«Così
perdonai chi sparò a mio padre»
Laura,
giornalista ebrea americana, è diventata amica della famiglia
dell’attentatore
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NEW YORK - Quando infine lei bussò alla sua porta, Omar
Khatib non c’era: il terrorista che 12 anni prima aveva
sparato a suo padre nel mercato di Gerusalemme era rinchiuso
in un carcere israeliano, con una lunga condanna da scontare
proprio per quell’attentato. Le aprì la madre di Omar,
una vecchia palestinese in vestaglia rosa, che l’accolse
sorridendo: «Entra, ragazza, vuoi una soda fredda?». Laura
non disse il suo cognome da ebrea, Blumenfeld, e si presentò
solo come una reporter del Washington Post ,
venuta dall’America fin laggiù, a Kalandia, nei sobborghi
disperati di Ramallah, per un’inchiesta. Per un anno, un
anno intero di visite, di tè bevuti in salotto, di giochi e
piccole intimità quotidiane con i bambini dei Khatib, Laura
tenne per sé il suo segreto, conquistò la fiducia della
famiglia, ne fu a sua volta conquistata. Era venuta a
cercare vendetta per suo padre David, che, salvo per
miracolo, portava ancora sulla fronte la cicatrice lasciata
dalla pallottola di Omar.
Trovò la speranza. In quell’anno lei e i Khatib si
conobbero «come esseri umani». Si svelarono a vicenda la
menzogna di ogni guerra, secondo cui non c’è mai «niente
di personale». «Tutto è personale, invece», dice Laura.
In quell’anno, attraverso la madre e i fratelli, scrisse
molte volte a Omar in carcere, sempre come una «semplice
cronista americana». E alla fine, una mattina di tre anni
fa, si ritrovò in un’aula di tribunale, davanti ai
giudici israeliani che dovevano decidere se scarcerare Omar
per motivi di salute. Si alzò, chiedendone la liberazione:
«Noi l’abbiamo perdonato, anche voi potete farlo. Sono la
figlia di David Blumenfeld», disse a voce alta, con un
colpo di scena da romanzo.
Fu allora che i Khatib seppero chi era davvero. Fu allora
che, dalla gabbia di imputato, Omar chiese scusa a lei e a
papà David, piangendo. Fu allora che lei, Laura, ebbe la
sua vendetta. Solo che la vendetta aveva cambiato colore e
sapore: «Se guardi una persona da vicino, ti può apparire
molto diversa da come credevi», dice. Omar è ancora in
galera, ma ha ripudiato la violenza. Le ha scritto: «Mi hai
fatto sentire stupido per ciò che ho fatto». E ha scritto
a David: «Tua figlia è lo specchio che mi ha fatto vedere
il tuo volto di uomo che va ammirato e rispettato. Mi spiace
di non aver capito il suo messaggio fin dall’inizio. Sei
fortunato ad avere una figlia come lei». David, un
professore ebreo che ha sempre cercato il dialogo tra la sua
gente e i palestinesi, tiene quella lettera nel posto
d’onore della biblioteca, a New York.
Anche Laura vive a New York. Adesso è una bella donna con i
lunghi boccoli castani e gli occhi luminosi. Tra un mese lei
e suo marito Baruch avranno il primo figlio. Pur continuando
a lavorare per il Washington Post , dalla sua
esperienza ha tratto un libro, uscito da poco per Simon
& Schuster : «Vendetta, una storia di speranza». E
in questo ossimoro ha nascosto il messaggio della sua vita,
che ora, nei giorni dei kamikaze e delle rappresaglie,
rimbalza attraverso tutte le tv americane, assieme al viso
forte di lei. Alla Cnn ha spiegato: «Non volevo che
i Khatib sapessero all’inizio chi ero, Laura la figlia
della vittima, Laura l’ebrea. Volevo che mi conoscessero
per ciò che ero, un essere umano».
L’idea dell’identità umana ridotta da un attentato a «obiettivo
militare» la perseguitava da quel giorno di marzo ’86.
Suo padre era in visita alla Città Vecchia di Gerusalemme,
cercando materiale per un nuovo museo dell’Olocausto a New
York, quando Omar gli sparò. Omar era un miliziano della
banda di Abu Musa. Laura, allora, era una studentessa di
Harvard. Scrisse una poesia al corso di letteratura inglese,
«questa mano ti troverà/ io sono sua figlia», e la dedicò
al sicario che le aveva colpito il padre. Un uomo ancora
senza volto, per lei. Per dodici anni è stata accompagnata
dal bisogno di conoscere quel volto. Dall’idea di una
vendetta speciale: sbattere in faccia a quel terrorista
l’umanità di papà David. Nel ’98 è andata a Ramallah,
nell’enclave di Arafat. Da cronista ha spulciato gli
elenchi della polizia, ha bussato a decine di porte della
banda di Abu Musa, cercando la porta giusta. Alla fine
l’ha trovata. Quel primo giorno a casa dei Kathib, le
fecero vedere il ritratto di Omar appeso al muro.
L’icona di un eroe. «Ha sparato a qualcuno», le disse la
madre, fiera. «A chi?», chiese lei. «A un tizio ebreo»,
risposero i nipotini di Omar e, ridacchiando complici, le
descrissero l’attentato a «quell’ebreo», suo padre. In
corridoio cinguettavano i canarini, un cagnetto
s’arrampicava sul divano, l’orrore s’era fatto
normalità quotidiana. Lei bevve la sua soda cercando di
controllare i battiti del cuore. Un mese fa è tornata nella
casa di Kalandia assieme al padre. «Questo è quel tizio
ebreo - ha detto ai Khatib - Queste sono le persone che
volevano vederti morto», ha detto al padre. David ha fumato
la pipa e bevuto il tè assieme ai fratelli di Omar. Laura
dice che «non sarà la soluzione, ma è un inizio». E sa
sorridere di nuovo.
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