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SIMPATIA IN DECLINO

 

di Valerio Dalle Grave

 

Mi ricordo quando, in qualità di segretario responsabile della CISL di Sondrio, al colmo dell’indignazione, redassi un manifesto pubblico dal titolo sanzionatorio: “uccidono la pace”.

Quel manifesto  condannava il gravissimo fatto di Sangue compiuto dai falangisti Libanesi con il beneplacito dell’esercito Israeliano, a danno dei profughi Palestinesi rinchiusi  nei campi di Sabra e Schatila. 

Le vittime di quel massacro, avvenuto a metà settembre 1982, furono all’incirca 2000.

Vale la pena ricordare che  quel drammatico fatto avvenne nel corso dell’invasione del sud del Libano con l’operazione “pace in Galilea” ordinata e diretta personalmente dall’allora ministro della difesa Israeliano generale Ariel Sharon.

Oggi, a distanza di venti anni, la situazione conflittuale tra Israeliani e Palestinesi si è ulteriormente complicata e aggravata e le vittime, specie civili e bambini in particolare, ormai non si contano più. A nulla sono valsi i vari tentativi (forse troppo timidi o forse impraticabili) da parte Americana, Europea e da alcuni paesi Arabi moderati, per trovare un’intesa tra i due popoli che portasse la pace in quel tormentato lembo di terra.

Il primo ministro Rabin (socialdemocratico) che, sembrava avesse imboccato la via giusta per una onorevole soluzione, cadde vittima di un attentato, per mano di un fondamentalista ebraico di destra, il 4 novembre 1995.

Da allora i fatti sono precipitati con una convulsione continua. Dopo la morte di Rabin, le successive elezioni politiche portarono al potere  le destre e, tranne un breve ritorno della sinistra moderata col primo ministro Barak (artefice di una gestione disastrosa), le destre hanno dominato la scena politica fino alla elezione  dell’ultranazionalista capo del Likud (partito dell’estrema destra) generale Ariel Sharon.

Appunto, un militare.

Un uomo   che  ha sviluppato tutta la sua carriera nei ranghi dell’esercito; che non conosce altro che la rigida disciplina militare; che, da quanto è dato sapere, non conosce (o forse  disdegna) l’arte della mediazione e del dialogo.

Quest’uomo, sorretto da una solida maggioranza, col suo governo sta ingigantendo il conflitto con i Palestinesi; con costi umani esorbitanti; ma, quel che è peggio, sta scatenando qualcosa di più grave e preoccupante non solo nel suo paese ma in tutto lo scacchiere mediorientale e anche in  Europa.

Con  il protrarsi e l’acuirsi del conflitto; con il sistematico rifiuto del dialogo, il continuo mostrare i muscoli anziché accettare le offerte di mediazione avanzate da più parti; con il non rispetto delle varie risoluzioni dell’ONU, il governo Israeliano sta mettendo a rischio la diffusa simpatia (che dura ormai da circa 60 anni) verso il popolo ebraico, suscitata in tutte le democrazie Europee e non solo, quale segno di solidarietà  per le sofferenze che ha dovuto patire con  l’olocausto.

E’ cronaca di questi giorni le manifestazioni di protesta attuate in tutta Europa contro le ambasciate Israeliane e contro le sinagoghe. E’ un pericoloso segnale, che può sottendere il riaccendersi dell’antisemitismo di antica e trista memoria.

Qualche bene informato dice che  quest’ultimo anno è stato ed è, per i tormentati rapporti tra israeliani e palestinesi, uno dei più difficili dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza  nel 1967. IL processo di pace, fondato sugli accordi di Oslo (1993) è fallito ed è scoppiata un’altra intifada (rivolta), questa volta armata.

Già, perché la precedente (intifada) era caratterizzata solo dal lancio di sassi e “bottiglie molotov”.

Lo abbiamo visto più volte in televisione: lancio di sassi (palestinesi) contro carri armati, elicotteri  e mitragliatrici (israeliani). Una guerra impari, quella di allora come quella che stanno combattendo ora (cannonate e missili contro fucili e kamikaze). Ma il punto non è questo (a parte chiedersi perché ragazzi e ragazze sono disposti al suicidio piuttosto che vivere segregati, emarginati  e umiliati nella terra dove sono nati e dove sono nati i loro genitori e antenati).

IL punto sta nella irresponsabile latitanza delle grandi potenze (America, Russia ed Europa) di voler porre fine ad un problema  da loro creato all’indomani della fine della seconda guerra mondiale: Essi votarono all’unisono una risoluzione all’ONU (1947) che nessuno di loro si impegnò a far rispettare. L’America per partito preso a favore degli ebrei; la Russia (Unione Sovietica) perché gli tornava comodo liberarsi degli ebrei che aveva ancora in casa; l’Europa perché divisa e in preda ancora allo shock psicologico determinato dall’olocausto.

 Gli ebrei sono in guerra contro i palestinesi dal 1948, e più segnatamente dopo la guerra dei sei giorni (del giugno 1967) quando, in spregio al piano di suddivisione operato dall’ONU  nel 1947, gli israeliani si appropriarono con la forza  (con il tacito consenso degli USA e con il silenzio degli altri partners),  dei territori destinati alla creazione di uno stato arabo - palestinese (Cisgiordania, Gaza). Quindi, siccome qualcuno osserva che in quelle vicende tutti hanno ragione e tutti hanno torto, bisogna avere il coraggio di affermare che ciò non è del tutto vero: qualcuno ha più torto e qualcun altro ha più ragione.

I palestinesi hanno il sacrosanto diritto di avere un territorio da erigere a propria nazione, così come lo stesso diritto  hanno anche gli israeliani.

Coloro che sono gli artefici maggiori delle risoluzioni dell’ONU, oggi hanno il dovere morale, prima ancora che politico e civile, di intervenire per aiutare quei due popoli a trovare una soluzione dignitosa per entrambi e, a maggior ragione devono intervenire con urgenza per impedire che il conflitto degeneri e inneschi pericolose reazioni dagli sbocchi imprevedibili e incontrollabili.

 


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