Una parola per parlarne
La teologia tradizionale nei vescovi vede i “successori degli apostoli”; oggi vi è qualcuno, certo assai prudente e raffinato, che preferisce dire “successori negli apostoli”, e la distinzione è fondamentale; ma la spiegazione relativa risulterebbe inevitabilmente troppo lunga, e forse di eccessiva sottigliezza teologica. L'idea dei vescovi successori degli apostoli ci appare non proprio sbagliata ma semplicistica, e soprattutto fuorviante: vorremmo dire ‘de-responsabilizzante’, per noi qui e ora. Insomma, la teologia cattolica, a forza di vedere nei vescovi i successori degli apostoli, ha finito per vedere negli apostoli... gli anticipatori dei vescovi, i prototipi; proiettando a ritroso sulla situazione dei tempi di Gesù una mentalità, un’ecclesiologia, una dogmatica che sarebbero venute molto tempo dopo, e che comunque si evolvono nel tempo.
Più rispettoso del mistero della Chiesa e dello stile operativo di Gesù ci sembra intendere i Dodici, e attraverso loro l'intera comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù (con la loro fede e il loro amore, ma anche con le loro lentezze, i loro fraintendimenti e le loro brutte figure spietatamente trasmessi dai Vangeli), come primizia della chiesa tutta intera. Del popolo di Dio, insomma; di noi.
Nella primissima comunità si trova bensì un popolo sacerdotale di Dio; ma un sacerdozio istituito e gerarchico non si trova. Quell'evento di mediazione salvifica che nell'esperienza di Israele culminava nel grande rito del Giorno dell'Espiazione (in cui il Sommo Sacerdote nel Tempio intecedeva presso Dio perché fossero perdonati i peccati del popolo) è adesso in Cristo crocifisso, che Dio “ha stabilito pubblicamente a servire come strumento di espiazione nel suo sangue per mezzo della fede” (Rm 3,25); in altri termini, l'unico sacerdote nella nuova economia della salvezza è il laico Gesù di Nazaret, il quale “se tornasse oggi nel mondo non sarebbe neppure sacerdote”, come dice la lettera agli Ebrei (8,4).
Venti-trent'anni dopo la morte di Gesù, come ci testimoniano le lettere autentiche di Paolo, i ministeri fondamentali presenti nelle comunità cristiane sono tre: quello dell'apostolo, in genere il missionario itinerante fondatore della comunità, che mantiene con essa anche a distanza uno speciale rapporto di affetto e di autorità morale; quello del maestro, che ha la missione specifica di insegnare per far crescere nella fede i suoi fratelli; quello del profeta, che prega ed esorta pubblicamente, anche e soprattutto durante le celebrazioni, secondo uno stile molto libero e carismatico. Solo nelle tardive 'lettere pastorali' (le due a Timoteo e quella a Tito), che la tradizione ha lungamente attribuito a Paolo ma che sono di un discepolo della generazione seguente, si parla di vescovi, di presbiteri, di diaconi. Qualcosa è cambiato.
I presbiteri (presbyteroi, termine greco passato poi nel latino, da cui deriva l'italiano “prete”), inizialmente non sono sacerdoti, nel senso che intendiamo oggi: sono gli anziani, insomma una specie di consiglio incaricato del governo della comunità. Ed è singolare che oggi, nel linguaggio del cattolico medio, sembri più appropriato, più rispettoso, più fine o più pio, secondo i casi, chiamare il prete “sacerdote”; mentre la prima Chiesa evitava assolutamente questo termine - ove non si trattasse del Cristo sacerdote e del nuovo popolo sacerdotale -, per evitare confusioni con il culto giudaico e con il sacerdozio in uso presso i pagani.
E il vescovo? Il termine epyskopos (che significa all'incirca ispettore, sorvegliante) è molto secolare: in origine designava una classe di funzionari dell'impero romano.
Solo con Ignazio di Antiochia si comincia a trovare il primo accenno di quella che sarà poi la concezione dell'episcopato monarchico: Ignazio nelle sue lettere insiste sulla necessità di sottoporre al giudizio del vescovo tutte le questioni rilevanti nella vita della comunità. Ma queste affermazioni - ricordiamo come esempio quella che si trova nella lettera agli abitanti di Magnesia, “non dovete intraprendere nulla senza il vescovo e senza i presbiteri” - vanno intese nel contesto delle preoccupazioni suscitate dalle comunità di eretici. La concezione monarchica dell'episcopato si accentua nella tarda antichità e nei primi secoli del Medio Evo: quando, nella crisi e spesso nell'eclissi del potere statale, il vescovo rimaneva spesso per la popolazione di un certo luogo unica autorità e termine di riferimento.
