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Intervista al comico in giro per l'Italia con le sue "Serate di delirio organizzato"

 Paolo Rossi: “Rianimo il teatro in coma”

 “Il teatro si allontana dalla gente come la politica,  se ne vanno tutti i luoghi dove le coscienze si incontrano, anche solo per divertirsi” 

 

di Arnaldo Casali e Francesco Patrizi

C’è l’idea di mettere in scena Giulietta e Romeo, c’è il palco, ci sono dei musicisti, dei suggeritori, le quinte con il ritratto di Shakesperare e un regista, Paolo Rossi, vestito come un ammaestratore di pulci. Mancano solo gli attori, che vengono ogni sera reclutati tra il pubblico, ammaestrati sul palco, agghindati con i costumi e mandati allo sbaraglio sotto l’occhio ironico e beffardo del piccolo comico-burattinaio, che provoca, istiga e inserisce, a sorpresa, tra una risata e l’altra, brevi e intensi momenti di poesia shakespeariana. Lo spettacolo, in scena ormai da quattro anni con crescente successo si intitola “Giulietta e Romeo” e il sottotitolo avverte “serata di delirio organizzato”,  perché tutto sembra delirante e improvvisato, ma lo spettacolo, in sostanza, è tutto sotto il controllo vigile di Paolo Rossi. Due ore filate - che strizzano l'occhio tanto ai classici quanto alla comicità e alla sperimentazione - in cui il pubblico sceglie le parti del testo da mettere in scena, se le recita insieme alla compagnia, si divide in platea tra Montecchi e Capuleti e si esibisce in una collettiva “lezione di bacio” alla maniera dei celebri amanti.

Sul palco campeggia la scritta “Teatro di rianimazione”. Chi è che sta in coma?

“Il teatro. Non tutto, certo. Ma quello che viene definito “Teatro” con la maiuscola, che è un po’ in ritardo, sulle altre arti e sulle attese dei giovani, ma anche sulla stessa realtà. A volte ho la netta sensazione che l’ambiente del teatro sia un mondo a parte, e questo da quando è stato un po’ emarginato. Non è stato più il centro dove si raccontava il mondo, ha assunto atteggiamenti sempre più snobistici verso la realtà. Ebbene, se il teatro non è più al centro del mondo non è però il caso di emarginarlo ulteriormente. Va, rivendicata, credo, la sua importanza vitale per la società civile, perché è un luogo dove si incontrano persone vive, che vivono delle esperienze irripetibili, che non sono paragonabili alla televisione o quant’altro. Si dice che il teatro non viene bene in televisione. Ci credo, è come il cinema porno: è chiaro che è meglio fare che stare a guardare, eppure mi sembra che il cinema porno sia molto popolare, che non stia in crisi per questo… ma il teatro se ne è andato dalla società, come se ne sono andati i partiti: se ne sono andati tutti i luoghi dove le coscienze si incontrano, anche solo per divertirsi. Io credo che oggi  appena si entra in teatro viene voglia di addormentarsi, il teatro elisabettiano, invece, quello di Shakespeare, era anche un luogo di incontro, dove si giocava a dadi, si mangiava, si chiacchierava, si faceva sesso”. 

In questo spettacolo tu metti in discussione il concetto stesso di teatro, che presuppone il patto implicito, tra attore e spettatore, che quello che viene mostrato è tutto finto. Qui invece nessuno, nemmeno chi è sul palco, sa mai se quello che accade è preparato o improvvisato, è vero o è falso…

“Lavoriamo nella terra di nessuno, quel punto dove si incontra il mondo reale e quello di finzione, di simulazione, di invenzione. Questo è il prodotto dell’alchimia di questi due mondi che devono essere differenti. Credo sia una chiave molto importante per noi anche per i lavori futuri”. 

Come è nata l’idea dello spettacolo?

