Intervista a Padre Ibrahim Faltas
"La pace si costruisce con la pace"
di Arnaldo Casali
“Un anno fa l’esercito israeliano ha occupato Betlemme per dieci giorni. Sono stati uccisi 20 palestinesi e di questi 3 erano cristiani. Uno era un ragazzo della mia scuola, un boyscout. E’ stato ucciso dopo la messa, davanti ai miei occhi, sulla piazza della Natività. I soldati sparavano ovunque”. Così ricorda la tragedia del popolo palestinese padre Ibrahim Faltas, protagonista del lungo assedio alla Basilica della Natività dello scorso aprile, raccontato oggi in un libro da due giornalisti che ne vissero in prima persona i primi giorni: Marc Innaro e Giuseppe Bonavolontà. Padre Ibrahim ha accompagnato i due giornalisti in giro per l’Italia. Noi lo abbiamo incontrato a Terni, città da sempre particolarmente legata alla causa palestinese.
Lei verrà ricordato come “Fra’Telefonino”…
“Nella Basilica c’erano
persone di 16 nazionalità diverse. Durante l’assedio gli israeliani ci hanno
tagliato i fili dell’elettricità, ma un ragazzo ha trovato un filo da cui
passava la corrente e noi lì abbiamo caricato i nostri telefonini, poi gli
israeliani hanno trovato quel filo e hanno staccato anche quello. In realtà, poi
ad aiutarci sono stati gli stessi soldati israeliani, che ci hanno fornito una
batteria da cui abbiamo potuto ricaricare due volte i telefonini.Poi un ragazzo
palestinese è entrato in una stanza per cercare cibo e ha trovato l’elettricità.
Gli israeliani non sapevano da dove venisse e non hanno trovato il modo di
privarcene.
Hanno tagliato anche l’acqua. Pensavano di assetarci, ma da un rubinetto - uno solo – continuava a venire, e così abbiamo utilizzato tutti quello. Un altro miracolo ha riguardato il gas: doveva finire il primo aprile, invece è durato tutto il tempo. Davvero il Signore ci ha aiutato molto”.
Quando ha visto per
la prima volta i combattenti alla basilica il suo istinto è stato quello di dare
asilo o respingerli?
“Innanzitutto vorrei
ricordare che non ero solo: con me c’erano 30 frati francescani e 4 suore, e poi
ci sono le due comunità di ortodossi greci e armeni che condividono con i
francescani la custodia della basilica. In realtà non sono stato io ad aprire.
Ero a dormire perché ero stanchissimo. Ad un certo punto è venuto il parroco a
svegliarmi e mi ha detto: “Guarda che sono entrati”. Hanno forzato la porta del
convento. Mi sono accorto che 11 di loro erano feriti e ho chiesto solo di non
sparare. Poi ho incontrato greci e armeni: insieme abbiamo deciso di ospitarli.
Noi abbiamo guardato l’uomo, e non importava che fosse palestinese o israeliano:
la maggior parte dei ragazzi palestinesi erano armati; mi dicevano, guardando
dalle finestre: “Guarda quanti soldati, possiamo ucciderli tutti”. “No, non
fatelo – gli ho risposto – se volete rimanere qui nessuno deve sparare”. E ci
hanno obbedito. Anche lo stesso Papa ci ha invitato a resistere, così siamo
riusciti ad impedire quello che sarebbe stato un massacro”.
Avete parlato degli attentati suicidi?
“Io ero sempre con loro
e parlavamo molto. Erano di vari gruppi, Hamas, Jihad, ma la maggior parte di
loro erano contro questi attentati; D’altra parte lo stesso Arafat ha condannato
l’attentato di pochi giorni fa, dichiarando che si tratta di terrorismo. Ci sono
vari gruppi terroristici che portano avanti questa pratica, ma io non credo che
il popolo la accetti veramente”.
Qual è attualmente
la situazione in Palestina?
“La gente è in
condizioni molto gravi. Le persone non possono andare a lavorare, la
disoccupazione ha superato l’80%. A Betlemme non c’è più il coprifuoco e
l’esercito si è ritirato, ma la situazione economica è gravissima”.
Su cosa lavorate?
“Noi frati abbiamo la più grande scuola in tutta la Palestina. Con più di 2000 bambini. Stiamo facendo di tutto per aiutare la gente, per far dimenticare la guerra”
Quanto influisce
l’attenzione della stampa sulla crisi in medioriente?
