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I diritti umani? Li ha scritti Mosè
«La Dichiarazione è
nata nel '500 con Francisco da Vitoria, ma era già
implicita nel Decalogo
La democrazia in Europa ha radici cristiane: basta
col modello giacobino di
separatezza tra società e credo, negli Usa per la
nazione si può anche
pregare»
«Il cattolicesimo è
fede pubblica; in 2000 anni ha creato convivenza,
solidarietà,
istituzioni...»
di Gianni Santamaria
Altro che secolarizzazione infinita e
scomparsa delle religioni. Dopo due
secoli di «privatizzazione», le grandi
fedi mondiali si ripresentano sulla
piazza pubblica. E tra esse il
cristianesimo, che per la sua natura -
derivante dall'Incarnazione - è «generatore
di civiltà».
Quale il suo rapporto con la vita
concreta dei singoli e delle nazioni,
secondo l'idea di «cristianità»? Cosa
faranno le religioni nel post-moderno?
Sono i temi intorno ai quali ruota
l'ultimo libro di Vittorio Possenti,
Religione e vita civile. Il
cristianesimo nel postmoderno (Armando, pp. 320,
18). Un libro che dialoga criticamente
con il liberalismo, sostenendo che la
sua visione incentrata solo sulla libertà
di scelta debba essere rivista. Ma
l'assunto fondamentale è la
riproposizione del «problema teologico-politico,
uno dei grandi temi dell'Occidente: il
rapporto tra Dio e Cesare», dice lo
studioso, docente di Filosofia politica
a Venezia. «Il problema è se anche a
livello di diritto pubblico alcune
intuizioni dell'umanesimo cristiano
possano trovare strada oppure no».
Professore, dunque si assiste a un
revival delle religioni...
«Sì, è un protagonismo apparentemente
nuovo. Però, se usiamo uno sguardo
sufficientemente ampio, risulta che le
grandi civiltà nascono dal grembo
delle grandi religioni. C'è una
funzione di nutrimento che esse apportano
alle civiltà. Oggi ciò può essere
interpretato, anche alla luce degli eventi
dell'11 settembre, come una conferma
delle tesi di Huntington sullo scontro
delle civiltà. Ma si può anche
analizzare il compito pubblico delle fedi
alla luce del dialogo, come è stato
possibile ad Assisi. E quindi dare modo
alle religioni di tradursi nella piazza
pubblica attraverso regole e
principi di tolleranza, dialogo e
giustizia».
Questo protagonismo da molti è
giudicato però negativo. Come influsso
indebito della religione sulla vita di
tutti i cittadini. Come la vede lei?
«Se ci soffermiamo sul cristianesimo, i
termini "religione civile" e
"religione politica" non sono
adatti. Il cristianesimo è una religione
storica, pubblica. Nel corso di duemila
anni ha creato convivenza,
solidarietà, istituzioni...».
In un recente libro lo studioso di
Oxford Larry Siedentop sottolinea proprio
come la democrazia in Europa abbia le
sue radici nel cristianesimo.
«Certo. Pensiamo alla questione dei
diritti umani, che ha avuto la prima
traduzione nell'insegnamento di
Francisco da Vitoria, intorno al 1539
nell'università di Salamanca, mentre
infuriava nella corona di Spagna il
dibattito sugli indios. E la troviamo
presente, anche se in forma implicita,
nel decalogo mosaico. Se lo si considera
attentamente vi si trova, nella
forma dell'imperativo negativo, una
sorta di Dichiarazione universale di
alcuni diritti umani fondamentali.
Evidentemente non ancora quelli politici
e civili».
Dunque è un patrimonio delle grandi
religioni?
«Indubbiamente dell'ebraismo. Forse in
maniera più filtrata e implicita in
altre. Ma quanto meno alcune regole
fondamentali come il "non uccidere" sono
presenti dappertutto».
Che cosa si intende per religione
civile?
«Il concetto viene da Machiavelli e da
Rousseau. Significa un insieme di
miti, memorie storiche, ricordi,
coerenza di vita di un popolo. Per quanto
riguarda l'America, ebraismo e
cristianesimo sono certamente presenti in
questa religione civile, ma essa non è
di per sé trascendente».
