di
Vincenzo Paglia
Il 24 marzo del 1980 verso le sei del
pomeriggio Mons.Romero, con un colpo di fucile, uno solo, fu ucciso mentre
stava celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza
ove era situata la sua abitazione (quattro stanze del custode dell’ospedale
poste accanto al cancello d’ingresso). Quel pomeriggio, come spesso accadeva,
celebrò la messa nella cappella dell’ospedale. Una suora, presente in quel
momento, racconta con queste parole l’assassinio:
“Era il 24 marzo
del 1980 e Monsignore stava celebrando l’Eucarestia nella cappella
dell’ospedale della Divina Provvidenza. Erano circa le sei del pomeriggio. Una
pallottola ad esplosione ritardata lo colpì al cuore mentre stava iniziando
l’offertorio. Io ero presente nel momento del suo assassinio nella cappella;
stavo a circa quattro metri di distanza dall’altare. Mentre Monsignore stava
aprendo il corporale per iniziare l’offertorio si sentì lo sparo. Colpito al
cuore, egli istintivamente si aggrappò all’altare e si rovesciò addosso tutte
le ostie. Cadde, quindi, ai piedi del crocifisso in una pozza di sangue. Io
interpretai questo fatto come se Dio gli dicesse in quel momento: Oscar ora sei
tu la vittima.”
Per Romero si realizzavano le
parole di Gesù: “Il buon pastore offre la sua vita per le pecore”. E Romero la
offrì, appunto, durante l’offertorio. Non era tuttavia un eroe. Romero aveva
paura di morire e più volte lo manifestò. Tuttavia – ed è qui la forza della
sua testimonianza - egli amava il popolo affidatogli dal Signore più della sua
stessa vita.
Romero non era un eroe, come
tutti aveva paura di morire. Quando le
minacce si facevano più insistenti ad ogni rumre, di notte, si svegliava di
soprassalto, terrorizzato. Dormiva nella casetta del custode dell’ospedale,
accanto al cancello di ingresso dell’ospedaletto: quattro povere stanze. Igni
frutto dell’albero (di mango – credo) che cadeva sul tetto della stanza lo
scambiava per uno sparo o una bomba contro di lui.
Tuttavia non si allontanò da
San Salvador, come gli era stato proposto. Quando iniziarono a giungerli le
minacce di morte, infatti, gli fu proposto dal nunzio di andare a Roma, ma egli
rispose che il suo posto era tra il suo popolo. “Il pastore non lascia il suo
gregge”, concluse. E restò.
Un mese prima di morire,
annota:
“Ho paura per la
violenza verso la mia persona. Sono stato avvertito di serie minacce
esattamente in questa settimana. Temo per la debolezza della carne ma chiedo al
Signore che mi dia serenità e perseveranza.…L’altro mio timore è riguardo ai
rischi della mia vita. Mi costa accettare una morte violenta che in queste
circostanze è molto probabile. Anche il Signor Nunzio della Costa Rica mi ha
avvisato dei pericoli imminenti in questa settimana. Il padre (spirituale) mi
ha dato coraggio dicendomi che la mia disposizione deve essere dare la vita per
Dio, qualunque sia lo scopo della mia vita. Le circostanze sconosciute si
vivranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo assistette i martiri e, se
necessario, lo sentirò più vicino nell’affidargli il mio ultimo respiro. Ma più
prezioso che il momento di morire è affidargli tutta la vita, vivere per
lui…Faccio la mia oblazione: Eterno Signore di tutte le cose, io faccio la mia
oblazione con il vostro favore e con il vostro aiuto davanti alla vostra
infinita bontà e davanti alla vostra Madre gloriosa, e a tutti i santi e le
sante della corte celeste, che io voglio e desidero ed è mia scelta deliberata,
solo che sia il mio più grande servizio a voi di imitarvi nel sopportare tutte
le ingiurie e tutto il vituperio e tutta la povertà sia materiale che
spirituale, volendomi la vostra Santissima Maestà scegliere e ricevere in tale
vita e stato. Così consento la mia consacrazione al Cuore di Gesù che è stato
sempre fonte dell’ispirazione e della gioia cristiana della mia vita. Così
anche tengo sotto la sua Provvidenza amorosa tutta la mia vita, e accetto con
fede in lui la mia morte, per quanto essa sia difficile. E nemmeno voglio darle
un significato come vorrei per la pace del mio paese e per la fioritura della
nostra Chiesa…perché il cuore di Cristo saprà darle il fine che vorrà. Mi basta
stare felice fiducioso, sapere con sicurezza che in lui è la mia vita e la mia
morte. Che, nonostante i miei peccati, in lui ho posto la mia fiducia e non
resterò confuso e altri proseguiranno con maggior sapienza e santità i lavori
della Chiesa e della patria” (Quaderno Spirituale 3 pp. 41 – 51).