“Quasi per scherzo, a Modena facevamo un seminario, il pubblico partecipava come uditore e doveva pagare. Allora ho pensato che sarebbe stato più giusto far partecipare questi uditori, farli recitare e non lasciarli solo ascoltare. Così abbiamo cominciato quattro anni fa, con dieci partecipanti in un cinemino, poi voce di è diffusa la cosa è cresciuta. Ci siamo detti che forse era il caso di riflettere su quello che era accaduto e di portarlo in giro costruendoci uno spettacolo. Ci siamo detti: perché una persona che nella vita reale fa già diciotto parti almeno, poi deve andare a teatro e vedere un attore che ne fa una sola? Viviamo nella società dello spettacolo, dove tutto è rappresentazione: un caso umano può diventare una fiction televisiva, un politico con un paio di battute di spirito può raccogliere più consensi che con un’azione concreta o un buon programma. Quindi credo che il teatro debba riflettere su sé stesso, sempre, per quando ci riguarda, facendolo con gioia e tenendo presente che non esiste IL teatro, ci sono tanti modi di fare teatro. Per me il teatro è la chiave di lettura per leggere il mondo e il mio paese”.

Sul palco tieni due televisori accesi “che può guardare chi è annoiato dallo spettacolo”. In televisione hai fatto programmi storici e lanciato personaggi come Antonio Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo e Vinicio Capossela e hai fatto anche un paio di memorabili comparsate accanto a Celentano, tanto da far dire a Michele Santoro che eravate una delle migliori coppie comiche della TV…

“La televisione va fatta col contagocce. Il teatro è sempre meglio, anche se poi mi piace portare i miei spettacoli sul piccolo schermo; come ripeto, la differenza è quella tra il fare e lo stare a guardare. La televisione serve ad amplificare, a far vedere a più gente quello che fai. Ad ogni modo in futuro cambierà molto il modo di fare televisione a causa di internet e delle tv via satellite. La TV non avrà più un ruolo così centrale come adesso, basta guardare i dati di ascolto del sabato sera. Chi si trova bene con la televisione di oggi avrà qualche difficoltà, e il teatro avrà più spazio, come d’altra parte tutti i mezzi di espressione”.

Quindi non ti preoccupa l’attuale omologazione televisiva?

“Beh, negli ultimi anni abbiamo avuto una bella mazzata, molte generazioni non dico che ce le siamo giocate, ma sicuramente è stato fatto un lavoro molto profondo…”.

Il tuo spettacolo ricorda un po’ “Dio”, un testo semi-sconosciuto di Woody Allen che è stato portato in scena qualche anno fa dalla MAPA, una compagnia ternana…

“E’ un modo di far teatro ‘pop’, che mescola insieme musica, improvvisazione, citazioni, interventi del pubblico. Io credo che non si tratti di uno spettacolo, ma di un genere teatrale, che non appartiene solo a me, e che vorrei anche teorizzare in un libro. D'altra parte non è patrimonio esclusivo del comico: abbiamo fatto una serata sul presidente di un paese africano ucciso qualche anno fa che aveva le stesse caratteristiche di happening. E’ semplicemente un modo di fare teatro popolare. Quando cerchi una cosa nuova finisci sempre per trovare una cosa antichissima: quando ho spiegato lo spettacolo all’attore senegalese della mia compagnia lui mi ha detto: “E’ così che noi facciamo teatro!”.

Ora cosa farai?

“Stiamo preparando un allestimento dell’”Avaro” di Moliére. Non credo che anche in quello spettacolo il pubblico interpreterà le parti da protagonista, ma sicuramente reciterà ancora con noi e sarà coinvolto. Questo di “Giulietta e Romeo” è un atto estremo, una festa, ma il metodo va ancora affinato: abbiamo dato una grossa importanza alla platea, ora bisogna dare una grande dignità anche a quello che accade sul palco”.

 

"Viviamo in un paese dove si diventa onesti facendo le leggi e lo stato si è insinuato come un cancro nella mafia".

"Non è l'aria che è sporca, sono gli alberi che è un sacco di tempo che non hanno voglia di fare niente! Volete l'aria pulita per i vostri figli? Compratela! L'unica soluzione per avere aria pulita è quella di privatizzarla!".

"Una volta salgo su un taxi e il tassista dopo un po' mi guarda e mi fa. "L'ho riconosciuta, sa? Lei è bravissimo a cantare!". "Grazie, anche se a dire la verità ho fatto poche cose, più che altro sono un attore". "Guardi, come attore è meglio che lascia perdere. Mi fa un autografo? Ecco, scriva qui…  con affetto Nino D'Angelo".

  Paolo Rossi