Lei nel libro critica l'idea portata
avanti da uno studioso come Gian Enrico
Rusconi, che sia laici sia cattolici
debbano agire nella sfera pubblica etsi
Deus non daretur, come se Dio non fosse.
Perché non è valida?
«È una formula che rimonta a Grozio,
ma alla quale egli dava tutt'altro
significato. Viene riproposta ogni tanto
nella cultura italiana sia per
questioni bioetiche, che per questioni
morali e civili. Che anche i credenti
debbano adeguarvisi è alquanto
paradossale. Io penso che essa abbia fatto il
suo tempo e che non sia la migliore
neppure per la cultura laica. Nelle
elaborazioni più recenti, come quella
di John Rawls, si riconosce in maniera
esplicita che le grandi religioni e
culture hanno la possibilità di
esprimere una posizione pubblica e di
argomentarla in base ai loro migliori
motivi. Quindi senza escludere Dio. Poi
a mio parere non è vero che
adottando la regola dell'etsi si possa
raggiungere più facilmente un
accordo. anche tra le culture
laicistiche diverse, spesso tra loro
contrapposte. Come quelle d'origine
morale kantiana e quelle
utilitaristiche».
Il principio viene applicato anche alle
istituzioni statali e sovrastali,
come l'Europa, nella cui carta non sono
previsti riferimenti a Dio. Un fatto
che contrasta con l'identità religiosa
e culturale del continente?
«Almeno di larga parte, sebbene con
l'avvento dell'Illuminismo e della
Rivoluzione francese ci sia stato un
punto di svolta. Credo che il fatto che
i vertici di Nizza e Laeken abbiano
cercato di mettere tra parentesi il tema
della religione in rapporto alla vita
civile sia dovuto all'idea di laicità
ancora forte in Francia. Si tratta di
vedere se in Europa stiamo andando
verso una riproposizione del modello
francese o ci stiamo avvicinando a
quello americano, molto diverso. Faccio
un esempio: è usuale che nei momenti
gravi della vita del popolo il
presidente, chiunque sia, si rivolga alla
nazione e alle molte confessioni
religiose, chiedendo loro di pregare. Ed è
accaduto che la Corte suprema abbia
dichiarato 4 o 5 volte all'incirca così:
noi siamo un popolo religioso, posto
sotto la salvaguardia di un essere
supremo. Il modello per così dire
"giacobino" secondo me sta lentamente
retrocedendo e una parte non piccola
dell'esperienza europea tende a forme
analoghe, anche se non identiche, a
quelle americane».
Veniamo all'Italia. Proprio da queste
colonne il sociologo De Rita ha
richiamato i cattolici a un nuovo
protagonismo nella società civile per
superare lo scollamento tra le
istituzioni e di esse con i cittadini.
Secondo lei come?
«I sociologi e i filosofi della
politica si riferiscono alla società civile
con diverse accezioni. Io sono
dell'opinione che essa non sia la parte buona
opposta a quella oscura chiamata spesso
"palazzo". C'è uno scambio continuo
tra essa e le istituzioni. Il Concilio
nella Gaudium et spes ha dato ai
cattolici indirizzi universali. Un punto
di svolta, perché rilancia l'idea
che il cristianesimo è religione
dell'incarnazione e quindi si occupa non
solo in cose dell'aldilà, ma anche
della civiltà e di rapporti umani
diversi. Poi entrano in campo le
istituzioni storiche: culturali, economiche
e politiche. Esse sono fatte di persone
che interagiscono tra loro secondo
regole. Il filosofo osserverebbe che un
richiamo indiscriminato a elevare le
istituzioni rischia di essere forse un
po' astratto, se non partiamo dalla
situazione concreta dei rapporti umani.
Cosa fare in questa fase? Credo che
sarebbe positivo nutrire un maggior
patriottismo costituzionale. E poi che i
cattolici siano presenti sulla scena
pubblica con una chiara identità di
ordine ideale e propositivo».
da Avvenire 6 febbraio 2002
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