Intervista collettiva al regista, Palma d’Oro per “La Stanza del figlio” Nanni Moretti, l’autarchicodi Arnaldo Casali e Francesco Patrizi E’ vero che questo film era in cantiere da diversi anni, ma poi ne hai interrotto la lavorazione perché quando è nato tuo figlio eri troppo felice per raccontare una storia triste? «Sì,
è andata così, anche se io ho parlato solo di questo
aspetto, ma in realtà sono successe altre due cose: sono
partito dall’idea di voler fare un film su uno psicanalista,
poi ho cercato di costruirci intorno una storia, e per questo
ho cercato delle collaborazioni: avevo deciso di scrivere il
film con uno sceneggiatore francese (e tra l’altro, io non
so il francese e lui non conosce l’italiano). Ci siamo visti
un paio di volte, poi la terza volta è venuto a Roma tutto
agitato -
premetto che non è uno scherzo - e mi ha detto che si era
innamorato in Portogallo, non era più lucido e quindi non
poteva più scrivere questo film. Questa è la seconda cosa
che è successa; la terza è che nel '96, ci sono stati due
avvenimenti importanti, uno privato - la nascita di mio figlio
- e uno pubblico - la vittoria del centro sinistra alle
elezioni, avvenimenti che si sono svolti a tre giorni di
distanza, 18 e 21 aprile. Io in previsione di questi due
avvenimenti ho cominciato a girare delle cose su Silvia al
nono mese di gravidanza, poi ho ripreso i comizi elettorali, e
poi quando Pietro aveva cinque settimane ho girato dei pezzi
con lui; insomma in maniera ancora frammentaria ho girato
delle cose, e dopo alcuni mesi ho capito che stavo facendo il
mio nuovo film». Questo film parla di una famiglia colpita da un grande dolore. Secondo te il dolore unisce o divide? «C’è
la retorica che vuole che il dolore unisca e renda solidali,
ma non è sempre così.
In questa storia ci sono tre persone che si vogliono bene, divise dal loro
stesso dolore, perché ogni componente della famiglia reagisce
in un modo diverso, anche se poi insieme trovano le risorse
per andare avanti e
fare di tutto questo dolore qualcosa di non inutile. In un
primo tempo quindi mi sembra che questo sia senz’altro un
film che parla della vita e del modo di vivere il dolore. Ma
io non voglio dare sentenze definitive; non sono in un talk
show dove dico l’amore è così, il dolore è così, la vita
di coppia è questa. Io parlo di questo film, di questa storia».
Girare un film sulla morte di un figlio, proprio dopo la grande gioia della nascita del tuo è una forma di catarsi, un modo per esorcizzare la paura di perderlo? «Questa
è una domanda che mi hanno fatto spesso in passato, a
proposito di altri film, e che mi sono fatto anch’io, perché
nei miei film ho sempre raccontato di me. Allora ogni
tanto veniva fuori questa domanda se cioè fare cinema
personale funziona un po’ da autoterapia. No, la risposta è
no. In Caro
Diario, per esempio, ho raccontato la storia di un tumore che
ho avuto dieci anni fa e di dieci mesi di diagnosi sbagliate,
con tanti medici incontrati. Però non è che raffreddare
questa mia vicenda personale in una sceneggiatura e poi
realizzarla attraverso le riprese di un film mi abbia aiutato
a superare questo problema… è stata
la chiemioterapia e i raggi a che mi hanno aiutato a
superare questa cosa». Aprile parlava di un figlio che nasce, e delle elezioni vinte dall’Ulivo. Questo film parla di un figlio che muore ed è uscito alla vigilia della probabile sconfitta dell’Ulivo alle elezioni. Cos’è, la cronaca di una morte annunciata? «E’
assolutamente un caso. Non mi sembra che in questo film
c’entrino né l’attualità né la politica. D’altra
parte di un film si può dire tutto e il contrario di tutto.
