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«Il
rifiuto della convivenza è arabo e palestinese»
«Dietro la guerra c’è
il no alla spartizione con gli ebrei»
Piero Ostellino
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Per l’articolo
di fondo di giovedì 4 aprile («Il velo di sangue delle ideologie») e «Il
dubbio» di sabato 6, («Quei "pacifisti" poco pacifici») ho
ricevuto circa seicento email, di gran lunga più di quante non ne abbia mai
ricevute per un articolo, il 90 per cento di consenso, il restante 10 di
civile dissenso o di insulti. Il motivo conduttore di questi ultimi si è
concretato nella seguente domanda: che cosa farei io se mi trovassi nei panni
dei palestinesi. Rispondo così: se ne sapessi quanto ne sanno loro delle
condizioni storiche e politiche che hanno portato alla nascita di Israele e
alla loro permanenza nei campi profughi mi comporterei probabilmente come
loro; se ne sapessi di più, allora, ragionerei e mi comporterei in modo del
tutto opposto. Lo dico per cercare di spiegare il loro estremismo, non per
assolverlo, come ad esempio fanno Andreotti e Dini; per ricordare, cioè, una
volta per tutte che essi non sono vittime di Israele, ma dei loro dirigenti e
dei Paesi arabi; per denunciare quanto sia inqualificabile, moralmente,
culturalmente e politicamente, il comportamento di chi marcia «per la pace»,
innalzando le bandiere dell’antisemitismo. Primo: chi, da noi, giustifica
l’estremismo palestinese ricordando che migliaia di palestinesi hanno
abbandonato le proprie terre a seguito della nascita di Israele sembra non
capire che con ciò delegittima Israele, finisce col rappresentare la sua
nascita come un sopruso e con avvalorare, infine, la tesi che Israele dovrebbe
essere distrutto per consentire ai profughi palestinesi di tornare da dove
sono partiti. Se lo capisce, se ne assuma tutte le responsabilità morali e
politiche. Chi, a sua volta, sostiene il diritto di Israele alla propria
esistenza e continua contemporaneamente a considerare la diaspora palestinese
un’ingiustizia, non sembra capire che la sua è una contraddizione logica,
politica e storica che allarma Israele e contribuisce solo a alimentare il
pericoloso e improponibile revanscismo palestinese. Se lo capisce, la smetta
di dare un colpo al cerchio e l’altro alla botte.
Forse, vale la pena di ricordare che le statistiche demografiche del 1880
dicono che a Gerusalemme la maggioranza della popolazione era ebraica; che già
fra il 1882 e il 1914 erano arrivati in Palestina oltre 60 mila ebrei dalla
sola Russia per sfuggire alle persecuzioni zariste e che nella Seconda guerra
mondiale gli ebrei di Palestina avevano costituito una brigata, a fianco degli
inglesi, per combattere il nazismo, mentre gli arabi erano dalla parte di
Hitler. Forse, vale la pena di ricordare che Israele è il solo Paese al mondo
cui sia stato chiesto di ritirarsi da territori conquistati a seguito di una
guerra. Mi piacerebbe sapere perché, accettata come buona la tesi che
l’Unione Sovietica non si è ritirata dai territori (di mezza Europa)
conquistati dall’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale per ragioni di
sicurezza, non si riconoscano a Israele, che ha subito tutta una serie di
guerre di aggressione, le stesse ragioni. In buona sostanza, i palestinesi,
che non hanno mai avuto un loro Stato, sono in qualche modo equiparabili alle
popolazioni della Prussia orientale (Pomerania), ora «occupata» dalla
Polonia cui nessuno chiede di restituirla. Le popolazioni della Pomerania,
peraltro, a differenza dei palestinesi, abitavano in uno Stato riconosciuto
internazionalmente, mentre i palestinesi sono passati da un possesso ottomano
a un mandato coloniale britannico e da una occupazione (giordana) a un’altra
(israeliana).