Romero non moriva per eroismo ma per fedeltà alla missione pastorale
affidatagli. Moriva per aver tentato di contrastare il male, la violenza che
aveva afferrato il suo paese unendo il suo sangue a quello del sacrificio
eucaristico che stava per celebrare, Romero offriva la sua testimonianza di
fede in quella tempesta di violenza che la Commissione della Verità in El
Salvador ha successivamente così descritto:
“La violenza fu
una fiammata che avanzò per i campi del Salvador, invase i villaggi, interruppe
ogni percorso, distrusse strade e ponti, giunse alle città, penetrò nelle
famiglie, negli spazi sacri e nei centri educativi, colpì la giustizia e riempì
di vittime l’amministrazione pubblica, segnalò come nemico chiunque non
apparisse nella lista degli amici. La violenza trasformò tutto in distruzione e
morte, perché tali sono le assurdità di quella rottura della pienezza
tranquilla che accompagna l’imperio della legge. Le vittime erano salvadoregni
e stranieri di tutte le provenienze…poiché la violenza rende uguali
nell’abbandono cieco della sua crudeltà…La instaurazione della violenza in
maniera sistematica, il terrore e la diffidenza nella popolazione sono i tratti
essenziali di questo periodo”. “E’ stato molto incoraggiante per me vedere come
si stanno comprendendo poco a poco questi impegni nuovi che la Chiesa, senza
tradire le sue vecchie tradizioni, deve assumere per essere fedele al momento
attuale, fedele a ciò che il mondo aspetta da essa come servizio da parte di
Gesù Cristo” (Diario, p.82).
Romero crede che il
Concilio chiami all’aggiornamento e al rinnovamento profondo. Ma la fede e la
spiritualità di Romero non deviarono dalle salde basi della sua formazione e
della sua esperienza religiosa di lungo corso. Romero non fu un teologo o uno
studioso sistematico. Sarebbe arduo cercare in lui un pensatore organico e
questo può anche presentare qualche imprecisione qualora fosse preso dalla
passione oratoria. Egli rimase essenzialmente un pastore, un uomo di intensa
preghiera, un sacerdote nelle fibre più intime, un mistico segnato dagli
Esercizi ignaziani, un devoto di Maria e del Sacro Cuore di Gesù, amante del
rosario e della visita al Santissimo, frequente alla confessione, uno
spirituale più a suo agio nel ragionamento purificatore interiore che nella
leadership e nell’organizzazione attivistica.
