L'INTERVISTA
 Maria, il Concilio e il '68

di Arnaldo Casali


Cominciamo dall'inizio: quali sono suoi primi ricordi legati alla religione, alla Chiesa, a Dio?

«Il mio cammino di fede è legato innanzitutto alla mia famiglia; sono mia madre e mio padre che me l’hanno trasmessa, con il loro insegnamento e con il loro esempio e poi non tanto la parrocchia, quanto l'oratorio salesiano di Faenza, dove sono stato indirizzato e dove ho vissuto gli anni della mia fanciullezza».

Anche la vocazione è maturata qui?

«Sì, la vocazione è nata soprattutto dai salesiani, proprio con il contatto con loro. Inizialmente sentivo il desiderio di farmi missionario salesiano, forse anche influenzato da piccoli romanzetti missionari che leggevo a casa, e che affascinavano la mia fantasia di fanciullo e di adolescente. Naturalmente poi è venuta fuori la vocazione nel senso più specifico, quando sono entrato nel seminario di Faenza dopo la scuola media. Ricordo molto bene che andai a salutare i salesiani pensando «adesso vado nel seminario diocesano e dopo potrò tornare con loro». Poi, invece, è andata diversamente. Al seminario di Faenza ho fatto il ginnasio e il liceo, poi sono andato a Roma al collegio Capranica. Direi che a quest’esperienza devo l’apertura intellettuale ed ecclesiale della mia fede».

Come è arrivato a Roma?

«Era un desiderio di mio padre, e un consiglio di amici sacerdoti, e anche di alcuni miei superiori del seminario. Il Capranica è un collegio di grande tradizione nella Chiesa, ci andai negli anni della guerra. Il momento della mia fioritura al sacerdozio sono stati quei cinque anni, dal 1945 al '50; è lì che sono nate le prime grandi aperture di quel momento particolarmente vivace della storia della Chiesa, che in seguito hanno approdato al Concilio Vaticano II».

Quale è stata la prima cosa che ha pensato quando ha saputo di essere diventato vescovo di Terni?

«Io non conoscevo assolutamente Terni. La conoscevo di nome, legata all'acciaieria, ma non c’ero mai stato. La sede assegnatami, quindi, non mi diceva più di tanto; fare il vescovo, invece sì, certo. La mia storia da prete è molto semplice, perché ho sempre fatto il rettore di seminario. Sono stato ordinato nel 1947, poi sono stato due anni e mezzo a Roma per perfezionare gli studi; sono venuto via da Roma nel '50 e dal '50 al '53 ho fatto il vice parroco in un paese della mia dicocesi che si chiama Bagnacavallo, poi sono stato undici anni a fare il Rettore del seminario di Faenza e diciannove anni a fare quello del Collegio Capranica a Roma. Poi nell'83 mi è stato chiesto di fare il vescovo».

Ha detto che non conosceva questa diocesi. Allora come mai si è fatto ordinare nella nostra cattedrale?

«Il Papa mi mandava a fare il vescovo in una Diocesi. Allora mi sono detto: perché non devo nascere come vescovo nella diocesi stessa? Mi ricordo che mi chiesero «ma vuol proprio venire a Terni?», perché sembrava che facessi una cosa strana di venire a ordinarmi qui. E io dissi sì, che questo era il mio desiderio. Era evidente che volevo esprimere un segno di quello che sentivo profondamente. Mi si mandava a Terni e la diocesi doveva diventare la mia sposa. Non la conoscevo, ma è questa che volevo amare, che già amavo, come intenzione. Naturalmente poi, in sedici anni e mezzo di vita è chiaro che questo amore è diventato un fatto, non soltanto un intenzione».

Il suo episcopato è stato aperto e chiuso da due Anni Santi, quello del 1983 e quello del 2000…

«E' vero. In mezzo, poi, c’è stato il 1988, che è stato l'anno mariano. 
Questi anni sono stati un grande periodo di trasformazione della società e della Chiesa; una trasformazione che aveva - però - avuto inizio nel Concilio Vaticano II, terminato nel 1965, e che era continuata nella grande espressione storica del '68. Io do molta importanza nella mia vita, ma anche nella storia degli uomini e della Chiesa, a queste due date, il '65 e il '68; due date che non sono per caso vicine, è chiaro che sono tutte e due significative di una Chiesa che provvidenzialmente ha capito, con Giovanni XIII, il cambiare dei tempi. Il 1968 è stato l'esplosione di tutto questo: un evento positivissimo, un grandissimo avvenimento per il cambiamento della storia e della mentalità. Io sono venuto qui dopo gli anni '70, che avevano cercato di assimilare queste due grandi cose. C'era da realizzare il Concilio Vaticano II. Certo, anche i vescovi che c'erano stati prima avevano già mosso i primi passi, e molto c'è ancora da fare in questo grande cammino».

Giovan Battista Dal Pra è stato vescovo emerito della Diocesi per quasi vent’anni. Che ricordo ha di lui?

«Quando sono arrivato io era già molto malato, quindi il rapporto con lui è stato sereno e fraterno-filiale. Per il mio episcopato è stato un esempio per quanto ho visto che aveva fatto, ma non per quanto lui mi ha detto, perché ormai non poteva più avere influenza, a causa della malattia e della vecchiaia».


Il papa del suo episcopato è stato Giovanni Paolo II, un papa molto amato dai laici e nello stesso tempo criticato da molti cattolici: alcuni dicono che è troppo chiuso, altri che è troppo aperto.