Forse, a proposito dell’esodo palestinese, vale la pena di ricordare alcune
affermazioni di fonti non sospette. «Venne il 15 maggio (...) quello stesso
giorno il muftì di Gerusalemme fece appello agli arabi di Palestina affinché
abbandonassero il Paese, in quanto gli eserciti arabi stavano per entrare al
loro posto» ( Akhbar El-Yom , il Cairo, 12 ottobre 1963). «Se
esistono questi profughi è conseguenza diretta dell’azione degli Stati
arabi contro la spartizione e contro lo Stato ebraico» (Emile Ghorizi,
segretario del Supremo comitato arabo al Beiruth Telegraph del 6
settembre 1948). «Ogni sforzo è compiuto dagli ebrei per convincere la
popolazione araba a rimanere e a condurre insieme a loro una vita normale»
(da un rapporto della polizia britannica del 26 aprile 1948). Ciò non
esclude, naturalmente, che ci siano stati episodi di violenza, peraltro
condannati dai dirigenti israeliani, che hanno provveduto inoltre a
smantellare tutte le organizzazioni armate ebraiche clandestine o che Israele
non si debba ritirare dai territori occupati nel 1967 per ragioni di
opportunità politica e persino morale: facilitare una soluzione pacifica del
conflitto e non ostacolare la nascita di uno Stato palestinese.
Secondo: che a volere la distruzione di Israele come premessa del ritorno sui
territori dai quali sono partiti siano i palestinesi della diaspora, peraltro
ormai pochi dopo oltre cinquant’anni, è emotivamente comprensibile, anche
se moralmente e politicamente inaccettabile. Che a volere la distruzione di
Israele lo siano le migliaia di giovani nati e cresciuti nei territori dove
sarebbe dovuto nascere lo Stato palestinese è meno comprensibile e ancor meno
accettabile. Le loro convinzioni non sono la conseguenza della percezione di
un sopruso subito, come è per i palestinesi della diaspora, ma
dell’indottrinamento cui sono stati sottoposti dalla propaganda araba e dei
propri dirigenti, entrambi responsabili di averli tenuti nei campi di «raccolta»
(sempre meno, generazionalmente, «campi profughi»), invece che costruire lo
Stato palestinese dopo la risoluzione dell’Onu che sanzionava la spartizione
della Palestina.
Forse, vale la pena ricordare che i kamikaze, prima di andare a farsi saltare
in aria, recitano in video che gli ebrei sono «figli di maiali e di scimmie».
Dice la cantante israeliana Noa: «Mi chiedo se, similmente alla società
israeliana, anche tra i palestinesi esista una corrente di pensiero che abbia
il coraggio e la volontà di esprimere liberamente opinioni che non siano
quelle del fondamentalismo religioso e dell’odio». E’ inutile aggiungere
che, quella di Noa, è una domanda retorica che ha una sola risposta: no.
Terzo: la politica è l’arte del possibile. La spartizione della Palestina
voluta dall’Onu con la risoluzione 181 del 1947 come preludio alla creazione
di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano era il «possibile»
che tendeva a conciliare l’aspirazione degli ebrei a un proprio focolare e
il diritto dei palestinesi ad averne uno proprio. Gli Stati arabi, con la
prima guerra a Israele, nel 1948, hanno inseguito l’«impossibile»
perseguendone la distruzione per ragioni «imperialistiche» loro proprie che
spiegano la mancata nascita dello Stato palestinese: l’annessione della
Cisgiordania da parte della Giordania e della striscia di Gaza da parte
dell’Egitto, cioè la confisca del territorio sul quale lo Stato palestinese
sarebbe dovuto nascere. Il «settembre nero» giordano, 1970, nel corso del
quale l’esercito di re Hussein fece strage di palestinesi e del quale, da
noi, ci si dimentica volentieri, è stato l’episodio più clamoroso, ma non
il solo, del conflitto latente fra interessi arabi e interessi palestinesi.
Quarto: sulla scia del panarabismo degli Stati arabi, anche la dirigenza
palestinese ha inseguito l’«impossibile», respingendo le proposte di pace
israeliane, o non dando loro, di fatto, attuazione dopo averle discusse. Dai
«tre no» di Arafat a Karthoum, dopo la guerra del 1967, quando Israele offrì
il ritiro dai territori occupati in cambio della pace, agli accordi di Oslo,
1993, fino ai giorni nostri. Così, l’occupazione israeliana dei territori
sui quali sarebbe dovuto nascere lo Stato palestinese è diventata l’alibi
sia dei Paesi arabi sia di Arafat per giustificare i propri errori davanti al
popolo palestinese e il laboratorio all’interno del quale è nato e si è
sviluppato il terrorismo.
