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Una
terra, due diritti, due stati
Letizia
Paolozzi
«Dato che non esisteva un territorio in cui
"evacuare" gli ebrei, l'unica soluzione era lo sterminio» (Hannah
Arendt ne La banalità del male). Credo nell'unicità della
Shoah. Sessanta anni fa, quello sterminio, orrore, catastrofe (in
ebraico, appunto, Shoah). Lì sono le mie radici simboliche che,
tuttavia, sono anche nella basilica della Natività di Betlemme. Ora,
chi può avvicinare le figure disseccati, i crani rasati, le mani
aggrappate al filo spinato alle immagini del campo profughi di Jenin?Vicinanza
insensata. Non fosse altro per il conteggio delle vittime. L'entità
di quella catastrofe non si misura però solo in ragione del numero
dei morti. Da allora, continuiamo a interrogarci: come «fu possibile»
che il legame con l'altro si annullasse; che il «vivere-insieme»
fosse cancellato; che si perdesse ogni sentimento di umanità. Non è
così oggi nel conflitto in Medio Oriente. Di questo conflitto
possiamo (nel dibattito storico, nelle prese di posizione politiche)
darci delle spiegazioni. Nell'antica terra di Palestina, due
legittimità, due diritti non trovano soluzione perché si presentano
uno come negazione dell'altro. Lì un popolo si batte sulla sua terra.
Qualsiasi cosa succeda, da quella terra non andrà via. Lì un popolo
è arrivato spinto dalla millenaria speranza del ritorno a Sion e
dall'urgenza di sopravvivere dopo aver subito il più grande massacro
della storia moderna. Si guardano, i due popoli, attraverso lo
specchio rovesciato dell'odio: provocato dall'umiliazione; suscitato
dalla paura. Odio descritto dai media. Al di là delle «deformazioni»,
questo ha la sua importanza. Bisognò aspettare quando si aprirono le
porte di Dachau, di Auschwitz, di Mauthausen, per sapere. Per guardare
l'insostenibile.
L'Europa aveva solennemente promesso «mai più». Un Nobel, José
Saramago (peraltro grandissimo scrittore), se ne viene fuori con il
paragone tra campi di rifugiati palestinesi e Auschwitz. Compaiono,
alla manifestazione per la Palestina di qualche giorno fa, cartelli:
«Stato d'Israele, Stato terrorista» (con le esse del nazismo). E' il
segno che quella promessa è stata disattesa? Se proviamo piacere
nelle distinzioni (che pure non sono inutili), mi sembra più
irresponsabile la frase del Nobel. Ci sono, infatti, generazioni che
nulla sanno della Shoah. Come si fa a chiedergli di tener conto del
passato, senza congelarlo in qualche rituale commemorativo? Come si fa
a evitare quel giudizio binario: vittime da una parte, carnefici
dall'altra? E per le sinagoghe bruciate in Francia, per le
profanazioni dei cimiteri, diremo che i francesi sono tutti antisemiti
o che quei gesti sono il segno di un legame sociale allentato, di una
violenza pronta ad esplodere? Pronta a esplodere tra i giovani, non
solo beurs. Non solo arabi. A Parigi, nella manifestazione in
sostegno di Israele, è stato pestato un giornalista spagnolo,
accoltellato un poliziotto. Certo, la lingua si imbarbarisce. Quasi si
aggrappasse agli orrori del passato. Vigilare non è mai «un lusso»
(come invece scrive Francesca Polito su questo giornale). Le parole
non possono annullare quella che fu l'esperienza del male assoluto.
Può essere che qualcosa, nel «dovere della memoria» di cui parlava
Primo Levi, non abbia funzionato? Un rimorso troppo ripetuto, una
volontà di spartizione della sofferenza impossibile. Vittime ci
furono, allora, quasi sessanta anni fa, anche tra gli omosessuali, gli
zingari, i vecchi, gli handicappati. Il segno della memoria è, anche,
il vuoto terribile, silenzioso intorno al quale l'architetto Libeskind
ha costruito a Berlino il monumento alla Shoah. Gad Lerner scrive che
oggi «Israele è in pericolo di vita». Il corpetto di esplosivo e
biglie di ferro degli uomini (e donne)-bomba - «martiri» pronti a
martirizzare - diffonde quel timore: tornare a essere l'uomo
dell'Esodo. Non si è mai vaccinati contro il male. Ma dal 14 maggio
del 1948 c'è lo Stato d'Israele cresciuto tra aggressioni,
contrattacchi, guerre. In senso classico, guerre per il possesso dei
territori. Occupati, colonizzati, «insediati», ora «ripuliti» in
nome della sicurezza di questo Stato. E' probabilmente vero che agli
occhi di molti fossero più rassicuranti gli ebrei vittime, gli ebrei
sofferenti.
Sharon fa la guerra per battere il terrorismo e le sue infrastrutture
del terrorismo. Così afferma. Il punto è se dal terrorismo ci si
difende, se il terrorismo si estirpa con la guerra. Una parte del
popolo israeliano (una minoranza certo) non ci crede. Una parte delle
comunità non ci crede.
Non «lasciare solo» Israele, ha scritto Valentino Parlato. Tutto
quello che divide (le manifestazioni di una sola parte; l'ipotesi
ventilata nell'Unione europea, di tagliare le relazioni con Israele),
mi sembra dannoso. Ricorda troppo la scena del Medio Oriente. Rimanda,
anche in modo grottesco (come misurare le diottrie del «pacifismo
strabico») a una guerra di religione. Invece di colmare il solco, lo
si approfondisce. Lasciando solo il popolo israeliano. E quello
palestinese, che viene schiacciato dagli attentati dei kamikaze ma
anche oltraggiato da una visione insopportabile di chi non gli
riconosce diritto a esistere. Io voglio ascoltare chi lavora per la
riconciliazione: Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche;
l'appello di intellettuali arabi uscito su Le Monde (10
aprile). E la capacità mediatrice di quelle israeliane che sono
andate ai posti di blocco per convincere i militari a essere più
umani con i palestinesi. Il dialogo «delle madri» suggerito da Nurit
Peled che pure ha perso la figlia nell'attentato-suicida di un
palestinese. O il quotidiano raccontato nel suo diario minimalista
dalla scrittrice Manuela Dviri (sul Corriere della Sera). Sono
donne coraggiose, alla ricerca di una lingua per convivere.
Tratto da "Il Manifesto" 12 aprile 2002
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