E la Chiesa che
Romero, arcivescovo secondo il Concilio, voleva, non era una Chiesa
rivoluzionaria, ma una Chiesa umile nel servizio. Per citare mons. Rivera y
Damas, suo successore come arcivescovo di San Salvador:
“ La Chiesa, quella
che Monsignor Romero desiderava, è quella che si fa vicina al povero, non per
motivi politici o per interessi meschini, ma perché ama e vuole
servire…Monsignor Romero ha vissuto il proprio motto ‘Sentire con la Chiesa’,
una Chiesa che è comunità e che è istituzione. […] Impariamo dal suo spirito di
servizio, dalla sua vita intima di preghiera, dal suo continuo spirito di conversione
e purificazione, dalla sua forte spiritualità, valori che molte volte vanno
perduti nell’effervescenza della politica del momento”. (‘Orientacion’, 8
aprile 1984)
Mentre vedeva aumentare la sua
responsabilità di pastore, Romero nello stesso tempo sentiva crescere le
minacce di morte. Sapeva che erano autentiche e fondate. Psicologicamente ne
era lacerato. Negli ultimi mesi passava continuamente dalla gioia al pianto,
dalla depressione più nera alla pace profonda nella preghiera. Quando dormiva si
svegliava di soprassalto terrorizzato: ogni frutto dell’albero di avocado che cadeva sul tetto della dimora
dell’ospedaletto dove alloggiava, lo scambiava per uno sparo o una bomba contro
di lui. Non cercava il martirio. Non si sentiva un profeta desideroso di
sfidare il mondo. Forse era un profeta, in quanto accettava la morte e la
resurrezione ad imitazione di Cristo, ma lui non sapeva di essere profeta. La
sua morte era ormai sicura. Pochi giorni prima dell’assassinio vennero scoperte
72 cariche di dinamite nella chiesa dove doveva andare a celebrare. Gli fu
offerta una scorta: la rifiutò per non mettere in pericolo la vita di altre
persone. “Il pastore, diceva Romero, non cerca la sua sicurezza, ma quella del
suo gregge”. E ancora: “il dovere mi obbliga a comminare con il mio popolo, non
sarebbe giusto mostrare paura. Se devo morire, morirò secondo la volontà di
Dio”. E: “Il buon pastore non abbandona le sue pecore, non me ne vado”.
Romero visse il suo servizio di arcivescovo di san
Salvador in un equilibrio sempre più difficile. Lo lacerava profondamente una
forte divisione all’interno dell’episcopato salvadoregno, dovuta probabilmente
più che a differenze dottrinali o ideologiche, a questioni personali, di
competenze, di rivalità, di prestigio, per il grande rilievo assunto dalla
arcidiocesi metropolitana retta da Romero. La divisione tra i vescovi non
giunse con Romero. Era presente già al tempo del suo predecessore, e fu proprio
questa tensione a far cadere la scelta su Romero. E’ vero che non appena Romero
divenne arcivescovo la situazione politica precipitò verso un’aspra tensione
tra il governo militare e la guerriglia e Romero ne fu come travolto. La
violenza dilagava, tra repressione indiscriminata, scontri di piazza, sequestri
e atti terroristici, omicidi politici. Era estremamente difficile mantenere
l’equilibrio.
Giovanni Paolo II, nell’udienza del 7 maggio 1979 e
successivamente nel gennaio 1980, manifestò a Romero la sua preoccupazione per
questo: si trattava di difendere certo la giustizia, ma anche di evitare che
un’affermazione rivoluzionaria mettesse in difficoltà la Chiesa. La risposta
dell’arcivescovo fu la seguente:
“Santo padre, questo è proprio l’equilibrio che cerco
di conservare, perché da un lato difendo la giustizia sociale, i diritti umani,
l’amore per il povero, e dall’altro mi preoccupo sempre del ruolo della Chiesa
e di evitare che, per difendere questi diritti umani, cadiamo poi in braccio a
ideologie che distruggono sentimenti e valori umani”.
Romero restò quasi stritolato, per così dire, da una
polarizzazione e da una estremizzazione che sembrava non lasciare spazio alla
dimensione pastorale e caritativa della sua Chiesa. La sua scelta per i poveri
e la difesa dei diritti umani non lo portava a condividere le posizioni rivoluzionarie.
Era d’altra parte sempre più distante dal mondo del potere salvadoregno.
Intanto si moltiplicavano gli assassini intorno a lui e lui stesso era
minacciato. Così un giorno prima di morire, predicando in cattedrale,
affermava:
“Così come Cristo fiorirà in una Pasqua di
risurrezione imperitura, è necessario anche accompagnarlo in una Quaresima, in
una settimana santa che è croce, sacrificio, martirio. E come egli stesso
diceva: “beati coloro che non si scandalizzeranno della croce”. La Quaresima è
dunque un invito a celebrare la nostra redenzione in questa difficile
mescolanza di croce e di vittoria”.
