<<<- |
. . . . . . . . . . . . . |
Quando immigrato «criminale» era il marchio affibbiato agli italiani di Gian Antonio Stella
Lo chiamavano «El petiso orejudo», cioè
il monello dalle orecchie a
sventola, ed era il terrore di Buenos
Aires. Figlio di immigrati scaricati
da qualche nave venuta da Genova, aveva
il nome di Gaetano Godino, comandava
una banda di bambini di strada italiani
e fu protagonista d'una catena di
omicidi così insensata e spaventosa da
spingere i giornali argentini a una
incandescente campagna di stampa contro
i nostri connazionali. Campagna dove
spiccò la citazione del professor
Cornelio Moyano Gacita, che riprendendo
Cesare Lombroso teorizzava: «La scienza
ci insegna che insieme col carattere
intraprendente, intelligente, libero,
inventivo e artistico degli italiani c
'è il residuo della sua alta criminalità
di sangue». Il senatore leghista
Antonio Vanzo, che l'altro ieri se l'è
presa con romeni e albanesi urlando
che «l'Italia è una Repubblica fondata
sul lavoro, non sulla prostituzione,
lo spaccio di droga e le rapine», del
«Petiso orejudo» forse non sa niente.
Pazienza. Certi toni volgari che
accompagnano il dibattito sulla legge per l
'immigrazione, sulla quale la destra fa
legittimamente la parte della
destra, invitano però a ricordare una
cosa da troppi rimossa: per oltre un
secolo, nel mondo, gli indesiderabili
siamo stati noi.
Non c'è invettiva, non c'è
preoccupazione sanitaria, non c'è norma
restrittiva oggi invocata che non siano
già state usate contro i nostri
nonni e zii andati a «catàr fortuna»
in giro per il pianeta. Largo agli
«stagionali» che lavorino e poi via?
E' quello che voleva la Svizzera
spezzando il cuore ai nostri bellunesi e
bergamaschi. Gli stranieri «rubano
il lavoro ai nostri ragazzi»? E' ciò
che dicevano gli operai francesi
(«Italiens: basta mangiare il nostro
pane!») che il 17 agosto 1893 ad Aigues
Mortes assaltarono i liguri, lombardi e
piemontesi che per una paga da fame
lavoravano nella saline della Camargue,
uccidendo nove poveretti e ferendone
decine.
Un massacro che, nonostante il monito
d'una canzone popolare («Acque morte
ci addita l'orrenda / ecatombe di
vittime inulte / No, jamais, sì ferale
tregenda / in Italia obliata sarà»),
è stato dimenticato. Come il quotidiano
gocciolìo di veleni xenofobi,
scrupolosamente riportati da Enzo Barnabà nel
libro «Morte agli italiani!», che lo
aveva prodotto. Basti ricordare quanto
scriveva Maurice Barrès: «Il
decremento della natalità e il processo di
esaurimento della nostra energia (...)
hanno portato all'invasione del
nostro territorio da parte di elementi
stranieri che s'adoprano per
sottometterci». Il quotidiano «Le Jour»
non aveva dubbi: il governo doveva
proteggere i francesi «da questa merce
nociva, e peraltro adulterata, che si
chiama operaio italiano».
Richard Gambino ha raccontato in «Vendetta»
una storia avvenuta dall'altra
parte dell'Oceano. Quella di un gruppo
di siciliani di New Orleans, dove la
nostra comunità, arrivata per
sostituire nei campi gli ex-schiavi neri
(portando secondo la Commissione
Federale per l'Immigrazione «a un aumento
del 40% del cotone prodotto pro-capite»)
era cresciuta in pochi anni fino a
rappresentare un decimo della
popolazione e guadagnare una posizione
fortissima nel mercato nel pesce e della
frutta.
Tutto nacque da un agguato al giovane
capo della polizia, David Hennessy,
assassinato mentre tornava a casa.
