Finalmente,
dopo mesi di giochi sott'acqua e di segnali cifrati, sta venendo
alla luce la grande operazione politica che si propone di
chiudere davvero la lunga stagione di Tangentopoli, di azzerare
per sempre le pendenze giudiziarie di Silvio Berlusconi, e di
gettare le basi della Terza Repubblica, con gli uomini della
Prima che rinascono dalle ceneri della Seconda.
E' un progetto in due tempi, che sta ormai manifestandosi in
tutta la sua chiarezza e nella sua potenza politica
straordinaria. Ha la forma di un patto, e verrà proposto in
nome del buon senso istituzionale, del moderatismo repubblicano,
del ritorno ad una normale fisiologia democratica nei rapporti
tra i poteri dello Stato, come una fuoriuscita necessaria da
questa stagione di emergenza e di eccezionalità nel
confrontoscontro tra politica e magistratura. In realtà è un
patto del diavolo, e come tale comporta la dannazione della
nostra democrazia: lo diciamo in anticipo, prima che prenda
forma il grande inganno e scatti l'ultima tentazione per una
classe politica pronta a barattare il senso dello Stato con la
propria sopravvivenza.
Noi tutti credevamo di assistere, in queste settimane, allo
scontro finale tra il potere politico e il potere giudiziario,
dentro quell'aula disadorna di Milano, dove si celebra il
processo Sme che vede sul banco degli imputati Silvio Berlusconi
e Cesare Previti: uniti da un legame del passato talmente
stretto che impedisce ormai di capire chi sia il padrone
dell'altro, e ne abbia in mano la sorte finale. Quel processo si
è gonfiato a dismisura, crescendo nella simbologia e nella
sostanza, dettando i tempi della politica, determinandone le
leggi, incarnando il destino di sventura che sembra incombere
sull'avventurismo berlusconiano, anticipato ed evocato
puntualmente da quel pubblico cantastorie malizioso e informato
che è Cossiga.
Gli avvocati di Berlusconi e Previti hanno alzato il tiro
settimana dopo settimana, con eccezioni, ricusazioni, revoche,
fino alla soglia della remissione del processo per legittima
suspicione. Gli stessi avvocati, trasformati dal principale
imputato in legislatori della Repubblica, tramutavano intanto
alacremente in leggi, decreti, provvedimenti quella montagna di
ostacoli procedurali, incuranti di violare accordi
internazionali sulle rogatorie, intese tra quindici Paesi
europei sullo spazio giudiziario antiterrorismo, accordi
internazionali sul mandato di cattura europeo.
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Il
Guardasigilli annunciava una riforma urgente della giustizia in
tredici punti, di cui è sufficiente il primo, che punta ad
assoggettare definitivamente il pubblico ministero
all'esecutivo. Con tutta questa pressione impropria e il rifiuto
pervicace degli imputati di difendersi nel merito, contestando
alla radice la giustizia di Milano e la sua bilancia, quel
processo appariva già a tutti circondato, assediato, prossimo
alla resa. Quasi a unire la realtà e la metafora, in un disegno
politicamente psichedelico, il governo del grande imputato
toglieva anche la scorta ai magistrati che lo accusavano in
Tribunale: come per spingere fisicamente la loro mano ad alzare
infine bandiera bianca.
Invece era solo il primo atto. Nel momento in cui questa spinta
straordinaria sulla porta del palazzo di giustizia milanese non
produceva un risultato di rottura, è nata l'idea di utilizzare
questa massa d'urto politicamente. La formula impiegata in
questo caso è semplice: le istituzioni sono state forzate al
massimo per bloccare il processo; le norme di procedura hanno
sopportato una torsione senza precedenti per fermare i giudici;
le istituzioni sono state messe a dura prova in uno scontro tra
i poteri costituzionali che non ha limiti. Bene. Se i giudici e
il processo non cedono e non saltano, in questa torsione,
resisteranno altrettanto le istituzioni? Non potrebbe essere qui
— nel sensibile terreno istituzionale — il punto di rottura,
invece che nel terreno giudiziario, violato e consumato, e
tuttavia resistente?
La strategia d'attacco nelle ultime settimane ha dunque un
duplice obiettivo, simultaneo. L'aula del processo,
naturalmente, che va resa inagibile in permanenza, perché la
giustizia sul caso concreto non muova un passo avanti. E le
istituzioni del Paese, perché capiscano che il braccio di ferro
sul caso Sme può travolgere l'intero sistema della giustizia,
mettendo a repentaglio gli equilibri tra i poteri con una
riforma radicale ed estrema, fino a modificare i contorni dello
Stato di diritto. Nell'inaugurazione dell'anno giudiziario,
l'istituzione giustizia nel suo insieme ha rivelato — con una
protesta spontanea, civile e diffusa in tutto il Paese — di
aver ben presente la portata dello scontro, ormai infinitamente
più ampio del caso Sme, anche se da quel caso è costantemente
generato e alimentato.
