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Milano, 19-6-01
Speciale Medjugorje 25 giugno '81 - 25 giugno '01 VENTESIMO ANNIVERSARIO DI MEDJUGORJE di Stefano Biavaschi Quel giorno in cui il poliziotto comunista mi gettò il passaporto in faccia. Gli studi degli scienziati e le posizioni della Chiesa. Medjugorje verso il terzo millennio. Sono ormai alcuni anni che non scrivo su Medjugorje. Ma l'importanza della ricorrenza mi spinge a celebrare anch'io, nel mio piccolo, e assieme a tante altre voci, quest'anniversario di un fatto che ha attraversato come un mistero la storia della Chiesa degli ultimi vent'anni. La prima volta che mi recai a Medjugorje fu nell'83, a soli due anni dall'inizio delle apparizioni. A quel tempo la Jugoslavia era ancora intera, uno dei tanti Stati che prima della caduta del muro di Berlino ruotava nell'orbita del regime sovietico. Godeva di una certa autonomia, ma Medjugorje stava già facendo parlare di sé, e questo era poco gradito alla polizia comunista che non vedeva di buon occhio assembramenti religiosi, tanto da organizzare posti di blocco tutt'intorno al piccolo paese bosniaco. La radio di regime non faceva che lanciare appelli per dissuadere la popolazione a recarsi al luogo delle apparizioni (appelli che ottenevano solo di attirare ancor più le folle) e i giornali di partito pubblicavano vignette con una Madonna che appariva con un coltello tra i denti, simile a un guerriero Ustascia: un chiaro invito a odiarla come un nemico. Erano gli anni in cui i sei ragazzini delle apparizioni venivano continuamente vessati dalle autorità, interrogati, sequestrati, minacciati. Come tutti sanno furono un giorno anche condotti in carcere, isolati in celle diverse per impedire l'apparizione quotidiana (che ugualmente avvenne), fino a giungere alla segregazione del più piccolo (Jacov, allora solo dodicenne) in una stanza obitorio del posto di polizia, ove venne rinchiuso per un'intera notte e lasciato gridare, al buio, tra i cadaveri, affinché ritrattasse il suo racconto. Erano anche gli anni in cui gli stessi frati francescani di Medjugorje venivano (per la loro accoglienza verso i ragazzi) perseguitati dalle autorità, perquisiti, derubati, incarcerati. All'inizio i frati non avevano creduto alle apparizioni, ma dopo che i fatti li convinsero a sposare quella causa, resistettero ad ogni tempesta con la fiera dignità del loro sangue croato, così come i loro antenati tanto tempo prima avevano resistito all'avanzata distruttiva dell'Islam nelle loro terre. Il parroco Fra' Jozo Zovko non si era piegato neanche ai quasi due anni di carcere, fra percosse di cui ancora erano visibili i segni. Il clima che avvolgeva quel mio primo viaggio, non era dunque tra i migliori. Agli occidentali era permesso accedere in Jugoslavia come turisti, ma io portavo con me due aggravanti: ero un giornalista, e inoltre mi stavo recando a Medjugorje. Decisi perciò di aggirare i blocchi stradali recandomi come un qualsiasi viaggiatore in treno, scelta che di lì a poco non si rivelò molto felice: il servizio ferroviario era in condizioni da terzo mondo: bisognava cambiare continuamente, su treni affollatissimi che passavano solo una volta al giorno. Finalmente, dopo alcune notti passate a "dormire" tra i barboni che riempivano le affumicate sale d'attesa delle stazioni, o trascorse sulle panchine vicino ai binari, a temperature da inverno sui Balcani (ero a fine dicembre), riuscii a prendere l'ultimo treno saltandovi dentro dal finestrino mentre era in corsa rallentata. Destinazione Mostar. Ma il sollievo di essere vicino alla meta durò poco: sul treno salì una pattuglia della polizia di Stato, e si mise a perquisire uno scompartimento sì e un no. Per fortuna io mi trovavo in quello no, perché di fianco a me vidi di tutto: gente spogliata e perquisita fin dentro la suola delle scarpe, che venivano appositamente aperte con un coltellino. Nascosi