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L'arma
della paura
Francesca Polito
Nella lettera di Gad Lerner a il manifesto ci sono
dei punti che, in quanto ebrea mi hanno turbato. Gad Lerner parla del «fare i
conti con la nostra paura, la paura di quell'arma nuova, il corpo umano». Il
riconoscimento della paura israeliana degli attentati suicidi credo sia non solo
auspicabile ma reale, ma credo che di per sé non debba necessariamente
implicare una richiesta di legittimazione della risposta finora attuata
dal governo israeliano a questi attentati: si tratta di cose ben diverse.
Ma mi ha colpito la possibilità di usare espressioni come «corpo umano
trasformato in arma esplosiva» senza voler essere scossi, attraverso la propria
capacità di riconoscimento, dall'immagine totale di distruzione: quella intorno
al corpo e quella del corpo che si è fatto arma. Ed è chiaro che anche questa
eventuale empatia sarebbe cosa ben diversa dalla legittimazione o dalla
martirizzazione degli attentatori suicidi, che visti solo come arma sono - è
davvero il caso di sottolinearlo? - condannabili.
Un'accusa sommaria
D'altra parte viene da pensare che sia proprio la paura, o peggio una sua
qualche strumentalizzazione, a permettere di ipotizzare, come fa Lerner, che
quest'«arma nuova» ribalti «in impotenza la superiorità militare israeliana»,
e possa rendere «verosimile... la distruzione dello Stato ebraico nel giro dei
prossimi quindici-vent'anni». Senza questa paura, o questa strumentalizzazione
sembrerebbe altrimenti realistico ipotizzare che un terrorismo possa vincere, e
che per di più questa «vittoria» possa coincidere con la distruzione di uno
Stato?
E mi paiono in ogni caso gravi le affermazioni che assolutizzando portano il
germe della discriminazione (e degli `anti'), come quella che dice: «i
palestinesi ormai assumono il terrorismo suicida come la strategia vincente».
Stiamo attenti, perché il meccanismo con cui si dà dei «terroristi» a un
intero popolo, ai palestinesi, è lo stesso con cui si può accusare di
qualsiasi altra cosa gli ebrei o gli israeliani, o chiunque altro.
Mi pare che poi, seguendo il ragionamento di Lerner, fare oggetto di dialogo
politico e di confronto le colpe, le responsabilità e i limiti di Anp e della
parte palestinese, e quelle del governo e della parte israeliana, non porti
molto lontano su un piano concreto.
Quello che mi pare non solo più utile ma estremamente urgente è capire quali
azioni siano davvero efficaci per proteggere la popolazione civile israeliana
(ma dovrebbe essere interesse di uno stato civile anche la protezione di quella
palestinese), e capirlo con la testa, immaginando soluzioni a l ungo termine,
non con la rabbia, la paura o criteri da superpotenza. E con la testa nel pieno
delle sue facoltà razionali non può non sembrare ovvio che le misure
repressive, insieme col perdurare dell'occupazione dei territori, sono il
miglior terreno di coltura perché si riproducano e si replichino gli atti di
terrorismo suicida e non - e da ambo le parti, istituzionalizzate o meno e in
una catena tristemente infinita, in egual modo esecrabile.
Qual è il pericolo vero
Per quanto riguarda gli ebrei romani che attaccano la sede di Rifondazione non
meritano solo un tentativo di comprensione, o peggio un'implicita
giustificazione di cosa veramente li muova -se la paura, la strumentalizzazione
o la testa - non meritano una sospensione, un appannamento del giudizio su quali
siano le azioni giuste e più efficaci per una convivenza pacifica e civile fra
chi è di diverse religioni o idee o etnie. Continuando con questa sospensione
del giudizio e questo appannamento, e questa grave mancanza di una presa di
posizione critica nei confronti del governo israeliano da parte degli ebrei
della diaspora davvero si potrà dire che molta parte del popolo ebraico (della
diaspora e non) sarà in grave pericolo: nell'esistenza spirituale,
intellettuale, culturale, umana oltre che in quella fisica.
Le colpe di Sharon
E' comprensibile che parole come «genocidio» e «sterminio» facciano male
agli ebrei ma bisognerebbe prendersela con la classe dirigente israeliana che
agisce in modo tale da renderle adatte al contesto e calzanti, dati, cifre e
situazioni oggettive sono sotto i nostri occhio. Ma mai diemnticare che quello
del preoccuparsi delle parole al posto che dei fatti è un lusso che qualcun
altro non può permettersi in questo momento e sia da parte palestinese che da
parte israeliana. Per finire mi chiedo, parlando, come Lerner, di sterminii,
atrocità, stupri, terrorismi e guerre: è proprio necessario - ma soprattutto
possibile e accettabile eticamente - fare distinzioni fra chi e come le subisce
o le ha subite?
Il problema è davvero quello di essere capiti nella propria sofferenza e nel
proprio terrore o è quello di capirli noi stessi, di riuscire a non
farcene scudo o oblio per il presente? In altre parole, avremmo gli stessi
problemi a condannare la politica di uno Stato come quella dell'attuale Israele
se non si trattasse di uno Stato pensato per ebrei?
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Tratto da "Il Manifesto" 6 aprile 2002
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