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Il
punto di vista
Sandro Portelli
Dopo la strage dell'11 settembre, abbiamo fatto
due operazioni distinte. Da una parte, abbiamo ricordato che esisteva
una connessione fra quell'evento e la storia, e il ruolo che in essa
avevano giocato gli Stati Uniti. Dall'altra parte, abbiamo avuto la
capacità di separare questi ragionamenti dal dolore e dalla
solidarietà nei confronti delle vittime. Non si è trattato solo di
condannare, cosa facile, l'atto terroristico degli assassini; si è
trattato di ricordarsi che comunque eravamo di fronte a quasi tremila
persone uccise, una per una, e a migliaia di famiglie, di amici, di
vicini di casa colpiti dal dolore. Se, un mese dopo, abbiamo
condannato le stragi che venivano compiute in nome di queste vittime e
di questo dolore dal governo del loro paese, questo non ci ha impedito
di ricordare i morti e di avere pena per loro e con i loro cari.
Questa cosa sembra che non si riesca a fare con Israele. Non si riesce
a tenere insieme da un lato la necessaria e dura condanna
dell'occupazione e della repressione israeliana nei confronti dei
palestinesi, e dall'altro la sensibilità di riconoscere il punto di
vista delle vittime israeliane degli attentati suicidi palestinesi e
lo stato d'animo della società colpita attraverso loro.
Fra le molte, complesse cause di questa insensibilità, sta forse
anche la dinamica degli avvenimenti. Fra l'11 settembre e la
rappresaglia americana è trascorso un mese, e in quel mese abbiamo
potuto orientare i sentimenti verso le vittime, abbiamo avuto il tempo
di sperare che non ce ne fossero altre. Qui invece la sequenza
temporale è diversa. C'erano vittime palestinesi prima che
cominciassero gli attentati suicidi; e fra la strage terroristica che
colpisce i cittadini di Israele e la rappresaglia ancora più
terribile non passa neanche il tempo di organizzare le emozioni.
Veniamo a sapere
della rappresaglia israeliana più o meno nello stesso momento in cui
veniamo a sapere dell'attentato palestinese. Ma il fatto terribile che
muoiono mille persone in Palestina non ci può cancellare che è
terribile anche che ne muoiano duecento in Israele. Ogni altro
calcolo, che azzeri le une in nome delle altre, è un calcolo
sbagliato. Ogni essere umano ucciso è un infinito. Quello che ho in
mente è qualcosa di diverso dalla condanna degli attentati suicidi.
La condanna è troppo facile per non essere anche rituale (comunque,
siccome anche i riti hanno una necessità, lo ripeto: sono atti
criminali che colpiscono innocenti e che provocano la morte di altri
innocenti). Dobbiamo piuttosto spostare il punto di vista, guardare a
quello che succede anche da dentro Israele ferito spaventato oltre che
da dentro la massacrata Palestina.
Così come capire perché avvengono gli attentati suicidi non
significa giustificarli, allo stesso modo non c'è bisogno di
giustificare l'occupazione, la repressione, la rappresagli israeliana
(che orrenda parola, «rappresaglia» - in Italia, a Roma, in certe
parti di Roma, dovrebbe farci orrore solo a sentirla pronunciare!) per
cercare di capire qual è il trauma che la alimenta. Direi il
contrario: riconoscere le dinamiche che portano all'inaccettabile
comportamento dell'esercito e dello stato di Israele è assolutamente
necessario per cercare di porvi fine. Se non si parte da una qualche
misura di condivisione del dolore e della paura, non si può pensare
che un discorso di pace abbia ascolto nella maggioranza di una società
troppo traumatizzata e sperare che essa ritrovi in sé non tanto la
ragione, quanto la speranza visionaria che pure sta alle sue origini.
Ci sarebbe voluto un grande atto di egemonia visionaria affinché gli
Stati Uniti facessero scelte diverse dalla rappresaglia; non ne sono
stati capaci, sarebbe stato eccessivo pretenderlo. Ma solo con un atto
di analoga, visionaria generosità da parte di Israele potrà cambiare
qualche cosa in Medio Oriente. Il terrorismo non è una cosa che si
possa estirpare con un colpo solo, con una campagna militare, con un
bombardamento. E' una strategia organizzata, ma è anche un
comportamento diffuso fatto di gesti individuali; individui disperati,
estremisti insoddisfatti di qualunque soluzione di pace (che non potrà
essere che un compromesso) ce ne saranno ancora a lungo. Tanto più
se, come è vero, una parte di loro non sarebbe soddisfatta altro che
dalla scomparsa dello stato di Israele, e quindi non sarà soddisfatta
mai perché Israele non scomparirà. Allora, solo se Israele trovasse
dentro di sé la capacità di non accettare ogni crimine terrorista
come ragione per una nuova moltiplicata rappresaglia che genera altri
terroristi, se avrà la forza di non lasciare che sia Hamas a fare la
sua politica e saprà sopportare altre ferite recuperando la sua
saggezza e il suo equilibrio, solo se sarà rassicurato delle sue
paure profonde (anche di quelle irragionevoli, che non sono meno
autentiche), il mondo potrà sperare in una scomparsa graduale, con
colpi di coda, ma progressiva, del terrorismo in quelle regioni. Solo
se Israele ritroverà il senso del limite che le permetta di accettare
i suoi confini e riconoscere su un piano di pari dignità e diritti
altre entità al di fuori di sé senza che costituiscano una minaccia,
se anche i palestinesi potranno provare a costruirsi vite dignitose
con sempre meno spazio per le tentazioni della disperazione e del
martirio, allora ambedue potranno darsi rappresentanze diverse e
scambiarsi parole di ragionevolezza e convivenza.
Non mi interessa qui dire quali siano le responsabilità che gravano
su Israele (e sui palestinesi) per quanto sta succedendo. Dico che
soprattutto con Israele sta la speranza che possa finire, perché
Israele ha le risorse culturali, la storia, il tessuto civile per
farlo. Perciò è ad Israele che dobbiamo parlare, e per farlo
dobbiamo assumerne le ferite. Prendere atto dello stato d'animo di chi
vive oggi in Israele, o di chi con esso si identifica, non lasciarlo
solo, non significa pensare che sia giusto o condividerlo; significa
però prestare ascolto. Così come abbiamo assunto il dolore per gli
uccisi dell'11 settembre senza giustificare altre uccisioni in loro
nome, allo stesso modo il fatto che in nome delle vittime di Israele
oggi si uccide non ci deve impedire di pensare a loro, e di pensarle
come vittime di atti insopportabili. Ne va dell'umanità loro, di chi
li ha uccisi, e della nostra.
Tratto da "Il Manifesto" 9 aprile 2002
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