“Basti dire che in
questi giorni si riflette sulla legittimità di tre risoluzioni dell’ONU non
rispettate in Iraq, mentre in Medioriente ci sono 39 risoluzioni per
salvaguardare la comunità palestinese non rispettate. Adesso tutta l’opinione
pubblica è concentrata su questa guerra, così il mondo ci ha dimenticato di
nuovo. E non sono solo i palestinesi che stanno soffrendo, ma anche gli
israeliani, che non possono più uscire di casa per il pericolo degli attentati”.
Crede che si possa
combattere il terrorismo con una guerra?
“Con la violenza il
terrorismo non fa che aumentare. La violenza chiama la violenza, la pace si
costruisce solo con la pace”.
Il libro di Marc Innaro e Giuseppe Bonavolontà
L’assedio alla Basilica della Natività
“Eravamo divisi fra il desiderio di solidarietà nei confronti degli assediati, la voglia di non abbandonare al proprio destino chi ci aveva salvato, anche il mancato scoop giornalistico che avrebbe significato lasciare la chiesa. D’altra parte, se non eravamo ancora ostaggi, restando si correva il rischio di diventarlo davvero. Quindi, dopo una lunga discussione durata 36 ore, abbiamo deciso di uscire”.
Così Giuseppe Bonavolontà e Marc Innaro, i due giornalisti italiani che avevano condiviso con i combattenti palestinesi e i frati francescani le prime ore del lungo assedio alla Basilica della Natività di Betlemme lo scorso aprile
“A me non piace essere chiamato ‘inviato di guerra’ – ha detto Innaro a Terni - Gli inviati di guerra nell’immaginario collettivo sono quelli che vanno in giro col giubbotto pieno di tasche, che sanno tutto delle armi. Noi non amiamo la guerra, abbiamo un amore profondo per la pace. L’idea di scrivere questo libro ci è stata suggerita da Tiziano Terzani, un nostro più celebre collega che a sua volta ha scritto un libro in risposta a quello di un’altra collega, ancora più famosa (Oriana Fallaci ndr)”
“Ci vorrebbe un altro Francesco – ha aggiunto Bonavolontà - che andò alla crociata dicendo ai soldati: come pensate che si possa avere una vittoria con un'altra guerra? Ebbene, se Francesco non è più qui, per fortuna ci sono ancora i francescani, che difendono i diritti delle persone più deboli”.
“Tra i personaggi che raccontiamo nel libro – racconta Innaro - mi è rimasto particolarmente impresso il caporale David, un riservista che viveva sulla sua pelle tutte le contraddizioni della situazione mediorientale. Noi non tolleriamo l’idea della violenza, tanto quella contro i palestinesi che quella contro gli israeliani. Il caporale David vedeva donne morire ai posti di blocco perché non c’erano autoambulanze. Nello stesso tempo sapeva che nelle ambulanze poteva esserci dell’esplosivo”.
“Noi siamo giornalisti televisivi, dobbiamo sempre raccontare i fatti con pochissime parole, e non abbiamo mai la possibilità di dire quello che pensiamo; ecco, con questo libro abbiamo voluto dire la nostra e cioè che non ci piacciono i potenti che fanno i paladini della pace andando a bombardare popolazioni inermi, e non ci piacciono le generalizzazioni: né quelle contro i palestinesi né quelle contro gli israeliani”
“Prima di parlare della superiorità di una civiltà bisognerebbe conoscerla, questa civiltà. Abbiamo capito l’impotenza dell’Unione Europea di fronte alla questione palestinese, quando il presidente della commissione Prodi , invitato ad un confronto pacifico fra le due parti, ha disertato all’ultimo momento spiegando che aveva “dimenticato degli impegni” precedenti. Charles Taylor diceva che per avere il dialogo occorre che le persone siano su una posizione di uguaglianza, e questa condizione non c’è, attualmente, in Palestina, per questo in primavera promuoveremo un convegno che vedrà insieme università palestinese e università israeliana”.
C’era anche Alì Rashid a Terni, per la presentazione del libro di Innaro e Bonavolontà. Il primo segretario della delegazione palestinese in Italia ha sottolineato l’importante l’impegno della chiesa cattolica nella crisi in Medioriente. “Non si ringrazieranno mai abbastanza i francescani – ha detto - I palestinesi hanno studiato nelle scuole francescane, e lì hanno imparato ad amare la persona umana in un mondo dilaniato dai fondamentalismi. Oggi il diritto degli ebrei ha significato la negazione di ogni diritto per i palestinesi. Noi siamo ormai brandelli di un popolo. Gli spazi dove esercitavamo la nostra esistenza non ci sono più. Bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno”. “La crescita del fondamentalismo islamico – ha concluso - è la nostra più grande sconfitta”.