Neanche il tempo d'indagare e i colpevoli
c'erano già: gli italiani. Decine di
arresti, centinaia di perquisizioni,
pioggia di insulti su tutti i giornali a
partire da una oscena invettiva del
sindaco Shakespeare: «Il clima mite, la
facilità con la quale ci si può
assicurare il necessario per vivere e la
natura poliglotta dei suoi abitanti
hanno fatto sì che, sfortunatamente,
questa parte del Paese sia stata scelta
dai disoccupati e dagli emigrati
appartenenti alla peggiore specie di
europei: i meridionali italiani (...)
Gli individui più pigri, depravati e
indegni che esistano (...) Tranne i
polacchi non conosciamo altre persone
altrettanto indesiderabili».
Il processo, costruito su prove
inventate a tavolino, finì in un'
assoluzione. Inveleniti, i «bravi
cittadini» di New Orleans si diedero
appuntamento in 20 mila, presero
d'assalto il carcere, piombarono su undici
italiani (rimandati in galera nonostante
la sentenza!) e li fecero a pezzi.
Non uno, dei bravi assassini, fu
condannato. Non un giornale si indignò. E
quasi quasi, per aver definito il
linciaggio «un'offesa contro la legge e l'
umanità», il presidente Benjamin
Harrison rischiò di essere incriminato dal
Congresso.
Certo, erano altri tempi. La diffidenza
verso i «nostri», però, è durata per
decenni, da una parte all'altra del
mondo. Parole che in questi giorni
suonano stranamente familiari. Chi era,
secondo l'industriale laniero
Emanuele Serra, l'immigrato in Svizzera
«più rozzo nell'aspetto esteriore
come anche moralmente ed
intellettualmente»? L'italiano. Chi era, come ha
scoperto Paolo Cacciari spulciando nei
vecchi archivi della Farnesina, l'
immigrato in Germania più indifferente
(«In alcuni alloggi si nota talvolta
una depravazione orribile, poiché non
è raro che la baccana che affitta casa
come pensionato divenga l'amante e la
concubina di tutti gli operai») al
«sentimento della pulizia e della
decenza»? L'italiano. Chi, come scriveva
«The view of the New York Gentleman»,
era mille volte peggio di «uno sporco
irlandese»? «Un orribile italiano».
Emilio Franzina, curatore della
monumentale «Storia della emigrazione
italiana» edita da Donzelli, ha scritto
una montagna di libri, su questi
temi. Ricordando le tragedie di chi come
il povero Francesco Fazio nel '22,
al ritorno a New York dopo aver
combattuto per l'Italia nella Grande Guerra,
si vide respingere dagli Stati Uniti
dove già si era costruito un futuro
perché con le nuove leggi, da
analfabeta, era «fuori quota». E Ulderico
Bernardi, che ha appena pubblicato il
bellissimo «Addio patria» (edizioni
Biblioteca dell'Immagine), ha
ricostruito mille episodi di discriminazione
razziale. Dalla decisione di Alabama,
North Carolina e South Carolina di
accettare solo «cittadini bianchi Usa,
irlandesi, scozzesi, svizzeri,
francesi e ogni altro straniero di
origine sassone» alla legge che in
Luisiana non consentiva «ai bimbi
italiani di frequentare le scuole dei
bianchi» fino alla deposizione in una
commissione del Congresso di un grande
imprenditore delle ferrovie: «Lei
definirebbe di razza bianca un italiano?».
«No, sir: un italiano è un dago».
Un essere inferiore. Perfino in
Argentina, dice Eugenia Scarzanella in
«Italiani malagente», arrivarono a
accusare i nostri d'essere «avidi
accaparratori delle ricchezze nazionali»,
d'aver incrementato i reati e
contribuito a far sì che «delle
prostitute registrate nel 1875 a Buenos
Aires il 75 per cento erano nate
all'estero».
Insomma: ben vengano certe norme più
severe coi clandestini. Ma alla larga
dalla xenofobia. Dall'altra parte,
delinquenti a parte, ci sono quelli che
fino a ieri eravamo noi. E magari
scrivono alle sorelle come Bartolomeo
Vanzetti, che avendo girato per tre mesi
l'America senza trovar lavoro (da
noi oggi verrebbe subito espulso)
sognava «un tetto per ogni famiglia, un
pane per ogni bocca, una educazione per
ogni cuore».
dal Corriere della Sera, 22 febbraio
2002
_________________________________________________________________ |