Una parola per parlarne 

di Lilia Sebastiani

Incarnazione

Quale altra parola può interpellarci di più come credenti, arrivati a un passo dal Natale? Incarnarsi significa certo entrare nella carne, e il soggetto sottinteso è la salvezza di Dio: ma l'incarnazione non è una faccenda intima di Dio, come si tende a credere, e nemmeno di Dio e di Gesù sulla base di una ineffabile parentela; diventa trasformazione, nuovo orizzonte e nuova responsabilità all'interno di ognuno di noi.
Normalmente si parla di incarnazione solo a proposito dell'evento di Gesù. Ma Šè necessario sottolineare che tutta la logica dell'Alleanza, fin dal primo Testamento, è incarnazionista. Incarnazione è salvezza che entra nella storia umana; salvezza che cresce, facendosi comunicabile, sperimentabile e dinamica, ma in questo processo accetta anche - per così dire - di “ridursi”. Il progetto di Dio è infinito e senza ombre, come Dio stesso. La realtà umana in cui entra pero è sempre limitata, contestuale, segnata da molte debolezze e anche dal peccato. 

Qui è importante proprio l'idea di “carne”. Per il nostro modo di parlare e di pensare, troveremmo più ovvia un'idea come farsi persona, farsi storia, qualcosa del genere. La carne suona al nostro orecchio troppo limitatamente materiale, troppo altra cosa rispetto alla realtà spirituale e anche all'insieme della realtà personale, unità inscindibile di materia e spirito. Ma occorre rifarsi al linguaggio biblico, che non sempre coincide con il nostro linguaggio corrente, al di là di una meccanica equivalenza tra le parole. Se per noi la carne sembra evocare la pura fisicità dell'essere umano, in termini biblici “carne” (basar) allude alla persona umana tutta intera, considerata però prevalentemente dal punto di vista della fragilità, della debolezza, dell'essere soggetta alla sofferenza e alla morte. In questo senso il prologo del quarto vangelo dice “La Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14a). 
Del resto anche la Parola, come sappiamo, nella Scrittura ha un significato diverso e pi- ricco di quello che le attribuiamo noi: non è solo un “segno del significato”, ma un evento. L'ebraico dabar significa parola, ma anche atto: e soprattutto nella sfera di esistenza e di relazione del Dio-con-noi la parola agisce, crea; e l'atto comunica. 

L'incarnazione significa che la salvezza si adatta a tutti i condizionamenti della storia, alla precarietà della condizione umana, alla possibilità del fraintendimento, dell'esitazione, della risposta incompleta e della non-risposta. In questo senso la teologia fin dai tempi antichi ha parlato di knosis, dello “svuotamento” di Dio. Dio creando accetta di autolimitarsi per fare spazio agli esseri umani, per renderli partner e non solo fruitori dell'opera di salvezza. L'Incarnazione - ma possiamo dire questo anche della salvezza - significa che la sfera del divino e quella dell'umano, pur senza confondersi, diventano in qualche modo affini, comunicanti. 

Era abbastanza diffuso nei primi secoli tra i Padri della Chiesa greca, e ripetuto molto tranquillamente, un assioma che oggi ci fa tremare, che suona al nostro orecchio anche lievemente empio nella sua sublimità: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio”. Con ciò non si intendeva confondere Dio con gli esseri umani, ma si diceva, in modo più diretto e suggestivo, che la salvezza è la capacità di accedere alla sfera di esistenza di Dio, e si attua attraverso l'incarnazione. A noi piace dire anche così: la Parola si è fatta carne, e questo ci mostra che la carne può e deve farsi parola.

 

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