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L’EFFETTO
SERRA STANCA CHI LO PROVOCA Al summit di Bonn gli alberi diventano merce di scambio di Francesco
De Marchis Sulla strada
dell’effetto serra si è frapposto l’ennesimo summit:
all’Hotel Maritim di Bonn in questi giorni si sono riuniti i
ministri dell’ambiente di 180 paesi, dopo il fallito vertice di
New York dello scorso aprile. Sono stati giorni di intense
trattative, in cui Australia, Giappone e Canada hanno compiuto un
deciso passo avanti verso l’accordo, allineandosi dopo giorni di
mediazione sulle posizioni dell’Unione Europea, e che hanno visto
il rinnovarsi del messaggio di indisponibilità della Casa Bianca
alla ratifica del protocollo di Kyoto. Pur riconoscendo il problema
dell'effetto serra, l’obiettivo statunitense è rimasto in
contrapposizione all'intesa raggiunta nel '97 in Giappone: ottenere.
Con l’unico risultato di ottenere un isolamento che ha messo
fortemente in imbarazzo i suoi delegati. La base su cui si è
raggiunto questo difficile accordo, che si profila comunque come una
vittoria di Pirro per l’ambiente, ha avuto come fulcro la
creazione di nuove foreste: quei paesi che non hanno la possibilità
(o l’intenzione) di riconvertire le loro industrie ad operare
applicando tecnologie “pulite”, o anche di ridurre le emissioni
nell’atmosfera, potranno limitarsi a piantare alberi e creare
nuove foreste, per essere in regola con il protocollo di Kyoto.
Questa vera e propria “merce di scambio” potrebbe rappresentare
un freno verso l’innovazione tecnologica, necessaria per un
intervento veramente efficace, anche se, secondo i rappresentanti
del PEW center, cartello di multinazionali impegnato nel campo
ambientale, «l’accordo di Bonn è un colpo di frusta che
trasformerà l’efficienza energetica in un elemento essenziale per
vincere la battaglia della competizione internazionale». Ma allargando lo sguardo
verso una visione d’insieme dell’accordo, non si può
sottovalutare l’importantissimo risultato politico raggiunto: il
netto isolamento degli Stati Uniti e il conferimento del ruolo di
leader all’Unione Europea sui temi ambientali. Non a caso lo
stesso WWF, al termine della conferenza, ha parlato di un vero e
proprio terremoto geopolitico intorno all’accordo. Di qui alla ratifica la
strada è comunque ancora lunga, e passa per problemi spinosi come
l’istituzione e il funzionamento di meccanismi di controllo,
specie per ciò che concerne la regolamentazione del rimboschimento,
che potrebbe prestare il fianco a molteplici scappatoie dipendenti
dall’interpretazione più o meno restrittiva data al concetto di
foresta (ad esempio, se passasse la linea più disinvolta, si
potrebbe prendere una foresta, ridurla a pascolo punteggiato di
alberi e sostenere che nessun danno ambientale è stato prodotto: il
numero degli alberi si è indubbiamente ridotto, ma cio che conta,
cioè la superficie delle chiome, è rimasta costante). Rimane comunque incerto
l’effetto di queste decisioni sul riscaldamento del pianeta: gli
Stati Uniti infatti sono responsabili dell’emissione di un quarto
dei gas dell'effetto serra (la ratifica prevederebbe la riduzione
del 5,2 per cento dei gas dannosi entro il 2010 a fronte del 60%
richiesto dagli studiosi del campo), una realtà che rischia di
vanificare l'efficacia di qualunque accordo in loro assenza. Nel
frattempo inoltre, l’amministrazione statunitense ha annunciato il
suo nuovo e ambizioso progetto energetico: mille e novecento nuove
centrali elettriche nell'arco di 20 anni, accompagnate da
perforazioni petrolifere nei parchi nazionali e lungo le coste.
Numerose associazioni ambientaliste, che accusano il presidente di
ignorare le energie alternative, hanno già alzato la voce. «Costruire
tutte queste nuove centrali significa rilasciare nell'aria nuovi gas
- spiega William Chameidis, docente di chimica al Georgia Institute
of Technology -. Mi chiedo se la gente ha capito di che magnitudine
è il progetto dell'amministrazione». L'amministrazione
repubblicana inoltre sostiene che ratificare il protocollo di Kyoto
significherebbe per gli Usa tagliare il dispendio energetico del 40
per cento, con la perdita di milioni di posti di lavoro e una
conseguente recessione. Davanti a questi dati, alla Casa Bianca
starebbe prendendo piede una nuova scuola di pensiero: rinunciare a
lottare contro l'effetto serra. Secondo il quotidiano Usa Today, il
capo dei consiglieri economici del presidente, Lawrence Lindsey, è
il principale difensore di questa posizione. A suo giudizio, tentare
di difendere il pianeta dall'effetto serra costerebbe di più che
adattarlo ai danni del surriscaldamento. Muraglie antialluvione,
riserve idrologiche per le fasi di siccità, evacuazione delle aree
costiere, edilizia più resistente a uragani e altre violente
perturbazioni atmosferiche: questa sarebbe la ricetta meno costosa.
Con buona pace dei paesi poveri. ________________________________________________________________ |