Di Aprile alcuni dicevano che era il mio film più politico,
altri che era il mio film più privato. E forse erano tutte e
due le cose insieme. Riguardo alla politica, tranne che in
Aprile, non l’ho mai presa di petto, non l’ho mai
affrontata direttamente. D’altra parte penso che spesso i
registi, quando hanno raccontato la politica italiana si sono
accontentati di avere fra le mani un argomento importante e si
sono disinteressati di fare un buon film, che invece deve
essere sempre l’obiettivo principale di chi fa questo lavoro». Perché hai scelto di dare questo dolore proprio ad un analista? «Mi
interessava affrontare con serietà questo personaggio che nel
cinema spesso è stato un po’ mortificato nel tentativo o di
spettacolarizzarlo o di renderlo divertente è stato molto
banalizzato. Ne è stato fatto o un personaggio oracolare che
dice poche cose e definitive in modo molto rigido e
schematico, o un pazzarello che ha più problemi dei suoi
pazienti. Avevo voglia di affrontare con serietà questo personaggio, e
farlo rispettando il setting, cioè la cornice dell’analisi,
che deve svolgersi entro quelle quattro mura, mentre invece
sceneggiatori americani - e non so se questo corrisponda al
modo di lavorare degli psicoterapeuti americani - spesso
scrivono delle scene in cui il terapeuta prende il paziente,
se lo porta al laghetto, gli parla di sua moglie. Mi viene in
mente Will Hunting con Robin Williams e Matt Damon. Film anche
riusciti e interessanti, però, insomma, io volevo rendere
credibile questo lavoro e
i rapporti tra l’analista e i suoi pazienti. Far
vedere una persona che lavora sul dolore degli altri a
contatto con il più grande dei dolori che gli può capitare». Come vedi l’attuale situazione del cinema italiano, anche in vista del recente cambiamento politico? «I
soldi mi pare che ci siano. Non credo che cambieranno le cose
con il governo Berlusconi e non mi piace proprio fare del
vittimismo. Se ci sono produttori, registi e sceneggiatori che
cercano di raccontare questo paese ognuno secondo la propria
sensibilità e il proprio stile, perché non potrebbero essere
prodotti buoni film? Oltre
a fare il regista insieme ad Angelo Barbagallo ogni tanto
produco dei film con la Sacher Film, poi abbiamo un cinema a
Roma dove a volte programmiamo dei film considerati difficili,
e ho anche un piccolo festival di cortometraggi. Tutto questo
non è che lo vivo come una missione nei confronti degli altri
o del cinema di qualità o degli spettatori che io voglio
plasmare e forgiare. Prima di tutto mi piace fare questo
lavoro, e poi lo considero un proseguimento del mio modo di
fare il regista e se indirettamente questo nostro lavoro ha
dato un pochino di fiducia e di coraggio ad altri produttori,
registi o esercenti la cosa mi fa molto piacere». Ne
La stanza del figlio non viene mostrato tutto ciò che di
solito si vede sui film che parlano della morte, e viene
mostrato tutto ciò che di solito rimane nascosto. «Sì,
ad esempio c’è una lunga sequenza nella camera ardente. Di
solito i registi hanno paura di confrontarsi con la morte, e
allora la buttano sul grottesco o sull’esteriore; in Pranzo
di natale, ad esempio, c’è addirittura un telefonino che
squilla dentro la cassa da morto. Noi in quelle scene
cercavamo di essere soprattutto delle persone, che stavano
dentro quella stanza e si soffermano sulla morte, senza
cercare scorciatoie. Io mi soffermo molto sul momento che
precede la chiusura della cassa, ci tengo molto perché per
me, come non credente, dopo che la cassa è stata chiusa non
c’è più nessun altro modo di rivederlo». Si
è detto che questo film rappresenta una svolta, finalmente
hai fatto quel film “vero” che Luchetti in Aprile ti
rimproverava di non fare da troppi anni. Un film che non è né
autobiografico, né interprete di una generazione. «Mentre giravo Aprile nell’arco di un anno e mezzo - tra il ‘96 e l’estate del ‘97 - sapevo che il mio film successivo sarebbe stato un film più classico, con una sceneggiatura completa come non mi capitava da tanti anni. Non so se rappresenta una svolta, però una cosa che mi fa piacere è che da quello che mi dicono e mi scrivono, mi sembra che il film non si esaurisca nell’ora e quaranta della sua durata, ma che rimanga a lungo dentro le persone». Come guardi oggi i tuoi primi film, che hai fatto quando avevi vent’anni? «Ecce
Bombo è uscito ventitré anni fa, proprio durante il periodo
del sequestro Moro. Sono anni che sento come persona più che
come regista. Se sono cambiato come regista è perché sono
cambiato come persona. Prima c’era un personaggio chiamato
Michele Apicella (Apicella, tra l’altro, è il cognome di
mia madre) e io mi divertivo a mettere in scena tutti i suoi
tic, come la passione per i dolci e il resto.
E’ un personaggio che ho abbandonato con Palombella
Rossa. Adesso mi hanno chiesto se la targa dell’auto del
protagonista di La stanza del figlio, AP 575 AP, era un
riferimento a questo personaggio; un mio amico regista mi ha
detto che è una targa palindroma, cioè che si può leggere
si da sinistra verso destra che al contrario (dove si legge,
per altro “Papà”, mentre i numeri 5 e 7 sono quelli del
nome Nanni Moretti ndr) se quindi questo significasse che
Giovanni è un personaggio che vuole tornare indietro. No, è
semplicemente la targa della macchina che mi ha noleggiato
l’autosalone di Ancona, dove ho girato il film». Nel film non compaiono mai telefonini, né internet. E’ una scelta programmatica che rientra nella linea intimista del film? «Internet
semplicemente non fa ancora parte della mia vita, poi chissà,
quando mio figlio crescerà forse mi insegnerà ad usare tante
cose. Riguardo ai telefonini nel film ci sono solo due
telefonate fatte non da casa. E come regista e attore mi
piaceva di più interpretarle da un telefono pubblico. E’
stata una scelta precisa, ma non mi sento per questo un eroe». Ma nella vita ce l’hai il cellulare?«No,
non ce l’ho. Non ho nulla in contrario ma, forse mi sbaglio,
mi sembra di non averne bisogno. Poi chissà, magari un giorno
me lo compro. Caso mai mi piacerebbe per chiamare, non per
essere chiamato». Come dirigi gli attori?«Non
credo molto nell’improvvisazione, credo sia una cosa rara e
non necessariamente positiva, anche se mi piace che il
personaggio sia modificato, arricchito dalla personalità di
chi lo interpreta. Così è successo ad esempio con la ragazza
che interpreta mia figlia. Ad ogni modo generalmente io,
quando lavoro non solo con gli attori, ma anche con il
direttore della fotografia, con il musicista e con il
montatore, so soprattutto cosa non voglio, e questo dipende
anche dai tanti film che ho visto come spettatore». |