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PELLEROSSA
Macché selvaggi, erano gentlemen
Cresce
la corrente revisionista d’Oltreoceano che rivaluta la cultura
indigena rispetto a quella colonizzatrice: era più ecologica e in
molti campi più avanzata
Ennio Caretto
- WASHINGTON - «Forse fu anche una storia d’amore. Ma il
matrimonio di Pocahontas con l’ufficiale inglese John Smith fu
innanzitutto una unione politica. Pocahontas era una principessa,
e con le sue nozze il padre volle garantire i buoni rapporti tra i
pellerossa e l’Inghilterra. Le nazioni indiane d’America erano
più sofisticate di quanto noi crediamo». Così diceva tempo fa
Daniel Ritcher parlando del suo libro, Facing east from indian
county ( Guardare a est dalle nuove In die ), dedicato
ai protagonisti della storia coloniale del XVII secolo, tra cui
l’eroina del cartone animato di Walt Disney. Lo storico
revisionista godeva della sorpresa del suo pubblico: «Nel 1492»
insisteva «quando Cristoforo Colombo scoprì l’America, le
comunità pellerossa erano assai più numerose e prospere di un
secolo fa. Oltre due o tre milioni di persone vivevano tra
l’Atlantico e il Mississippi, meno della metà del nostro Paese,
in villaggi e città collegati tra di loro. Formavano una civiltà
agricola pacifica, rispettosa dei diritti umani, che sperò di
commerciare con l’Europa». Ritcher fa parte di un gruppo di
studiosi - presto diverrà la maggioranza - che ha riscritto la
storia del nuovo mondo. La loro tesi, clamorosamente esposta da un
collega, James Wilson, in Earth will weep ( La terra
piangerà ), è che nel 1492 «l’emisfero occidentale era in
media più ricco e più abitato dell’Europa». Su quanti
abitanti avessero l’America del sud e del nord non c’è
accordo: secondo la stima più controversa, quella di Henry Dobyns,
c’erano fino a 90 milioni di persone. Gli indiani negli odierni
Stati Uniti e Canada sarebbero stati 18 milioni.
Ma i numeri non hanno molta importanza, proclama Elizabeth Fenn,
l’autrice di Pox americana (Pox, vaiolo, non Pax, pace),
l’ultimo bestseller sul calvario dei pellerossa Usa. «Essi
stavano sicuramente meglio delle masse diseredate inglesi o
francesi» prosegue. «Erano più sani e più puliti. Non avevano
subito le devastazioni della peste, che in Europa tra il 1347 e il
1351 aveva ucciso fino a 25 milioni di persone. E, a differenza
che in Sud America, avevano combattuto meno guerre, e praticato più
democrazia».
La rivista «Atlantic» ha interpellato i sette massimi
antropologi, archeologi e storici delle nazioni pellerossa.
All’unanimità hanno risposto che, con l’eccezione delle
classi alte, nel 1492 «era meglio essere indiano che europeo»:
la qualità della vita era superiore - non la durata,
all’incirca la stessa - e l’ambiente, le abitazioni di legno
(il nomadismo venne dopo), non i bassifondi cittadini, era più
propizio.
Gli storici revisionisti si rifanno alle testimonianze dei primi
coloni. Missionari francesi riferirono che gli uroni stimavano gli
europei meno intelligenti di loro, e un gesuita raccontò che il
fazzoletto per pulirsi il naso li disgustava: «Non capiscono
perché non lo buttiamo via una volta usato». Gli irochesi
trovarono i nuovi venuti deboli, brutti, sessualmente promiscui, e
inaffidabili. La civiltà sudamericana era ancora più avanzata:
nel 1519, quando Hernán Cortés entrò a Tenochtitlan, la
capitale degli atzechi, sottolinea Elizabeth Fenn, «scoprì una
città più grande e più ordinata di Madrid e di Parigi, senza
sporcizie nelle strade, con splendidi giardini botanici e campi
rigogliosi».
Il giudizio degli esperti di «Atlantic» poggia sulle ultime
scoperte della civiltà agricola dei pellerossa. Privi di cavalli
e restii all’allevamento di animali domestici, non sfruttarono
l’invenzione della ruota. Ma sgombrarono vastissime estensioni
di terreno ed eliminarono sterpaglie e cespugli nelle foreste con
il fuoco, per permettere ad alci, cervi e bisonti di
moltiplicarsi, e per produrre granoturco, patate, pomodori e altri
generi sconosciuti in Europa. E costruirono dighe e canali per
l’irrigazione e laghi artificiali per la pesca. «Crearono un
sistema ecologico e plasmarono un paesaggio che andarono perduti a
causa nostra» evidenzia Fenn. «Metà degli alimentari che oggi
nutrono il mondo derivano da loro». Centri urbani sorsero un
po’ ovunque. A Cahokia, nell’Illinois meridionale, nel 1810 un
esploratore si imbatté in una costruzione sepolta dalla terra
della dimensione della Grande piramide di Giza in Egitto,
circondata da un centinaio di altre costruzioni minori. In quattro
anni di peregrinazioni dalla Florida al Texas, dal 1539 al 1543,
Hernando de Soto visitò cinquanta cittadine.
Gli storici revisionisti ammettono che il mito del buon selvaggio
e le atrocità della colonizzazione spagnola a sud e americana a
nord possono colorare la loro tesi. I pellerossa, ricordano,
avevano il cotone ma non l’acciaio, non sapevano che cosa fosse
la servitù ma praticavano una medicina rudimentale. E a sud, il
regime degli Inca nelle Ande con i suoi sacrifici umani «era
terrorismo di Stato», come commenta Francis Jennings. Ma le
ricerche degli storici negli Usa, svolte su documenti originali
del XVI e XVII secolo, non lasciano dubbi: in genere esistevano più
giustizia e meno squilibri sociali ed economici in America che in
Europa.
«Purtroppo» nota Elizabeth Fenn, che ha intitolato il suo libro Pox
ameri cana per un gioco di parole, «la loro cultura fu
distrutta e la loro popolazione decimata prima dalle malattie
portate da noi europei, la pox, il vaiolo innanzitutto, poi dalla
conquista del west, la pax».
La Fenn adduce l’esempio di De Soto: «Nella regione da lui
visitata vivevano 200 mila persone. Un secolo più tardi, quando
la visitò la Salle, ce n’erano solo 8.500». I registri delle
morti e delle nascite dei primi missionari e coloni sono la
documentazione più preziosa. Le prime erano infinitamente
superiori alle seconde: stando a Elizabeth Fenn, in 130 anni, tra
Cristoforo Colombo e i pellegrini della Plymouth, gli indiani e
gli indios, invece di crescere, diminuirono almeno del 90 per
cento, una strage assai più grave di quella della peste in Europa
due o tre secoli prima. Non a caso, alle fine del Settecento,
quando George Washington, il futuro primo presidente degli Stati
Uniti, che aveva combattuto contro i pellerossa, dovette
affrontare gli inglesi, fece vaccinare tutto il suo esercito
contro il vaiolo.
Tratto da "Il
Corriere della sera" 8 aprile 2002
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