettera mi scrisse di “andare oltre la nebbia”. Con lui, poi, mi sono innamorato di questa dimensione della pace. Don Tonino amava dire che la Pace è l’unica cosa che la Chiesa deve evangelizzare, perché “Cristo è la nostra pace”, lo dice san Paolo. Mi ha fatto capire che la Pace non è la “fisima” di un gruppo di persone, ma il filo rosso di ogni cristiano. A mio parere la malattia che lo ha ucciso è stata dovuta anche alla tensione continua che aveva. Durante la Guerra del Golfo lui andava frequentemente in televisione a parlare contro la guerra e spesso veniva richiamato dall’alto perché si occupasse solamente “di cose spirituali”. E poi i poveri: i poveri erano la sua famiglia, avevano preso davvero possesso di lui, da quando era entrato nel Terzo Ordine Francescano: lui non assisteva i poveri, i poveri erano parte della sua vita. Verso le dieci di sera se ne andava per il porto o la stazione e si portava a casa i barboni, li faceva rifocillare e gli dava il suo letto, glielo preparava con le sue mani e si addormentava su una brandina. Era povero, perché dava tutto agli altri. Una volta mi raccontò di essere rimasto deluso perché aveva pagato il biglietto aereo ad alcuni marocchini e poi li aveva trovati ad ubriacarsi. Era arrabbiato, ma questo non gli aveva fatto assolutamente perdere la fiducia in loro. Lui diceva: “non basta fare le opere della carità, bisogna fare la carità delle opere”. Non si può fare assistenzialismo o la ‘buona azione’, bisogna amare i poveri. Noi dobbiamo essere freccia stradale, noi dobbiamo solo accompagnare sull’orlo del mistero, poi ci penserà Lui a farci precipitare tutti. Aveva questa grande passione del mondo. Il mondo non è una Chiesa mancata, diceva, ma il popolo per cui Dio non chiude occhio.
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