«Giovanni Paolo II è un grandissimo personaggio. Che sia molto amato dai laici è vero, non direi però che sia stato contestato nella Chiesa, anche se nei suoi primissimi anni di pontificato ha preso alcune posizioni che sono state lette come qualcosa che non fosse molto in linea con i tempi e con il Concilio. Certo, alcuni atti da lui compiuti possono aver creato discussioni, ma credo che sia ormai una personalità riconosciuta da tutti, fuori e dentro la Chiesa».

Una cosa che ha in comune con il Papa è la devozione per Maria.

«Sì. Non posso dire che la devozione mariana sia stata assente durante la mia vita, però sicuramente è aumentata durante il mio episcopato. Il bisogno di proporre la devozione alla Madonna e di viverla io personalmente. Mi domando perché. Forse perché la mia storia di esperienza di mistero l’ho vissuta soprattutto nel seminario, dove avevo solo piccoli gruppi di cinquanta-cento alunni, e poi mi sono trovato a contatto con la gente, con il Popolo di Dio, e credo che sia stato proprio il Popolo ad insegnarmela, la devozione mariana, e a farla crescere in me».
 
Lei ha fondato, costruito tante cose. Di cosa va più fiero?

«C'è un cammino di una Chiesa che va avanti e ognuno fa il suo pezzo. Ci sono state alcune cose che sono un pochino più significative e allora certo, ci puoi mettere anche la Madonna del Popolo, ci metto anche la missione africana, la riapertura del seminario e la fioritura del diaconato permanente. E ultimamente questo gruppo femminile di giovani che si consacrano al Signore al servizio della Pastorale, ma sono questi i momenti più significativi di un cammino che è quotidiano». 

Un gesto particolarmente simbolico è stato dare alla diocesi uno stemma, rinunciando invece, con un gesto - mi dicono - unico al mondo, al suo stemma personale.

«Caso unico… non so se sia un caso unico, ma è una piccola cosa, ininfluente. Io credo che gli stemmi siano una cosa che appartiene al passato, alle famiglie nobili, ma lungi da me disapprovare gli stemmi e chi li adotta, semplicemente non lo volevo fare e non l’ho fatto. Ho dato uno stemma alla diocesi perché mi sembrava giusto che l’avesse, e anche perché lì dentro c'è un significato, c'è l'unione di tre diocesi che prima erano separate».

Infatti lei è stato il primo vescovo di Terni-Narni-Amelia.

«Io sono l'ultimo vescovo delle tre diocesi distinte di Terni, di Narni e di Amelia e dal 1986 sono il primo vescovo di questa nuova realtà diocesana nata dalla fusione delle tre». 

Di cosa ha bisogno in questo momento la nostra Diocesi? 

«Si sta vivendo con grande intensità il Giubileo. Gli ultimi documenti che abbiamo fatto mi sembra che possano riassumere il nostro cammino: Il Giubileo dei lontani e Il Giubileo della santità. C'è stata una grande riflessione in cui abbiamo capito che la pastorale si deve aprire a tutti, anche a coloro che non si riconoscono nella fede e nella Chiesa stessa. E' stata il risultato di un esame di coscienza che ha avuto il suo momento più forte quando ci siamo detti: Ci sono persone che sono lontane dalla Chiesa oppure è la Chiesa che è lontana dalle persone? L’altro documento, Il Giubileo della santità, prendendo le mosse dal Concilio affronta il cammino di una persona che accoglie la fede, che non è una cosa di pochi privilegiati, ma che deve essere una scelta e un dono di Dio per tutti. 
Allora mi domando, con queste comunità di cristiani, nel breve cammino che ho fatto con loro, siamo diventati più santi? Se qualcuno si chiederà Questo don Gualdrini è stato un bravo vescovo? bisognerebbe dirgli: Queste Chiese diocesane e le persone che ne fanno parte sono diventate più sante? E' questa la vera domanda».

Il rapporto con i sindaci e le autorità laiche. Quale collaborazione ha portato i frutti migliori?

«Quella più evidente è stata la Fondazione S.Valentino a Terni, ma ci sono state altre cose, per esempio a Narni il Museo Cittadino Ecclesiale che facciamo all’episcopio. Comunque i rapporti sono sempre stati ottimi, non mi è mai capitato di incontrare delle amministrazioni che mi abbiano ostacolato».

Lei conosceva già Vincenzo Paglia, so che lo ha invitato a Terni nel 1986.

«Allora lui stava facendo degli studi sulla pietà popolare, e noi in quel periodo avevamo fatto un documento su questo argomento, e così venne a Terni a tenere una conferenza. Io lo conoscevo da quando ero a Roma. Ho avuto un discreto rapporto con la Comunità di S.Egidio, non intensissimo, però ho partecipato a varie manifestazioni; insomma ci siamo incontrati diverse volte, anche senza avere un rapporto stretto. 
E' senza dubbio un grande personaggio, cos’altro posso dire? Glie l'ho anche chiesto a lui: «quando mi hanno chiesto chi sei io ho detto che sei un personaggio aperto che intende realizzare il Concilio, ho fatto bene?» e lui mi ha risposto: «sì, sì, sono contento che mi hai presentato così». Tanto è vero che, durante il primo colloquio che abbiamo avuto, lui mi ha detto: «sto pensando al mio stemma, a che motto scegliere, vorrei un’apertura al mondo…», «Allora puoi mettere Gaudium et Spes» gli ho detto io. E so che adesso ha fatto lo stemma con questo motto, e credo che questa sia una cosa molto significativa».

da Adesso n. 15 - marzo 2000