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«L’identità nazionale palestinese è nata dagli errori di Onu e Israele»



Sergio Romano

 
L’articolo con cui Piero Ostellino ha appassionatamente ricostruito la storia dei rapporti arabo-israeliani e della diaspora palestinese mi ha ricordato una curiosa pagina di storia ebraica. Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, voleva dare agli ebrei una terra ma non credeva alla teoria del ritorno e non era convinto che questa terra dovesse essere necessariamente la Palestina. Se sua maestà britannica gli avesse fatto dono dell’Uganda, su cui sventolava da poco tempo la «Union Jack», Herzl se ne sarebbe accontentato e avrebbe guidato il suo popolo, come un novello Mosè, verso una terra africana. Ma nel congresso sionista in cui la soluzione ugandese fu dibattuta, il precursore dello Stato ebraico constatò che la maggioranza dei partecipanti non intendeva rinunciare alla Palestina e non era disposta a prendere in considerazione altre prospettive. Herzl si adattò alla loro volontà e si consolò pensando che la Palestina presentava, per il fine che egli si era proposto, uno straordinario vantaggio: era spopolata e quindi particolarmente adatta ad accogliere l’immigrazione ebraica. La frase favorita con cui Herzl presentava ai suoi interlocutori i progetti del movimento sionista divenne da quel momento «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Il leader sionista, paradossalmente, aveva allo stesso tempo torto e ragione. Aveva torto perché la Palestina, agli albori del suo movimento, era abitata da contadini, pastori, mercanti e artigiani arabi, prevalentemente musulmani. E aveva ragione perché quel popolo non era una nazione e non aveva alcuna coscienza della propria particolare identità. Quando chiamiamo palestinesi coloro che abitarono nella regione fino alla nascita dello Stato ebraico, li «battezziamo» con un nome europeo tratto dagli annali della storia romana e da quelli dell’impero britannico. Non è del tutto esatto quindi dire che 800 mila «palestinesi» furono cacciati dalle loro case durante la prima guerra arabo-israeliana. Erano «indigeni» che avevano lungamente occupato una provincia dell’impero ottomano ed erano divenuti, dopo la grande guerra, sudditi protetti dell’impero britannico. È davvero così sorprendente che ai Paesi della regione, nel ’48, la spartizione decisa dall’Onu e la contemporanea creazione di due Stati «palestinesi» - uno ebreo, l’altro arabo - sembrassero una intollerabile invasione di campo? Proviamo a metterci nei loro panni. Terminata la guerra avevano salutato con entusiasmo la fine dei grandi imperi coloniali. L’Italia sconfitta aveva perduto la Libia. La Francia semisconfitta aveva dovuto rinunciare al Libano e alla Siria. La Gran Bretagna vincitrice aveva concesso l’indipendenza all’India (la regina madre, morta qualche giorno fa, ne fu l’ultima imperatrice) e si preparava ad andarsene dalla Palestina. «Il mondo arabo agli arabi» era ormai diventato il motto del giorno.
Ma ecco che, all’alba di questo mondo nuovo, la maggiore organizzazione internazionale decide di dare una patria agli ebrei e di permetterne la nascita in una regione storicamente araba. Non è tutto. Per risolvere il problema degli «indigeni» le Nazioni Unite decisero di costituire, accanto allo Stato ebraico, uno Stato arabo. Ai Paesi arabi della regione questa spartizione sembrò una doppia ingiustizia. Creava uno Stato europeo là dove l’Europa aveva promesso di andarsene e collocava al suo fianco, in una sorta di confederazione, uno Stato arabo costituito da un popolo che non aveva identità nazionale. Fu spiegato che gli ebrei avevano subito terribili persecuzioni e che il mondo aveva contratto con loro un debito. Ma gli arabi non riuscivano a capire perché questo debito dovesse venire pagato da loro anziché dai persecutori. Perché l’Onu non aveva assegnato agli ebrei una provincia europea? Perché non aveva permesso, ad esempio, che essi facessero ritorno in quel grande «regno degli ebrei» che si era costituito dopo il medioevo fra Polonia, Bielorussia, Ucraina e Lituania? Gli arabi entrarono in guerra quindi