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I predatori delle foreste Distrutti i "polmoni" verdi in Asia e in America, le industrie del legno ora
colonizzano
l'Africa. Molte sono italiane. Dossier di Greenpeace
GUGLIELMO RAGOZZINO
- ROMA
da il Manifesto del 26-02-02
Rebo, il despota di Saturno e gli
altri pezzi grossi sono soddisfatti. A
loro, come è noto, sta molto a cuore
la Terra, anche se tutto quel pestifero
ossigeno che la circonda li disgusta.
Così scrutano da lontano il piccolo
terzo pianeta, maleodorante, che per
altri versi vorrebbero conquistare, per
farne una colonia. Il fatto è che la
balsamica e corroborante anidride
carbonica viene consumata da una
malattia endemica della Terra che gli
scienziati saturniani chiamano
foresta. Nell'ultimo periodo, finalmente, le
foreste stanno sparendo dalla faccia
della Terra, e questo è un bene, ma
troppo lentamente. Sono ormai
praticamente eliminate dall'Asia del sud est,
ma sono ancora troppo presenti in
un'altra parte di quel pianeta, chiamata
America.
Oggi però Saturno è in festa per una
vittoria. In un altro continente
terrestre, di nome Africa, in passato
ricoperto di spessa, intangibile,
tenebrosa foresta, un luogo pieno di
piante selvagge e di animali
inconcepibili, si è aperto un buco,
una chiazza bianca che cresce con una
rapidità fantastica e ormai si vede
da Saturno, con i telescopi; ma quasi
quasi si potrebbe vedere a occhio
nudo. Con cautela, non sapendone di più,
ma interpretando il traffico del
cosiddetto naviglio che va e viene
dall'Africa, verso un meraviglioso e
magnificamente spelacchiato territorio
più a nord, conosciuto ai
cosmogeografi come Italia, gli scienziati hanno
dato un nome - Sega-italia - allo
spazio che si sta aprendo in una grande
regione boscosa: il Camerun. E
attendono, con fiducia, con impazienza, che
il buco si mangi tutto, tutta la
foresta africana.
Difficile dire se veramente Rebo e gli
altri personaggi inventati da
Zavattini e Pedrocchi e disegnati da
Scolari negli episodi di Saturno contro
la Terra, possano vedere da Saturno il
buco fatto dall'Italia, segando via
un pezzo di Camerun; ma è vero che
noi cittadini dell'Italia, abbiamo fatto
il possibile per aprire un nostro
personale deserto di fango e avanzi di
legno nel bel mezzo del Camerun. Noi
delle cinque o sei grandi imprese di
deforestazione, di segheria, di
lavorazione del legno di esportazione, con
origine e capitali italiani (come
Alpi, Vasto Legno Sefac, Itallegno, Dassi
e altre minori); e noi, milioni di
persone che nella opulenta Italia non
sappiamo vivere senza un pavimento di
legno pregiato sotto i piedi. Questa
volta non possiamo dare il merito o la
colpa della globalizzazione al Wto, a
Wall Street, al Fondo monetario, alla
Banca mondiale, ai pericolosi
saturniani. Sono i nostri mercanti che
vanno in Africa a tagliare gli
alberi; sono i nostri concittadini, le
nostre concittadine che pretendono il
parquet. In mezzo, cercando di capire,
di sapere, di mostrare, c'è
Greenpeace. Con lo studio, l'esame sul
campo (per meglio dire: nella
foresta) la voglia di fare qualcosa
subito, prima che sia tardi.
Greenpeace ha spesso il merito della
concretezza. In questo caso, propone un
suo materiale ("L'industria del
legno in Africa. Impatti ambientali, sociali
ed economici") che dà conto di
una serie di ricerche nei paesi dell'Africa
centrale e occidentale sottoposti alla
rapina del legno e anche notevoli
informazioni sugli agenti europei ed
asiatici che trafficano con il legno
africano, comprano concessioni,
finanziano le guardie. E c'è un capitolo
speciale (preparato, tra gli altri, da
Sergio Baffoni) che riguarda il
Camerun, esaminandolo proprio sotto il
profilo dello sfruttamento coloniale
praticato da noi stessi. Ed è in
riferimento a questo capitolo che ci viene
mostrato il buco al centro del
Camerun.
La foresta dell'Africa
centro-occidentale "è la seconda grande foresta
tropicale del pianeta". Si
sviluppa per 198 milioni di ettari, ma ormai non
è più un tutto unico, un'unica
foresta di frontiera, un modo per indicare un
ecosistema che è abbastanza esteso e
continuo da risultare indisturbato e
non modificato da attività umane.
