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La pace come utopia

di Carlo Cassola

 

Trent'anni fa un fanatico induista uccise Gandhi. Scompariva così colui che

Einstein avrebbe definito l'uomo politico più importante del nostro tempo.

Einstein questo giudizio lo formulò a metà del secolo, due anni dopo la
morte di Gandhi. Oggi che ci siamo inoltrati un bel po' nella seconda metà
del Novecento, dobbiamo riconoscerne la giustezza. Le figure degli altri
statisti, anche dei maggiori, Lenin, Trotzkij, Wilson, Roosevelt, Churchill,
si sono appannate e hanno perso d'interesse per le nuove generazioni; la
stella di Gandhi non soltanto non è tramontata, è salita in alto e dal mezzo
del cielo abbiamo l'impressione che ci indichi la strada.

Se leggiamo le sue pagine, siamo colpiti dalla loro freschezza. Siano state
scritte anche cinquant'anni fa, non sono invecchiate. Ricordo le parole di
Carlo Levi a proposito dell'Autobiografia di Nehru, tradotta in italiano
quasi un quarto di secolo fa: "È la prima volta che un politico da
l'impressione di essere un uomo". Avrebbe anche potuto dire: è la prima
volta che un politico dimostra di essere un poeta. Gandhi si considerava
discepolo di un uomo che, oltre ad essere un grande politico, è un
grandissimo poeta, forse il massimo poeta moderno: Leone Tolstoj. Non
sorprende quindi che gli scritti politici di Gandhi non siano aridi come in
genere questo tipo di letteratura, ma al contrario, vi si rintracci uno
straordinario fervore immaginativo.

Da bambino vidi una volta Gandhi, a Roma, durante una sua visita in Italia.
La vista di quell'uomo piccolo, macilento, con gli occhiali, mi deluse
profondamente. Avevo immaginato il campione della riscossa indiana come un
novello Sandokan, col turbante, gli occhi lampeggianti e la barba a due
punte.

Io ero un bambino e quindi potevo essere giustificato dall'età; ma i grandi
che si comportano come bambini non sono giustificati da niente. Il loro
infantilismo li porta a disprezzare Gandhi con la sua dottrina della "forza
della verità" e della "nonviolenza". Essi pensano che le buone cause possono
farsi largo solo a colpi di arma da fuoco. È l'infantilismo generale che ha
impedito al sogno di Gandhi di diventare realtà: anche nella sua stessa
patria.

Egli non sognava solo l'indipendenza indiana. Questo per lui sarebbe stato
solo il punto di partenza, la condizione necessaria perché potessero
trionfare altre cose. La nascita della nazione indiana avrebbe dovuto essere
qualcosa di assolutamente diverso dalla nascita delle altre nazioni. Egli
fece in tempo ad essere crudelmente deluso: vide le città e i villaggi
insanguinati dalla lotta insensata tra indù e musulmani. Si adoprò per far
cessare quelle stragi e, come indù, considerò colpevole soprattutto la
propria parte. Questo gli procurò l'odio dei fanatici: uno dei quali mise
fine ai suoi giorni.

Se fosse vissuto, Gandhi ne avrebbe viste di peggio. Avrebbe visto l'india
ripercorrere la strada degli Stati sovrani armati ed entrare in guerra col
Pakistan e con la Cina per futili rivalità di confine.

La guerra tra India e Pakistan fu particolarmente turpe. Dopo pochi giorni i
due contendenti erano esausti: avevano gettato nella fornace tutto quanto
possedevano in fatto di armamento e di equipaggiamento militare: carri
armati, artiglierie, aerei da combattimento. Che dovevano essere costati un
occhio della testa a Paesi afflitti da gravissimi problemi sociali come la
fame e l'analfabetismo!

Gandhi, dunque è uno sconfitto come Trotzkj, come Wilson, come lo stesso
Lenin. Gli è riuscito sì far conquistare l'indipendenza al suo Paese, dopo
una lotta quasi trentennale contro gl'inglesi, ma non era quello il suo
scopo principale. La stessa vittoria contro i colonialisti non è una
dimostrazione della bontà del metodo nonviolento, ma si presta a un'amara
considerazione. Gandhi poté aver ragione degli Inglesi usando l'arma della
disobbedienza civile perché aveva davanti un avversario ragionevole. Ma se
avesse avuto davanti un avversario irragionevole come i nazisti?