Forse, vale la pena di ricordare che fra la stretta di mano di Rabin e Arafat
del 13 settembre 1993 alla presenza di Clinton e l’assassinio di Rabin (4
novembre 1995), c’è stata tutta una serie di attentati. Dopo di che la
destra è scesa in piazza al grido di «Rabin traditore» e un estremista
israeliano lo ha ucciso. Forse, vale la pena di ricordare che, nel solo mese
di marzo di quest’anno, sono rimaste uccise dai kamikaze 150 persone e
ferite mille; in proporzione alla popolazione ebraica di Israele (4,5
milioni), come se in Italia (57 milioni) i morti fossero stati 1900 e i feriti
oltre 12.600. Dopo di che è pur vero che a eleggere Ariel Sharon sono stati
gli israeliani, ma sarebbe difficile non aggiungere che a volerlo alla testa
delle truppe di Israele che sono a Ramallah e a Betlemme ci siano stato anche
Arafat, Hamas e la Jihad.
Quinto: l’occupazione dei territori con la guerra del 1967 è diventata per
Israele, dopo aver dovuto affrontare una serie di guerre di aggressione che ne
hanno messo in pericolo l’esistenza, una opzione militare e una carta
negoziale. Il che spiega i suoi rifiuti di ottemperare alle ripetute
risoluzioni dell’Onu che le impongono il ritiro. Quel che è peggio, il
ripetuto rifiuto arabo-palestinese di pervenire concretamente a una
conciliazione fra i «due diritti», quello di Israele alla propria esistenza
e alla propria sicurezza, quello dei palestinesi a un proprio Stato, e
l’acuirsi del terrorismo, inducono ora la maggioranza degli israeliani a
temere che uno Stato palestinese ai propri confini rappresenterebbe un
pericolo costante per il proprio Paese. Il che spiega l’opposizione della
destra oltranzista israeliana alla nascita stessa di uno Stato palestinese e
le difficoltà che incontrano laburisti e moderati in Israele a continuare a
sostenere la formula «territori in cambio di pace e sicurezza».
Sesto: è in questo contesto storico e politico che si è sviluppata la
politica degli insediamenti (nei territori occupati) ed è nata l’ipotesi
del «grande Israele». Personalmente, considero sbagliata la politica degli
insediamenti, perché alimenta il revanscismo palestinese, rende più
problematica la restituzione dei territori e più difficile una soluzione di
pace; ritengo, inoltre, illusoria e utopistica l’ipotesi del «grande
Israele». Illusoria, perché contraria alla risoluzione 181 dell’Onu sulla
spartizione e perché introduce pericolosamente un fattore di ordine religioso
nelle già difficili relazioni con i palestinesi. Utopistica, perché postula
la possibilità di una pacifica convivenza con la popolazione palestinese
(maggioritaria) che si era rivelata già difficile negli anni precedenti la
nascita di Israele. Per le stesse, ma simmetriche, ragioni, è illusoria e
utopistica la richiesta di Arafat di un rientro in Israele dei profughi
palestinesi che ne avevano abbandonato il territorio all’atto della sua
nascita. Illusoria e utopistica perché postula lo snaturamento della logica
politica della spartizione e lo snaturamento della logica demografica di
Israele (che rischierebbe di non essere più uno Stato a maggioranza ebraica).
Gli inconfutabili fatti qui esposti, e le considerazioni che ne derivano, sono
altrettante tessere di quel complesso mosaico che è il conflitto
israelo-palestinese. Essi potrebbero essere integrati, se non addirittura
smentiti, da altri fatti e da altre considerazioni ugualmente inconfutabili,
perché il mosaico mediorientale è costituito da un numero infinito di
tessere, non di rado in contraddizione fra loro. Senza che l’intero mosaico
ne risulti sostanzialmente modificato. E il mosaico dice che Israele è
percepito dal mondo circostante come un corpo estraneo, per ragioni politiche
(è il solo Paese democratico dell’area), strategiche (è l’avanguardia
dell’Occidente), religiose (l’antisemitismo islamico). Il «rifiuto»
della convivenza non è israeliano, ma arabo e palestinese. Questa è la sola
verità, fra tante possibili verità parziali.
Tratto da
"Il Corriere della sera" 8 aprile 2002
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