Una parola per parlarne 

di Lilia Sebastiani

Sacerdote

Sappiamo che nei nostri ambienti ecclesiali è molto diffuso il costume di chiamare “sacerdote” il prete. Sembra più appropriato, o più devoto, o più fine, chissà. Invece è solo molto consuetudinario, ma la consuetudine di cui si tratta non è corretta biblicamente e neppure molto fedele allo specifico cristiano.

In tutte le religioni - in quelle almeno che conoscono il sacerdozio - il sacerdote è il mediatore ufficiale, istituzionale, tra il gruppo umano e la divinità. Questa funzione non è solo religiosa ma anche sociale, di “protezione” del gruppo: ciò può spiegare perché i sacerdoti in molte religioni tendano a costituire una classe a sé, una casta, in molti casi distinta dalla gente comune per speciali regole di vita e/o speciali privilegi. 

Nel primo Testamento il sacerdozio risulta caratterizzato soprattutto dalla funzione sacrificale. Questa comunque nella fase più antica non è prerogativa dei sacerdoti: si parla anche di sacrifici compiuti da Abele, Caino, Noè, Abramo, Giacobbe ecc., che sacerdoti non sono; l’agnello pasquale viene immolato dal capofamiglia nella propria casa. A poco a poco si delinea la tendenza a riservare a sacerdoti e leviti solo i sacrifici di carattere pubblico, quelli insomma in cui la vittima viene offerta sopra l’altare. In effetti sarà sempre più questo rapporto con lo spazio sacro e l’altare a connotare la funzione del sacerdote. Anche il profeta, secondo il Primo Testamento, ha un ruolo di mediazione tra il Signore e il suo popolo, ma il profeta è tale in seguito a chiamata diretta di Dio, mentre il ruolo del sacerdote è istituzionale.

Ma questo appunto non è lo specifico cristiano. Anzi…
La Lettera agli Ebrei afferma a chiare lettere che con Gesù il sacerdozio è finito. L’unico sacerdote, ovvero l’unico vero mediatore tra Dio e gli esseri umani, nella nuova economia della salvezza, è il “laico” Gesù di Nazaret (Ebr 7,12-14): il suo sacerdozio è libero da ogni elemento rituale e istituzionale, e l’offerta che egli ha presentato a Dio una volta per sempre è l’offerta di se stesso. Gesù, “se tornasse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote” (8,4), e nella sua vita terrena è costantemente presentato dai Vangeli in rapporti di conflittualità - o di estraneità, nel migliore dei casi - con il sacerdozio di Gerusalemme. 

Non ci sono ruoli sacerdotali nelle prime comunità cristiane: il ripristino del sacerdozio che si verifica a un certo punto è frutto di una sorta di ri-giudaizzazione. Via via che spariscono i testimoni della prima ora, le giovani chiese avvertono il bisogno di darsi una struttura che assicuri la durata, e l’unico modello di struttura religiosa a cui si possa guardare in cerca d’ispirazione è quello giudaico. Tutto ciò è storicamente e psicologicamente comprensibile, non però frutto della volontà originaria di Gesù, il quale non manifesta mai l’intenzione di gerarchizzare in senso neo-levitico la comunità di quelli che credono e crederanno in lui. 

Vescovo, presbitero, diacono, diventano i tre gradi del ministero ordinato nella Chiesa, al tempo delle lettere dette pastorali (attribuite dalla tradizione a Paolo, ma in realtà posteriori). Il problema teologico è costituito soprattutto dalla confusione che si determina nella tradizione cristiana attraverso i secoli tra concetti inizialmente ben distinti quali ministero ecclesiale e sacerdozio. 

Del vescovo (epìskopos) abbiamo parlato nello scorso numero; sulla diakonìa, che è qualcosa di molto più ampio anche rispetto al ministero dei diaconi, dovremo tornare. Il prete, dal latino prèsbyter, a sua volta adattamento del greco presbýteros = anziano, richiama anche nel nome il ruolo del responsabile-sorvegliante in un ordinamento sinagogale. (In molti contesti l’idea di anziano suggerisce anche quella di autorità, consiglio, guida; come nel caso del senato, etimologicamente connesso con senis = vecchio). E prete - o presbitero, se si vuole - è l'unico modo corretto di designare la persona investita del secondo grado del sacramento dell'ordine.

Aggiungiamo a titolo di curiosità che nei testi cristiani dei primi secoli si trovano anche certe parole femminili che ci colpiscono, soprattutto oggi: diakonissa, presbyterissa, episkopissa. Non si riferiscono però a donne che esercitino il ministero, bensì alle mogli di diaconi, presbiteri e vescovi. Infatti nei primi tempi della chiesa il clero è regolarmente sposato. Non si trovano donne nell’esercizio di funzioni presbiterali o episcopali. Ciò non è frutto dell'immutabile volontà di Dio, come qualcuno ancora vorrebbe sostenere, ma solo del fatto che nelle società antiche le donne erano abitualmente escluse delle funzioni implicanti autorità istituzionale e rappresentanza.

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