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Il
rapporto tra due paure
di Gianfranco Bettin
Caro Gad, non ho alcun titolo per rispondere alle domande
impegnative e cruciali che poni, se non il fatto che le rivolgi anche a me per
aprire una discussione che riguarda tutti. Oltre, naturalmente, a una vecchia
amicizia e stima. Mi viene da chiederti: credi davvero che noi non sentiamo la
paura e l'insicurezza che segnano Israele e i suoi cittadini? O che la
scopriamo, magari, solo adesso, con gli attentati suicidi? O addirittura che
neanche adesso ce ne rendiamo conto? In questi giorni non eravamo soltanto a
Ramallah o a Betlemme. Siamo stati, a lungo, anche a Gerusalemme, nelle sue
strade e piazze, nei bar, nei luoghi di ritrovo in cui la gente oggi ha davvero
paura. Molti di noi erano vicinissimi al luogo in cui è avvenuto l'ultimo
attentato suicida in città. Potevano restare coinvolti, come gli altri
innocenti che la follia o la disperazione dei kamikaze, e il cinismo di chi li
utilizza, ha colpito. Ieri sera, dopo aver partecipato in collegamento da
Gerusalemme proprio alla trasmissione tua e di Ferrara, con Mauro Bulgarelli e
con Beppe Caccia ho girato per le vie della città, deserte e silenziose, mentre
avrebbero dovuto essere festose e vivaci per la conclusione della Pasqua. Si
sentiva, la paura. Qualche ora prima, camminando a braccia alzate per Ramallah,
sentivo invece la mia e nostra paura dei cecchini e dei tank, e quella assai
meno fugace dei palestinesi che, riparati in casa, ci davano frettolose
indicazioni sulla strada da seguire. Non ti risponderò contrapponendo questa
paura a quell'altra, bensì alludendo al rapporto tra di esse e alla necessità
di spezzarlo e di restituire, per così dire, ogni paura alla sua ragione
originaria. Che, io credo, è il rischio di scoprire che due popoli non sono
capaci di convivere (e in questa loro vicenda si può forse leggere un più
generale limite di tutta la molteplice umanità che abita il mondo). Il
terrorismo, micidiale e sconvolgente, e l'occupazione militare con la sua
specifica violenza, producono paure ulteriori, deformanti, che allontanano dal
cuore nevralgico della questione. Non ci si chiede se si è capaci di accettare
l'altro, che il destino e la storia ti hanno messo vicino, ma se l'altro ti
ucciderà, o ti scaccerà, o ti negherà i diritti più elementari. E' così che
il conflitto diventa guerra, ossessione. E' così che ogni sconfitta o passo
falso o rottura di negoziato, diventa disperazione per alcuni e insofferenza per
altri. E' così che si guarda solo ai lutti e alle umiliazioni e non si fa
nessun passo avanti.
In questi giorni all'ospedale di Ramallah abbiamo conosciuto molti feriti,
soprattutto giovani e ragazzi, colpiti dall'esercito israeliano. C'era un
ragazzo, assai mite, del tutto contrario a ogni violenza, ferito a una gamba da
un cecchino mentre cercava di soccorrere un amico colpito allo stomaco (e poi
morto dissanguato sulla strada). Lui non lo farebbe, ha detto, ma rende onore a
chi si sacrifica per la patria. Me lo diceva, rispondendo alle nostre critiche
all'elogio dei kamikaze che avevamo sentito diverse volte in giro, sotto una
foto enorme incorniciata nell'atrio, quella famosa che ritrae il bambino che
tira una pietra a un carro armato. Un bambino di Ramallah, di cui tutti vanno
fieri - ucciso poche settimane dopo quella foto. Il culto dei martiri, il senso
che viene attribuito alla loro scelta, lo si capisce benissimo stando qui.
Naturalmente, lo si avverte come sideralmente lontano da ogni accettabile etica,
un frutto velenoso della disperazione più che un atto di fede per quanto
estremo. Ma è del tutto evidente che fronteggiarlo come sta facendo Sharon non
porterà a niente, se non al rafforzamento delle ragioni che gli aspiranti
martiri ritengono di avere e, contemporaneamente, a una crescente ripulsa che può
fornire pretesti a vignette ignobili come quella di Forattini o ad azioni infami
come gli attacchi alle sinagoghe. Tutte cose che finiscono, a loro volta, per
accentuare l'insicurezza e il senso di accerchiamento e, dunque, per fare, una
volta di più, il gioco dei terroristi, soprattutto dei "cervelli" che
li ispirano, ma anche il gioco di chi, in Israele, punta sulla legge delle armi.
Si dà il caso che il massimo esponente di questa linea in Israele sia oggi a
capo del governo e abbia anche il pieno appoggio del Presidente degli Stati
Uniti e, dunque, nello sconcerto e nell'impotenza della comunità
internazionale, agisca impunito e col massimo di potere secondo uno schema che,
di fronte a ogni punto di crisi (determinato da stallo nei negoziati o da
attacchi suicidi), prevede un innalzamento della risposta militare, fino alla
brutalità dell'operazione in corso (brutale comunque, ma che si rende più
efferata a causa di una lunga serie di episodi di vera e propria barbarie:
alcuni accaduti sotto i nostri occhi). Come dici tu, caro Gad, "sgombriamo
il campo dalle ovvietà", e tra queste c'è l'irriducibile avversione
nostra al terrorismo, di ogni tipo, di ogni colore e da qualunque fede o
sentimento motivato. Se serve ribadirlo e farne oggetto di una vera e forte
battaglia anche morale e culturale oltre che politica, ripetiamolo con forza e
chiediamolo a tutti.
Che fare, però, dopo questa condanna? Che fare adesso, a Betlemme, a Ramallah,
a Gerusalemme? Direi, a quanto capisco: fermare l'operazione in corso, liberare
Arafat e la popolazione dal sequestro, finirla con l'intollerabile pretesa di
Sharon di negare l'ingresso o l'incontro con Arafat a chi vuole, esponenti dell'Ue,
dell'Onu, Patriarca di Gerusalemme, pacifisti, deputati compresi, far giungere
in Palestina una forza di interposizione, riaprire il confronto a partire dal
piano di pace saudita e dall'idea - ecco tornare il problema originario - che
due popoli possono avere due stati e convivere sulla stessa terra. E costringere
i contendenti a un patto d'acciaio: per nessun motivo interromperanno i
negoziati, per nessun motivo useranno il terrorismo o la violenza e la
prepotenza dell'esercito, per nessun motivo si faranno condizionare da chi, da
una parte o dall'altra vuole solo sabotare ogni tentativo di accordo. Se si
chiede più chiarezza - un'altra volta - ad Arafat contro i kamikaze, si deve
chiedere al governo di Israele di dimostrare anche di fronte al terrorismo la
freddezza che dimostra nel manovrare la sua macchina di guerra. Separando, così,
il conflitto e il negoziato intorno al problema di fondo da quello che può
diventare un comune impegno contro le degenerazioni terroristiche e ogni tipo di
fondamentalismo, un impegno che restituendo spazio alla politica e alla società,
guardando al futuro e alla convivenza, pazientemente può superare le diffidenze
e le paure antiche e nuove, e ridare spazio alla fiducia. Anche alla fiducia fra
noi, qui.
Tratto
da "Il Manifesto" 5 aprile 2002
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