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Intervista a monsignor Vincenzo Paglia ad un anno dal suo ingresso in diocesi

«Ancora molta strada da fare»

 

di Arnaldo Casali

Cosa ha significato per lei diventare vescovo nell’anno del Grande Giubileo?
«E’ chiaro che questo cambio di ministero, da parroco di Santa Maria in Trastevere a vescovo di Terni Narni Amelia ha rappresentato un cambiamento molto forte nella mia vita: da un lato ha significato lasciare Roma, dall’altro legarmi a Terni e all’Umbria, con quella dimensione universale che era propria anche di Roma. Quindi la novità del Giubileo per me personalmente è stato il tentativo di far dialogare Terni e l’Umbria con il resto del mondo».
Quali sono state le tappe principali di questo primo anno di episcopato?
«La diocesi aveva già intrapreso un cammino che portava ad una prima conclusione l’attuazione del Concilio, con l’episcopato di monsignor Quadri (che ne è stato un attore interno) e di monsignor Gualdrini. Io sono giunto in un momento particolare: durante un Giubileo che avviene in un cambio di secolo e di svolta della stessa storia della città di Terni, e nel quale anche la Chiesa riscopre un suo impegno nella vita del mondo e della società con caratteristiche nuove. Quindi ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale per la Chiesa e per la società. Io il Giubileo ho cercato di viverlo in questo complesso di circostanze raccogliendo l’intera vita civile e religiosa di questa parte dell’Umbria per una nuova prospettiva, un nuovo futuro. In tal senso la tappa del giubileo di tutta la diocesi a Roma è stato un evento straordinario, per il numero - diecimila persone - ma anche per la composizione, perché la presenza dell’intera società civile di Terni ha rappresentato un impegno a vivere il Giubileo non in un modo astratto e devozionale ma inserito all’interno del contesto della società per un futuro nuovo per tutti». 
Al suo arrivo a Terni disse - citando Oscar Romero - che la prima cosa che avrebbe fatto come vescovo sarebbe stato “ascoltare il suo popolo”. Crede di averlo fatto? E cosa dice il suo popolo?
«Scelsi quella frase di Oscar Romero come primo messaggio da inviare alla diocesi perché mi colpì molto la sensibilità di questo vescovo martire che davvero era attento ai bisogni del suo popolo. Io credo che per un vescovo ascoltare il suo popolo sia un dovere essenziale. Ascoltare non significa ovviamente assecondare, ma cercare di cogliere le domande più profonde deposte nel cuore della gente. In questo senso mi sono sforzato di raccordare le domande più profonde che salgono da Terni-Narni-Amelia con il Vangelo. Questo raccordo è stata ed è la mia fatica più grande. Debbo confessarti che l’ultima assemblea diocesana che abbiamo fatto al Politeama, che molti ritenevano una scommessa pericolosa, ha mostrato invece un desiderio profondo di cambiamento dei cristiani qui a Terni ma anche dell’intera città». 
Come San Francesco ha voluto cominciato a “restaurare” la Chiesa partendo da quella di mattoni. Dopo la facciata del duomo è stata la volta del portale e del presbiterio. Quali sono i suoi progetti futuri per restaurare la Chiesa di persone?
«Mi parli di San Francesco e tocchi una delle corde più sensibili del mio cuore. Io proprio a San Giovanni in Laterano, durante la mia consacrazione episcopale, dissi che avrei voluto entrare a Terni accompagnato da Francesco d’Assisi. Sì, è vero, ho cominciato a restaurare la Chiesa partendo dalla facciata, e poi la porta - che è la porta di ingresso nel Terzo Millennio - e poi il presbiterio. Dici bene che tutto ciò è il segno esterno di un restauro molto più profondo. Io vorrei che la Chiesa di Terni-Narni-Amelia risplendesse sempre di più della luce del Vangelo. Questa bellissima facciata della nostra cattedrale deve darci i tratti della facciata ancor più bella che deve essere quella della comunità dei cristiani. E l’impegno che tutte le comunità cristiane stanno ponendo in questi mesi attorno al tema della domenica e della liturgia è esattamente su questa linea»
L’anno del Grande Giubileo è stato anche un anno di forte contraddizioni, è stato l’anno della pacificazione con Giordano Bruno e nello stesso tempo di grandi contrasti con gli omosessuali, del viaggio del papa in Terrasanta e della nuova crociata contro l’Islam. La Chiesa si trova indubbiamente in un momento di grande fermento. Cosa significa per lei? Ci troviamo di fronte ad una svolta?
