24 marzo 2002, XXII anniversario della morte di monsignor Romero

 

  IN MEMORIA

DEL VESCOVO ROMERO

 

«In nome di Dio, vi prego, vi scongiuro,

vi ordino: non uccidete!

Soldati, gettate le armi...»

Chi ti ricorda ancora,

fratello Romero?

Ucciso infinite volte

dal loro piombo e dal nostro silenzio.

                                                              Ucciso per tutti gli uccisi;

neppure uomo,

sacerdozio che tutte le vittime

riassumi e consacri.

                                                             Ucciso perché fatto popolo:

ucciso perché facevi

“cascare le braccia

ai poveri armati”,

più poveri degli stessi uccisi:

per questo ancora e sempre ucciso.

Romero, tu sarai sempre ucciso,

e mai ci sarà un Etiope

che supplichi qualcuno

ad avere pietà.

                                                                   Non ci sarà un potente, mai,

che abbia pietà

di queste turbe, Signore?

nessuno che non venga ucciso?

   Sarà sempre così, Signore?

 

David Maria Turoldo

 

 

L’AMORE E’PIU’ FORTE DELLA MORTE

di

Vincenzo Paglia

 

Il 24 marzo del 1980 verso le sei del pomeriggio Mons.Romero, con un colpo di fucile, uno solo, fu ucciso mentre stava celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza ove era situata la sua abitazione (quattro stanze del custode dell’ospedale poste accanto al cancello d’ingresso). Quel pomeriggio, come spesso accadeva, celebrò la messa nella cappella dell’ospedale. Una suora, presente in quel momento, racconta con queste parole l’assassinio:

“Era il 24 marzo del 1980 e Monsignore stava celebrando l’Eucarestia nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. Erano circa le sei del pomeriggio. Una pallottola ad esplosione ritardata lo colpì al cuore mentre stava iniziando l’offertorio. Io ero presente nel momento del suo assassinio nella cappella; stavo a circa quattro metri di distanza dall’altare. Mentre Monsignore stava aprendo il corporale per iniziare l’offertorio si sentì lo sparo. Colpito al cuore, egli istintivamente si aggrappò all’altare e si rovesciò addosso tutte le ostie. Cadde, quindi, ai piedi del crocifisso in una pozza di sangue. Io interpretai questo fatto come se Dio gli dicesse in quel momento: Oscar ora sei tu la vittima.”

Per Romero si realizzavano le parole di Gesù: “Il buon pastore offre la sua vita per le pecore”. E Romero la offrì, appunto, durante l’offertorio. Non era tuttavia un eroe. Romero aveva paura di morire e più volte lo manifestò. Tuttavia – ed è qui la forza della sua testimonianza - egli amava il popolo affidatogli dal Signore più della sua stessa vita.

Romero non era un eroe, come tutti  aveva paura di morire. Quando le minacce si facevano più insistenti ad ogni rumre, di notte, si svegliava di soprassalto, terrorizzato. Dormiva nella casetta del custode dell’ospedale, accanto al cancello di ingresso dell’ospedaletto: quattro povere stanze. Igni frutto dell’albero (di mango – credo) che cadeva sul tetto della stanza lo scambiava per uno sparo o una bomba contro di lui.

Tuttavia non si allontanò da San Salvador, come gli era stato proposto. Quando iniziarono a giungerli le minacce di morte, infatti, gli fu proposto dal nunzio di andare a Roma, ma egli rispose che il suo posto era tra il suo popolo. “Il pastore non lascia il suo gregge”, concluse. E restò.

Un mese prima di morire, annota:

“Ho paura per la violenza verso la mia persona. Sono stato avvertito di serie minacce esattamente in questa settimana. Temo per la debolezza della carne ma chiedo al Signore che mi dia serenità e perseveranza.…L’altro mio timore è riguardo ai rischi della mia vita. Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è molto probabile. Anche il Signor Nunzio della Costa Rica mi ha avvisato dei pericoli imminenti in questa settimana. Il padre (spirituale) mi ha dato coraggio dicendomi che la mia disposizione deve essere dare la vita per Dio, qualunque sia lo scopo della mia vita. Le circostanze sconosciute si vivranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo assistette i martiri e, se necessario, lo sentirò più vicino nell’affidargli il mio ultimo respiro. Ma più prezioso che il momento di morire è affidargli tutta la vita, vivere per lui…Faccio la mia oblazione: Eterno Signore di tutte le cose, io faccio la mia oblazione con il vostro favore e con il vostro aiuto davanti alla vostra infinita bontà e davanti alla vostra Madre gloriosa, e a tutti i santi e le sante della corte celeste, che io voglio e desidero ed è mia scelta deliberata, solo che sia il mio più grande servizio a voi di imitarvi nel sopportare tutte le ingiurie e tutto il vituperio e tutta la povertà sia materiale che spirituale, volendomi la vostra Santissima Maestà scegliere e ricevere in tale vita e stato. Così consento la mia consacrazione al Cuore di Gesù che è stato sempre fonte dell’ispirazione e della gioia cristiana della mia vita. Così anche tengo sotto la sua Provvidenza amorosa tutta la mia vita, e accetto con fede in lui la mia morte, per quanto essa sia difficile. E nemmeno voglio darle un significato come vorrei per la pace del mio paese e per la fioritura della nostra Chiesa…perché il cuore di Cristo saprà darle il fine che vorrà. Mi basta stare felice fiducioso, sapere con sicurezza che in lui è la mia vita e la mia morte. Che, nonostante i miei peccati, in lui ho posto la mia fiducia e non resterò confuso e altri proseguiranno con maggior sapienza e santità i lavori della Chiesa e della patria” (Quaderno Spirituale 3 pp. 41 – 51). 

Romero non moriva per eroismo ma per fedeltà alla missione pastorale affidatagli. Moriva per aver tentato di contrastare il male, la violenza che aveva afferrato il suo paese unendo il suo sangue a quello del sacrificio eucaristico che stava per celebrare, Romero offriva la sua testimonianza di fede in quella tempesta di violenza che la Commissione della Verità in El Salvador ha successivamente così descritto:

“La violenza fu una fiammata che avanzò per i campi del Salvador, invase i villaggi, interruppe ogni percorso, distrusse strade e ponti, giunse alle città, penetrò nelle famiglie, negli spazi sacri e nei centri educativi, colpì la giustizia e riempì di vittime l’amministrazione pubblica, segnalò come nemico chiunque non apparisse nella lista degli amici. La violenza trasformò tutto in distruzione e morte, perché tali sono le assurdità di quella rottura della pienezza tranquilla che accompagna l’imperio della legge. Le vittime erano salvadoregni e stranieri di tutte le provenienze…poiché la violenza rende uguali nell’abbandono cieco della sua crudeltà…La instaurazione della violenza in maniera sistematica, il terrore e la diffidenza nella popolazione sono i tratti essenziali di questo periodo”. “E’ stato molto incoraggiante per me vedere come si stanno comprendendo poco a poco questi impegni nuovi che la Chiesa, senza tradire le sue vecchie tradizioni, deve assumere per essere fedele al momento attuale, fedele a ciò che il mondo aspetta da essa come servizio da parte di Gesù Cristo” (Diario, p.82).

Romero crede che il Concilio chiami all’aggiornamento e al rinnovamento profondo. Ma la fede e la spiritualità di Romero non deviarono dalle salde basi della sua formazione e della sua esperienza religiosa di lungo corso. Romero non fu un teologo o uno studioso sistematico. Sarebbe arduo cercare in lui un pensatore organico e questo può anche presentare qualche imprecisione qualora fosse preso dalla passione oratoria. Egli rimase essenzialmente un pastore, un uomo di intensa preghiera, un sacerdote nelle fibre più intime, un mistico segnato dagli Esercizi ignaziani, un devoto di Maria e del Sacro Cuore di Gesù, amante del rosario e della visita al Santissimo, frequente alla confessione, uno spirituale più a suo agio nel ragionamento purificatore interiore che nella leadership e nell’organizzazione attivistica.