Sappiamo bene che i fascisti disprezzavano chi non si opponeva loro con la
violenza. Essi erano subito pronti a scambiare l'ostruzionismo nonviolento
con la debolezza.

Per cui fu giusto combatterli con le loro stesse armi. Ma io vedo una
parentela, non un'opposizione tra i due tipi di lotta. Un medesimo idealismo
accomuna i membri della resistenza (violenta) al nazismo in Europa e i
membri della resistenza nonviolenta agl'inglesi in India.

È l'idealismo che dobbiamo difendere, tutti insieme, contro i miopi cultori
della Realpolitik. La differenza tra loro e noi è una differenza di fondo;
quella tra violenti e nonviolenti no. In che consiste questa differenza di
fondo? Nel fatto che loro i sedicenti realisti, credono che la politica
debba adeguarsi alla realtà dominante; mentre per un idealista la politica
dev'essere lo strumento che permette a una realtà emergente di diventare
dominante. "L'utopia di oggi è la realtà di domani" diceva Victor Hugo. Ciò
che oggi può sembrare utopistico, domani può diventare realtà. E lasciare
con un palmo di naso i fautori della Realpolitik.

Qual è l'utopia che oggi aspira a venire alla luce? Quella della pace
perpetua. Per raggiungere quest'obiettivo, bisogna cominciare col
distruggere gli armamenti. Giacchè (è ancora Victor Hugo a insegnarcelo) "le
guerre hanno tutte pretesti varii, ma hanno sempre la stessa causa:
l'esistenza delle forze armate. Togliete di mezzo le forze armate, e
toglierete di mezzo la guerra".

Semplice, no? Ma proprio per questo, difficilissimo a fare. Perché? Perché
si scontra con l'ostilità degl'indottrinati, in quanto distruggerebbe le
complicazioni delle quali vivono. "Il comunismo è la cosa semplice che è
difficile fare". Lo diceva Brecht. La stessa cosa può dirsi di tutte le cose
importanti: la poesia è la cosa semplice che è difficile fare, la politica è
la cosa semplice che è difficile fare. "Il disarmo unilaterale dell'Italia è
l'uovo di Colombo" mi diceva un amico. Già: le proposte serie, essendo
semplici, fanno sempre quest'impressione.

Che cosa proponeva Gandhi? Il satyagratha, cioè la forza della verità e
l'ahimsa, tradotta magistralmente da Aldo Capitini con la parola
nonviolenza. Quella particella non può far credere che si tratti di un
semplice momento negativo. Allo stesso modo che la particella anti, al tempo
del fascismo, poteva far pensare a un'opposizione non costruttiva. Ma come
costruire qualcosa se prima non si distruggeva il fascismo?

Non dimentichiamo, per carità, che la forza di rinnovamento, vale a dire la
sinistra, ha prima di tutto il compito di distruggere il vecchio: spesso
anzi il suo compito è solo quello. Non facciamoci fermare, per carità, dal
problema di ciò che verrà dopo. È un falso problema: dopo, verrà per forza
qualcosa: distrutto il vecchio, ne prenderà inevitabilmente il posto il
nuovo. L'antico regime apparve improvvisamente un insieme di mostruosità ai
francesi, che lo avevano sopportato per secoli: tra il 1789 e il 1790, la
Costituente lo distrusse. E che lo si dovesse distruggere, è ormai ammesso
da tutti.

Gandhi fu l'erede spirituale di Tolstoj. Chi furono a loro volta i suoi
eredi? Secondo me, soprattutto Einstein e Russell, che nel 1955
dichiararono: "O l'umanità distruggerà gli armamenti, o gli armamenti
distruggeranno l'umanità".

Il dilemma davanti a cui si trova oggi il mondo non poteva essere enunciato
con maggior efficacia. Così l'aspirazione alla pace di Gandhi trova il suo
specifico strumento di lotta: l'antimilitarismo.

Questa lotta deve risultare vincente a ogni costo, altrimenti il mondo salta
in aria. Per cui ai nonviolenti, che sono gli eredi diretti di Gandhi ma che
costituiscono solo gruppi sparuti, devono affiancarsi le masse, che non
hanno rinunciato all'idea della violenza ma detestano il piccolo cabotaggio
imposto dal sedicente realismo politico.


Dal Corriere della Sera del 28 gennaio 1978.

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