L'insieme delle foreste italiane che
evidentemente sono tutt'altra cosa, è
di 9.000 ettari, ventimila volte di
meno. Le foreste di frontiera sono
ormai ridotte a quattro sistemi, sempre
più intaccati ai bordi: Amazzonia,
Canada, Russia; e, appunto, bacino del
Congo. L'esistenza di una foresta di
grandi dimensioni è un bene di tutta
l'umanità, perché è indispensabile
per la biodiversità, e per la
sopravvivenza stessa degli esseri
umani, visto che dà un po' di respiro a
tutti. Le foreste maggiori ormai sono
solcate in ogni direzione dalle
attività umane; in particolare quella
meno difesa di tutte, l'africana. Qui
si sono dirette le attività di
tagliatori di alberi di ogni provenienze e
poi di cacciatori, di bracconieri, di
venditori di armi. La foresta la si
intende molto spesso come una miniera
a cielo aperto da sfruttare nel modo
meno costoso e più redditizio, senza
tener conto del disastro ambientale che
si lascia in eredità a tutte le
generazioni che verranno. Occorrono strade
per far penetrare i mezzi che servono
per tagliare gli alberi da strappare
alla foresta, per fare spazio a tutti
i lavori. Cacciatori e bracconieri si
infilano tra gli addetti al taglio,
anzi risulta che la caccia, anche di
speci rare e protette come i grandi
primati, viene tollerata, per offrire
alimenti e pagare di meno i lavoratori
in trasferta. Ma è tutto il sistema
sociale umano che viene compromesso
nelle grandi foreste quando comincia il
taglio degli alberi più pregiati. In
ognuno dei poveri paesi dell'area
esiste in qualche forma un sistema di
concessioni e un regolamento che
dovrebbe guidarle, ma le imprese
estere che sono presenti nel bacino
forestale, sono troppo forti per
essere ostacolate seriamente da funzionari
troppo poveri e privi di mezzi. Anzi
le concessioni forestali agiscono
spesso come leva per una corruzione
diffusa che rende sempre più disagevole
o inutile il controllo che dovrebbe
regolare il taglio, preservare alcune
essenze, impedire la caccia
soprattutto alle speci a rischio di estinzione:
in una parola, salvare la foresta.
La concorrenza tra imprese
tagliatrici, tra esportatori di legnami, tra
stati coperti da foreste, tra
lavoratori in cerca di un impiego da aperte
dei concessionari o delle compagnie
che esportano legnami, rende ancora più
rapida la catastrofe. Alla ricerca del
massimo guadagno, del prezzo più
conveniente per i mercanti, la foresta
rischia sempre di più di essere
distrutta. Per prendere un certo
albero, di caratteristiche e dimensioni
adatte al mercato del giorno, si
squarcia una vasta area, si creano radure
che rimangono piene di tutto quello
che non serviva, che non vale la pena di
portare fuori. Così la foresta è
oltre che miniera anche discarica. In
termini economici si spreca mille per
tagliare cento e vendere dieci. I
mercanti cercano sempre il prezzo più
basso e vanno a cercarlo proprio là
dove è possibile perché gli operai
sono malpagati (e si rifanno cacciando e
catturando gli animali più rari e
appetibili), le guardie sono assenti o
corrotte, la distruzione della foresta
è più sicura, i controlli sono
inesistenti e il margine di guadagno
più elevato. Poi, quando tutto è
distrutto o sporcato, ci si sposta,
come se la foresta fosse una conquista
inesauribile.
Di tale disastro ambientale si occupa
Greenpeace, ma non si limita a contare
e a predicare. Alla ricerca di altri
risultati, dalla settimana prossima ha
in programma una serie manifestazioni
in alcuni porti del mediterraneo del
Nord, porti ricchi dove tronchi e
legni tagliati vengono scaricati dalle
navi. Greenpeace ha svolto un'indagine
accurata sulla movimentazione del
legno e conta di servirsene per
mettere sull'avviso, con azioni
dimostrative, tutti coloro che
comprano mobili, pavimenti, case di legno,
proprio a partire da taluni porti. Il
risultato che gli ambientalisti
perseguono è prima di tutto quello di
mettere sull'avviso il pubblico.
Nessuno venga a dire, domani, non
sapevo niente. La situazione di
depauperamento delle foreste tropicali
riguarda tutti, non solo per
solidarietà con le persone più
deboli che nelle aree spogliate vivono con
molti più rischi e stenti, ma anche
per la necessità di conservare l'eredità
comune e contenere attraverso la
salvezza delle foreste, l'aumento dei gas
di serra. Esistono leggi e regolamenti
che vanno applicati, anche se i
governi non hanno la forza per farlo.
La proposta è allora quella di
prevedere una certificazione, che
garantisca gli acquirenti finali che il
legno che essi comprano "proviene
effettivamente da foreste gestite in modo
responsabile". Esiste già uno
standard Fsc (Forest stewardship council) che
può certificare "sistemi di
gestione forestale sostenibile dal punto di
vista ecologico, sociale ed
economico". Mentre nei paesi del nord Europa è
immaginabile che si possa arrivare in
pochi anni a rilevanti acquisti di un
legno certificato, ciò che potrebbe
perfino consentire la salvezza di taluni
tipi di alberi rari, qualora questa
tendenza fosse abbastanza forte, più
lontano sembra il coinvolgimento delle
imprese che certo sarebbero pronte a
sostenere: noi per noi lo faremmo, ma
bisogna che lo facciano tutti, anche i
libanesi, anche gli asiatici, che sono
i nostri concorrenti più agguerriti e
non guardano certo in faccia nessuno e
tagliano gli alberi senza pietà.
Le compagnie del legno hanno facile
gioco, dandosi l'un l'altro la colpa e
corrompendo tutti insieme i governi
locali. Nel momento però in cui il legno
senza certificazione fosse escluso
dalla grande distribuzione e dall'uso
nell'edilizia e negli acquisti degli
enti pubblici, allora ognuno correrebbe
a farsi dare il bollino, rendendo più
facile la vita dei governi
dell'Africa. E allora ben vengano i
pirati di Greenpeace: senza di loro come
faremmo a respingere Rebo e i suoi
crudeli saturniani?
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