E la Chiesa che Romero, arcivescovo secondo il Concilio, voleva, non era una Chiesa rivoluzionaria, ma una Chiesa umile nel servizio. Per citare mons. Rivera y Damas, suo successore come arcivescovo di San Salvador:

“ La Chiesa, quella che Monsignor Romero desiderava, è quella che si fa vicina al povero, non per motivi politici o per interessi meschini, ma perché ama e vuole servire…Monsignor Romero ha vissuto il proprio motto ‘Sentire con la Chiesa’, una Chiesa che è comunità e che è istituzione. […] Impariamo dal suo spirito di servizio, dalla sua vita intima di preghiera, dal suo continuo spirito di conversione e purificazione, dalla sua forte spiritualità, valori che molte volte vanno perduti nell’effervescenza della politica del momento”. (‘Orientacion’, 8 aprile 1984)

Mentre vedeva aumentare la sua responsabilità di pastore, Romero nello stesso tempo sentiva crescere le minacce di morte. Sapeva che erano autentiche e fondate. Psicologicamente ne era lacerato. Negli ultimi mesi passava continuamente dalla gioia al pianto, dalla depressione più nera alla pace profonda nella preghiera. Quando dormiva si svegliava di soprassalto terrorizzato: ogni frutto dell’albero di avocado  che cadeva sul tetto della dimora dell’ospedaletto dove alloggiava, lo scambiava per uno sparo o una bomba contro di lui. Non cercava il martirio. Non si sentiva un profeta desideroso di sfidare il mondo. Forse era un profeta, in quanto accettava la morte e la resurrezione ad imitazione di Cristo, ma lui non sapeva di essere profeta. La sua morte era ormai sicura. Pochi giorni prima dell’assassinio vennero scoperte 72 cariche di dinamite nella chiesa dove doveva andare a celebrare. Gli fu offerta una scorta: la rifiutò per non mettere in pericolo la vita di altre persone. “Il pastore, diceva Romero, non cerca la sua sicurezza, ma quella del suo gregge”. E ancora: “il dovere mi obbliga a comminare con il mio popolo, non sarebbe giusto mostrare paura. Se devo morire, morirò secondo la volontà di Dio”. E: “Il buon pastore non abbandona le sue pecore, non me ne vado”.

Romero visse il suo servizio di arcivescovo di san Salvador in un equilibrio sempre più difficile. Lo lacerava profondamente una forte divisione all’interno dell’episcopato salvadoregno, dovuta probabilmente più che a differenze dottrinali o ideologiche, a questioni personali, di competenze, di rivalità, di prestigio, per il grande rilievo assunto dalla arcidiocesi metropolitana retta da Romero. La divisione tra i vescovi non giunse con Romero. Era presente già al tempo del suo predecessore, e fu proprio questa tensione a far cadere la scelta su Romero. E’ vero che non appena Romero divenne arcivescovo la situazione politica precipitò verso un’aspra tensione tra il governo militare e la guerriglia e Romero ne fu come travolto. La violenza dilagava, tra repressione indiscriminata, scontri di piazza, sequestri e atti terroristici, omicidi politici. Era estremamente difficile mantenere l’equilibrio.

Giovanni Paolo II, nell’udienza del 7 maggio 1979 e successivamente nel gennaio 1980, manifestò a Romero la sua preoccupazione per questo: si trattava di difendere certo la giustizia, ma anche di evitare che un’affermazione rivoluzionaria mettesse in difficoltà la Chiesa. La risposta dell’arcivescovo fu la seguente:

“Santo padre, questo è proprio l’equilibrio che cerco di conservare, perché da un lato difendo la giustizia sociale, i diritti umani, l’amore per il povero, e dall’altro mi preoccupo sempre del ruolo della Chiesa e di evitare che, per difendere questi diritti umani, cadiamo poi in braccio a ideologie che distruggono sentimenti e valori umani”.

Romero restò quasi stritolato, per così dire, da una polarizzazione e da una estremizzazione che sembrava non lasciare spazio alla dimensione pastorale e caritativa della sua Chiesa. La sua scelta per i poveri e la difesa dei diritti umani non lo portava a condividere le posizioni rivoluzionarie. Era d’altra parte sempre più distante dal mondo del potere salvadoregno. Intanto si moltiplicavano gli assassini intorno a lui e lui stesso era minacciato. Così un giorno prima di morire, predicando in cattedrale, affermava:

“Così come Cristo fiorirà in una Pasqua di risurrezione imperitura, è necessario anche accompagnarlo in una Quaresima, in una settimana santa che è croce, sacrificio, martirio. E come egli stesso diceva: “beati coloro che non si scandalizzeranno della croce”. La Quaresima è dunque un invito a celebrare la nostra redenzione in questa difficile mescolanza di croce e di vittoria”.