A questo punto, sono pronti a scendere in campo gli Emeriti. Si
tratta di personaggi che hanno ricoperto cariche importanti in
istituzioni di garanzia del Paese (magari indicati e sostenuti
dalla parte opposta a quella che oggi servono) e che in attesa
di nuovi incarichi elargiti da chi oggi comanda si prestano a
cercare 'soluzioni', 'vie d'uscita', 'rimedi', in nome
naturalmente del buonsenso istituzionale. Non sono i nostri
ordinamenti ormai a repentaglio, per una tensione polemica
insopportabile in democrazia? Non dimostrano i singoli poteri
esecutivo e giudiziario di esorbitare dai loro ambiti? Non si è
smarrita da entrambe le parti ogni moderazione? Non si corrono
così rischi gravi per la corretta fisiologia democratica delle
istituzioni?
Ecco dunque le parole di questi giorni: 'dialogo', 'ricucitura',
'intesa'. In concreto, applicate al caso attuale, dove c'è un
processo aperto che non riesce ad andare avanti, queste parole
non significano nulla. Infatti preparano altro: il grande patto,
che proprio ieri ha preso forma nei primi incontri riservati. In
sostanza, il Polo propone alla sinistra di chiudere per sempre
il capitolo giudiziario che riguarda Berlusconi (e Previti,
naturalmente, perché i due destini non sono divisibili),
varando un vero e proprio salvacondotto, o meglio un'uscita di
sicurezza blindata e garantita. Come ha spiegato ai suoi
interlocutori ieri il vicepresidente del Csm Verde, se si
rischia di mettere a repentaglio lo Stato di diritto per
ottenere giustizia nel giudizio contro un imputato, che è anche
presidente del Consiglio, meglio rinunciare a quell'imputato e
salvare lo Stato di diritto: magari reintroducendo
l'autorizzazione a procedere per i parlamentari cancellata nel
'93 sull'onda di Tangentopoli, e rendendola per sicurezza
retroattiva, fino a bloccare i processi politici in corso: in
particolare uno.
E' lo schema che il Polo aveva costruito da tempo: attendeva
soltanto che arrivasse qualcuno da fuori, per farlo scattare con
decenza. Ma alla destra, che sa di giocare una sua partita
mortale, l'uscita di sicurezza non basta, bisogna far saltare il
portone principale, in piena e definitiva evidenza. Il grande
patto prevede infatti non la riedizione della vecchia
autorizzazione a procedere contro i parlamentari, sempre esposta
a colpi di mano nel voto dell'aula, ma il 'modello spagnolo'
evocato dall'avvocato Pecorella, con la sospensione dei termini
per l'azione penale e per la prescrizione del reato fino alla
fine del mandato parlamentare.
In cambio, ai magistrati, al Csm, al mondo dei professori di
diritto che in queste settimane ha protestato, all'Ulivo
disorientato, si propone esplicitamente il dimissionamento
anticipato e immediato del ministro Castelli, che a questo punto
avrebbe svolto bene — fino ad esaurirlo — il suo compito
tecnico di spaventapasseri. Arriverebbe un nuovo Guardasigilli
'di garanzia' (il nome è già pronto), finirebbe la polemica
sulle 'toghe rosse', l'autonomia della magistratura sarebbe
garantita, la grande riforma ritirata, i tredici punti
cancellati, il Csm preservato. Alla sinistra, il grande
tentatore della destra propone qualcosa di più: sopra il tavolo
una seconda 'costituzionalizzazione', che cancellerebbe le
polemiche berlusconiane contro i 'comunisti'. Sotto il tavolo,
il ritiro o l'aborto delle commissioni d'inchiesta Mitrokhin e
Telecom Serbia, costruite come un fucile puntato contro code di
paglia vere e presunte dell'opposizione.
Com'è evidente, si tratta di un vero e proprio patto del
diavolo, perché attraverso questa operazione la democrazia
italiana mutilerebbe se stessa, in cambio di ciò che le spetta
di diritto e che non deve riacquistare ad un prezzo
inaccettabile da chi ne ha fatto confisca: e cioè una corretta
fisiologia istituzionale, con rispetto degli ambiti, delle
regole, dei poteri. Se lo Stato di diritto viene sospeso anche
per una sola eccezione, cessa di esistere, cambia la natura del
sistema. Non si può accettare che chi deforma le regole metta
in vendita un ritorno alla normalità al valore prefissato
dell'immunità per una persona, e della perdita per la
collettività della certezza nella legge uguale per tutti.
Il diavolo italiano ha fatto la pentola che serve alla destra.
Manca, come vuole la tradizione, il coperchio. Adesso che il
patto è svelato, si vedrà se la sinistra e le istituzioni
supreme di garanzia sono capaci di non vendere l'anima della
nostra democrazia, salvando la propria.
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