Nel Medio Evo la funzione del vescovo viene definita più in base alla “potestas” che al dono sacramentale o alla responsabilità nei confronti della chiesa locale. Anche per questo nel rito di ordinazione assumeva speciale importanza la traditio instrumentorum, cioè la consegna degli oggetti che simboleggiano il potere conferito al nuovo eletto: la mitra, il pastorale, l'anello. Vi erano numerosi dettagli secondari, dalla portata più allegorica che simbolica, e tutto l'insieme aveva un carattere di “dramma sacro” non molto diverso dal rito di investitura di un sovrano feudale.
Questa concezione dell'episcopato, e la distinzione fondamentale tra clero e laici, viene accentuata ancora dal Concilio di Trento, in opposizione ai protestanti, e arriva fino ai primi decenni del secolo XX. Solo nella seconda metà del secolo è stata riordinata a fondo la teologia dei ministeri, evidenziando che il vescovo non è un “di più” (quanto alla potestas iurisdictionis) rispetto al prete, ma possiede teologicamente la pienezza dell'ordine sacro, e l'episcopato è fonte anche del presbiterato e del diaconato. E' stato il Concilio Vaticano II ad avviare una nuova considerazione del ministero nella chiesa in genere e del ministero episcopale in particolare, tra l'altro mettendo opportunamente fra parentesi la dimensione “monarchica” dell'episcopato e accentuandone la dimensione collegiale, evidente soprattutto nel Sinodo dei Vescovi, che periodicamente si riunisce per pronunciarsi su aspetti importanti della vita cristiana: anche se questa collegialità è rimasta sul piano delle affermazioni e dei principi, e non sembra penetrata a fondo nelle coscienze, non è ancora tradotta in concreta prassi di vita ecclesiale.
Del resto tutta l'ecclesiologia del Concilio appare caratterizzata un doppio linguaggio, in cui si manifestano le sue due anime: l'una più tradizionale e conservatrice, ancora molto attenta agli aspetti giuridici, l'altra più cristocentrica, esistenziale e misterica. La sincera volontà di accentuare la chiesa-comunione, senza pero lasciar cadere in alcun modo la chiesa-istituzione, non puo che dar luogo a effetti contraddittori; e non nei documenti soltanto.
Missione del Vescovo è soprattutto la ricerca, il discernimento, la promozione dei carismi che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa: in questo senso è stato detto che il Vescovo “deve saper fare la sintesi dei carismi, oltre ad avere il carisma della sintesi” (E.Lodi).
Dal rito di ordinazione dei Vescovi riformato dopo il Vaticano II, emerge senza dubbio una concezione di episcopato più spirituale e più pastorale che in passato. I riti secondari - unzione del capo, consegne varie... - sono stati ridimensionati, le formule che li accompagnano rese meno trionfalistiche. Importante è il riferimento alla comunità cristiana, non solo come destinataria delle future cure pastorali dell'eletto, ma testimone del rito e soggetto della presentazione del candidato. Anche se questa dimensione, pur opportuna, è ora poco più che un elemento rituale, quasi esornativo. Eppure fondamentale come segno, almeno come memoria di futuro, in direzione del momento auspicato in cui Chiesa sarà profetica nella sua stessa manifestazione visibile, autentica comunità di fratelli e sorelle che vivono la novità di Cristo: non dunque istituzione gerarchica con classe dirigente che si propaga da sé‚ per mezzo di cooptazione.
Il momento chiave del rito è, come in passato (e come avviene anche nell'ordinazione dei presbiteri e dei diaconi), l'imposizione delle mani sull'eletto, che precede la solenne preghiera di ordinazione. L'imposizione delle mani - che nell'ordinazione dei diaconi viene compiuta dal solo vescovo, nell'ordinazione di un presbitero da tutti i presbiteri presenti - nell'ordinazione episcopale viene compiuta da tutti i vescovi concelebranti, che devono essere almeno tre, proprio a significare la continuità e la collegialità dell'episcopato.
Un altro segno di forte spessore spirituale è l'imposizione del libro dei Vangeli sul capo dell'eletto. Di solito decodificato come accenno alla missione di insegnare e di annunciare la Parola, contiene un significato è ancora più profondo. Di fatto non è tanto una consegna della Parola al nuovo vescovo, quanto piuttosto una consegna del nuovo vescovo alla Parola.