E proprio le sue
ultime parole, prima dello sparo fatale, il 24 marzo furono:
“Questa santa
Messa, questa eucaristia, è un atto di fede: con la fede cristiana sembra che
la voce della diatriba si converta nel corpo del Signore che si offre per la
redenzione del mondo e che in questo calice, il vino si trasforma nel sangue
che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue versato
per gli uomini, ci alimenti per dare il nostro corpo e il nostro sangue assieme
a Gesù, non per noi stessi bensì per la giustizia e la pace al nostro popolo”.
Fu questo l’Amen di
Romero. L’omelia era conclusa. Appena dieci secondi dopo, si sentì lo sparo.
La morte di Romero è quella di un pastore che si
espone al male per il bene dei suoi fedeli. Ricorda un altro martire, San
Stanislao di Cracovia, che entrò in conflitto con il re Boleslao II per le
ingiustizie e le crudeltà da questi commesse contro i suoi sudditi. Il vescovo
Stanislao prese le loro difese contro la prepotenza del sovrano fino al
martirio. Il fatto che Romero non si interessasse e non sapesse di ideologie,
che fosse un “ingenuo”, ma si comportasse solo e semplicemente da pastore e difensore
dei deboli, lo rende ancora più simile al martire polacco. Sono significative
le parole di Romero sul senso del martirio pronunciate nel maggio 77, dopo
l’assassinio di un suo prete:
“Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno
l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio
chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti
dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non
ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva
la nostra ora di render conto, possiamo dire “Signore, io ero disposto a dare
la mia vita per te. E l’ ho data”. Perché dare la vita non significa solo
essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel
silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio
della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Come la dà la madre,che
senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa
crescere e accudisce con affetto suo figlio. E’ dare la vita …”
Due
anni dopo, il martirio è un tema familiare all’arcivescovo, la cui comunità di
sacerdoti e fedeli è stata duramente provata dalla persecuzione. E Romero, in
visita a Roma, nota:
“…questa mattina sono andato nuovamente alla Basilica
di San Pietro e, presso gli altari, che amo molto, di San Pietro e dei suoi
successori attuali di questo secolo, ho chiesto insistentemente il dono della
fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire
come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita allo
stesso modo come l’hanno consacrata questi moderni successori di Pietro.”
Romero non era un rivoluzionario, non si sentiva un
profeta, credeva alla santità e sentiva la responsabilità di pastore. Non
voleva fare politica ma fu costretto a esprimere pubblicamente la verità di ciò
che accadeva nel suo paese. Fu “la voce dei senza voce”, che difendeva i poveri
e tutti coloro che subivano ingiustizia. Se le avesse conosciute, avrebbe
probabilmente fatto sue le parole di Atenagora, il quale alla domanda di
Olivier Clément: “Che pensate di quelle “teologie della rivoluzione” o “della
violenza”, di cui si parla tanto in Occidente?”, rispose:
“L’unica rivoluzione che la Chiesa conosca è la
metanoia – il pentimento -, indispensabile tanto per la comunità ecclesiale
quanto per l’individuo. In quanto ai grandi mutamenti storici, ciascuno prenda
le proprie responsabilità. La Chiesa non è una potenza di questo mondo, non
spetta a lei parteggiare per gli uni o per gli altri. Non è né rivoluzionaria
né controrivoluzionaria. E’ la Chiesa dell’amore. Sa che a lungo andare solo
l’amore può trasformare la vita. E che bisogna incominciare da se stessi,
altrimenti la rivoluzione non è altro che un alibi. E chi vuol essere il primo,
deve farsi l’ultimo e il servo di tutti. Parola paradossale di Cristo, che non
si rivolge solo ai dignitari delle Chiese, ma anche agli uomini di stato.
Ahimé! Gli uomini sono spesso governati da esseri infantili, che per orgoglio o
fanatismo, moltiplicano inutilmente le violenze e le sofferenze”.
INTERVISTA A JESUS DELGADO, segretario
e biografo di Romero
Convegno internazionale a Terni
“OSCAR ARNULFO ROMERO,
LA CHIESA E L’AMERICA CENTRALE DEL SUO
TEMPO”
“LA SPERANZA PER IL TERZO MILLENNIO”
Monsignor Paglia e Igor Man su Oscar
Romero
su