E proprio le sue ultime parole, prima dello sparo fatale, il 24 marzo furono:

“Questa santa Messa, questa eucaristia, è un atto di fede: con la fede cristiana sembra che la voce della diatriba si converta nel corpo del Signore che si offre per la redenzione del mondo e che in questo calice, il vino si trasforma nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue versato per gli uomini, ci alimenti per dare il nostro corpo e il nostro sangue assieme a Gesù, non per noi stessi bensì per la giustizia e la pace al nostro popolo”.

Fu questo l’Amen di Romero. L’omelia era conclusa. Appena dieci secondi dopo, si sentì lo sparo.

La morte di Romero è quella di un pastore che si espone al male per il bene dei suoi fedeli. Ricorda un altro martire, San Stanislao di Cracovia, che entrò in conflitto con il re Boleslao II per le ingiustizie e le crudeltà da questi commesse contro i suoi sudditi. Il vescovo Stanislao prese le loro difese contro la prepotenza del sovrano fino al martirio. Il fatto che Romero non si interessasse e non sapesse di ideologie, che fosse un “ingenuo”, ma si comportasse solo e semplicemente da pastore e difensore dei deboli, lo rende ancora più simile al martire polacco. Sono significative le parole di Romero sul senso del martirio pronunciate nel maggio 77, dopo l’assassinio di un suo prete:

“Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di render conto, possiamo dire “Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ ho data”. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Come la dà la madre,che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio. E’ dare la vita …”

            Due anni dopo, il martirio è un tema familiare all’arcivescovo, la cui comunità di sacerdoti e fedeli è stata duramente provata dalla persecuzione. E Romero, in visita a Roma, nota:

“…questa mattina sono andato nuovamente alla Basilica di San Pietro e, presso gli altari, che amo molto, di San Pietro e dei suoi successori attuali di questo secolo, ho chiesto insistentemente il dono della fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita allo stesso modo come l’hanno consacrata questi moderni successori di Pietro.”

Romero non era un rivoluzionario, non si sentiva un profeta, credeva alla santità e sentiva la responsabilità di pastore. Non voleva fare politica ma fu costretto a esprimere pubblicamente la verità di ciò che accadeva nel suo paese. Fu “la voce dei senza voce”, che difendeva i poveri e tutti coloro che subivano ingiustizia. Se le avesse conosciute, avrebbe probabilmente fatto sue le parole di Atenagora, il quale alla domanda di Olivier Clément: “Che pensate di quelle “teologie della rivoluzione” o “della violenza”, di cui si parla tanto in Occidente?”, rispose:

“L’unica rivoluzione che la Chiesa conosca è la metanoia – il pentimento -, indispensabile tanto per la comunità ecclesiale quanto per l’individuo. In quanto ai grandi mutamenti storici, ciascuno prenda le proprie responsabilità. La Chiesa non è una potenza di questo mondo, non spetta a lei parteggiare per gli uni o per gli altri. Non è né rivoluzionaria né controrivoluzionaria. E’ la Chiesa dell’amore. Sa che a lungo andare solo l’amore può trasformare la vita. E che bisogna incominciare da se stessi, altrimenti la rivoluzione non è altro che un alibi. E chi vuol essere il primo, deve farsi l’ultimo e il servo di tutti. Parola paradossale di Cristo, che non si rivolge solo ai dignitari delle Chiese, ma anche agli uomini di stato. Ahimé! Gli uomini sono spesso governati da esseri infantili, che per orgoglio o fanatismo, moltiplicano inutilmente le violenze e le sofferenze”.

 

INTERVISTA A JESUS DELGADO, segretario e biografo di Romero

Convegno internazionale a Terni

“OSCAR ARNULFO ROMERO,

LA CHIESA E L’AMERICA CENTRALE DEL SUO TEMPO”

 

“LA SPERANZA PER IL TERZO MILLENNIO”

Monsignor Paglia e Igor Man su Oscar Romero

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