per due ragioni: volevano impedire la nascita di uno Stato europeo nella regione e spartirsi la zona su cui l’Onu aveva costituito, con una specie di editto imperiale, due nuove entità statali. Sulla fuga degli indigeni dai territori in cui si combatteva esiste, come Ostellino sa, una vasta letteratura storica. Molti, è vero, furono incitati ad andarsene dai leader arabi. Ma alcuni storici israeliani «revisionisti» hanno dimostrato recentemente che molti altri furono spinti ad andarsene dalle truppe israeliane. Confesso che la «pulizia etnica» mi sembra il più comprensibile dei peccati commessi da Israele negli ultimi 50 anni. Aggredito dai suoi vicini e deciso a meglio garantire la propria sicurezza, Ben Gurion approfittò della guerra per consolidare l’omogeneità nazional-religiosa dello Stato che egli aveva appena creato. La politica e la guerra obbediscono a regole che non è possibile pesare e valutare con i criteri del buon cuore e dei nobili sentimenti. Gli arabi avevano il diritto di contestare le decisioni dell’Onu e gli ebrei avevano il diritto di difendere la loro patria. Se avessero vinto, gli arabi avrebbero cancellato Israele dalla carta geografica e si sarebbero spartita la vecchia provincia ottomana. Vincendo, Israele «ripulì» il territorio e ne corresse le frontiere a proprio vantaggio.
Comincia da quel momento, tuttavia, la catena degli errori e delle tragedie. I Paesi arabi avrebbero dovuto accogliere i profughi nelle loro terre e aiutarli a rifarsi una vita? Forse. Ma finché ebbero la speranza di rovesciare il risultato del ’49, li vollero nei campi per tenere aperta la questione e sottoporre il mondo a una sorta di ricatto umanitario. Se Ostellino e io provassimo a compilare assieme una lista degli errori e delle sciocchezze commessi da leader arabi nei primi 30 anni della storia dello Stato di Israele, riempiremmo parecchie pagine di questo giornale.
L’errore di Israele, soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni (’67) e la presa di Gerusalemme, fu di non capire che anche gli «indigeni», nel frattempo, erano diventati un popolo. Cacciati dalle loro case avevano perduto la terra, ma acquistato una patria. Questa patria è il «campo profughi» dove i palestinesi di due generazioni sono nati, sono andati a scuola, hanno giocato a pallone, si sono sposati. In questi piccoli pezzi di terra disseminati nella regione, si è formata una micidiale miscela di indignazione, rabbia, nostalgia, violenza; e questa miscela, piaccia o no, si chiama «identità nazionale». Non ha molta importanza, a questo punto, attribuire agli uni o agli altri la colpa di ciò che è accaduto. Esiste un fatto nuovo a cui è impossibile voltare le spalle: le guerre arabo-israeliane hanno generato un nuovo popolo.
Anziché prenderne atto e adattarsi a questa nuova realtà, gli israeliani hanno praticato una politica pericolosamente incoerente. Alcuni governi (quelli di Rabin, Peres e Barak) hanno capito che occorreva accettare la prospettiva di uno Stato palestinese. Altri (da ultimo quelli di Netanyahu e Sharon) hanno continuato a considerare i palestinesi come gli occasionali abitanti di un territorio che era stato ottomano e sarebbe divenuto israeliano. Gli uni e gli altri, tuttavia, hanno permesso ad alcune migliaia di esponenti del fondamentalismo ebraico di installarsi, per meglio aspettare il messia, in terre abitate dai palestinesi e destinate a diventare, prima o dopo, parte del loro Stato. Fra l’inizio degli anni ’90 e l’inizio dell’ultima Intifada, il numero di questi coloni è raddoppiato: erano 110 mila e sono oggi circa 200 mila. È incomprensibile che qualcuno, fra gli arabi, avesse qualche dubbio sulle reali intenzioni degli israeliani? Questa storia non è diversa da quella raccontata da Ostellino. Abbiamo gli stessi ricordi, abbiamo visto gli stessi avvenimenti, abbiamo letto gli stessi libri e giungiamo probabilmente alle stesse conclusioni. Cambia tuttavia quel gioco di luci e ombre che dipende in ultima analisi dallo sguardo e dalla personale sensibilità dello storico.

 

Tratto da "Il Corriere della sera" 10 aprile 2002

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