«Sicuramente: la crisi delle ideologie, della politica e delle grandi utopie ci fanno trovare di fronte ad un mondo scarico di sogni e di prospettive. Alla Chiesa spetta il allora il compito di riproporre l’antico sogno evangelico, che è quello dell’amore, della misericordia, del perdono, quindi anche della solidarietà e dell’accoglienza, del dialogo e dell’incontro. Questo è il grande orizzonte che il Papa ha aperto con il Giubileo. Alcuni segni messi nel giubileo sono molto eloquenti, e ormai inamovibili: pensiamo all’impegno per una nuova concezione della prospettiva carceraria, la questione della pena di morte, il problema del debito dei paesi del terzo mondo. Io credo che oggi nella Chiesa non si possa più vivere da cristiani senza affrontare queste problematiche. Altri segni: come dimenticare il gesto del Papa che va a Gerusalemme e mette la preghiera nel muro del pianto? Sono gesti di cui non possiamo più fare a meno nei nostri rapporti con il mondo ebraico. Il dialogo interreligioso è stato talmente radicato nella vita della Chiesa che non potrà più essere eluso. Non dimentichiamo che l’Anno Santo è stato aperto a sei mani dal Papa, dal primate della Chiesa Anglicana e dal rappresentante di Costantinopoli. Questo sta a dire che le nubi che ci sono state e che ci sono non possono oscurare il sole di queste prospettive. Abbiamo ancora molta strada da fare; ma pensiamo anche che l’ecumenismo è nato con il Concilio appena quaranta anni fa, il diaologo interreligioso è ancora ai primi vagìti, il rapporto con il mondo ebrarico è praticamente neonato, e allora se vediamo il cammino fatto già questo è strabiliante. Cinquant’anni fa tutto questo era inconcepibile; ecco perché credo che questo Anno Santo abbia aperto delle prospettive notevoli per la vita della Chiesa e del mondo».
Tornando a Oscar Romero, lei è postulatore della causa di beatificazione. 
«Un impegno indubbiamente difficile, per la diffidenza che ci sono nei suoi confronti. Monsignor Romero è un vescovo che ha voluto bene al Vangelo, alla Chiesa e al suo popolo e senza questo amore Romero è incomprensibile; invece, purtroppo, sono state date letture falsate: su internet si trovano persino gruppi rivoluzionari armati che si rifanno alla figura di Romero. Nulla di più sbagliato: l’archivio di Romero è molto vasto, più di 60000 pagine. E’ quindi necessaria una presentazione scientifica della figura di questo vescovo e in questo senso ho programmato per la fine di ottobre un convegno internazionale da tenersi proprio qui a Terni, al quale parteciparanno studiosi di fama mondiale che, dopo ricerche e approfondimenti fatti negli archivi, potranno presentare al mondo sicentifico la figura di questo vescovo e la situazione del Salvador. Romero è un testimone che credo debba essere portato tra le eredità più preziose nel terzo millennio». 
Riguardo proprio al nuovo millennio, lei ha dato tre indicazioni su cui lavorare: la Domenica, il Vangelo e i poveri.
«Se leggiamo la lettera del Papa, Novo millennio ineunte, che parte con la grande ambizione di Gesù ai dicepoli: «Duc in altum», andiamo a largo, ci troviamo tutti e tre questi impegni. Ogni credente e ogni cristiano deve superare il particolarismo e diventare universale, per entrare nel nuovo millennio. Poi ci sono questi tre impegni: la Domenica è il giorno che ci deve salvare dalla schiavitù dei ritmi convulsi della vita e la celebrazione dell’eucarestia nel cuore della domenica ci indica quale deve essere la prospettiva di un giorno di grande libertà, dell’incontro con Dio e con i fratelli, Quindi la domenica non è un precetto, è la vita, ed è stata forse abbandonata proprio perché vissuta come un obbligo. Il Vangelo per chi crede è un energia incredibile, per chi non crede è un fondamento per essere più umani, più onesti, in ogni caso, migliori, per questo ne ho voluto regalare una copia a tutti gli abitanti della diocesi, perché sono convinto che questo piccolo libro in realtà è una grande parola di libertà, che può cambiare la vita del nostro tempo, che può renderla più umana e felice. Dalla domenica e dal Vangelo sgorga automaticamente l’amore per i più poveri, che se per lo Stato e per le istituzioni civili sono un caso sociale a cui venire incontro, per noi cristiani sono anzitutto fratelli e sorelle, quindi membri a pieno titolo della nostra famiglia. L’amore per i poveri non è una giunta ma una parte essenziale della vita cristiana. Io voglio aprire nel cuore dei ternani uno spazio per i poveri e come segno visibile di questo, dopo aver aperto la casa Firmina per le ex prostitute, apriremo una mensa per i poveri servita gratuitamente tutti i giorni, come segno di attenzione nei confronti di questi fratelli e sorelle che non hanno bisogno solo di pane, ma anche di amicizia».

(dal n.25 di Adesso - maggio 2001)