il mio tesserino da giornalista e quando vennero le guardie mi finsi un turista diretto a Mostar. La cosa funzionò a metà, perché si trattava di un nucleo scelto della polizia comunista, e l'amore verso gli occidentali non giungeva alle stelle. Si presero il mio passaporto e urlando frasi in serbo per me incomprensibili se lo passavano l'un l'altro come se vi fosse qualcosa che non andasse. Per un istante provai la stessa paura che affiorava nei racconti di alcuni miei amici, missionari clandestini nel Paesi dell'Est, quando, con le intercapedini della carrozzeria imbottite di vangeli e rosari, venivano con l'auto fermati a un posto di blocco. Cercai di tranquillizzare me stesso dicendomi che in fondo ero solo in Jugoslavia, non nella Cecoslovacchia dietro la cortina di ferro, ove i cingoli dei carriarmati erano passati sui poveri corpi di religiosi e religiose, o nell'Albania (allora comunista) ove per un segno di croce venivi condannato a dieci anni di lavori forzati. Non so se fu la Madonna di Medjugorje ad aiutarmi, comunque il poliziotto di maggior grado decise di accelerare le perquisizioni e mi congedò buttandomi in faccia il passaporto e urlandomi qualche parolaccia che per fortuna non compresi. Tirai un respiro di sollievo, ma per un attimo avevo toccato nel vivo quello che in fondo era la guerra fredda ancora in corso in quegli anni, l'odio di una potenza verso l'altra, l'assurdità dei lager costruiti in Siberia per i dissidenti cattolici (e purtroppo anche per molti sacerdoti e vescovi), la follia di quelle cinquantamila testate nucleari sospese, da una parte e dall'altra, sopra le nostre teste e il nostro futuro, talune già programmate sulle coordinate delle nostre città. Una Madonna che appariva nell'Est, che strano. Quasi come un'alba di quello che sarebbe avvenuto pochi anni dopo col picconamento del muro di Berlino. Giunsi finalmente a Mostar, ove risiedeva il Vescovo Pavao Zanic, sotto la cui diocesi risiedeva Medjugorje. Riuscii a farmi ricevere; fu molto gentile, e non nascose la sua avversità verso le apparizioni. Avversità che nacque, come poi mi spiegarono, il giorno in cui il piccolo Jacov si era candidamente recato da lui dicendogli: "Ha detto la Madonna che ti devi convertire". Registrai il tutto, e mi diressi a Medjugorje: pochissime case sperdute tra i campi di tabacco. Mi colpì per la sua semplicità: anche le abitazioni dei ragazzi "veggenti" erano case normalissime, dove si svolgevano i mestieri di tutti i giorni; mi piacque registrare anche un po' di musica di Sarajevo che proveniva da quelle finestre. Poi incontrai ad uno ad uno i ragazzi: mi accolsero serenamente rispondendo tramite un interprete a tutte le domande, con quello sguardo luminoso e quel sorriso che rimasero con loro in tutte le dolorose prove degli anni successivi, e che disarmava chiunque si avvicinasse a loro con la malizia di voler cogliere i tratti di una recita o di una finzione. Il giorno dopo decisi di recarmi all'apparizione per l'ora prestabilita, ma non avevo fatto i conti con la gente: il tranquillo paese era gremito da una folla spettacolare che si accalcava nella chiesa. A stento riuscii a trascinarmi fino all'ingresso della sagrestia, ove accadeva in quei giorni l'evento, ma uno sbarramento di frati impediva di entrare. Sapevo però che era consentito l'accesso ai malati (per via delle guarigioni che numerose accadevano durante i minuti dell'apparizione) ed ai giornalisti (dai quali si sperava un aiuto per una maggiore libertà). Alzai in alto quella tessera che il giorno prima avevo nascosto e che ora si rivelava invece come il mio lasciapassare, e quando padre Slavko (il frate-psicologo) la vide, si aprì un varco fra le tonache ove sgusciai. All'interno della stanza, oltre alla gente, vi era solo un tavolo: ove la gente lasciava oggetti e fotografie per farli benedire dalla Vergine. Alle diciotto in punto i ragazzi entrarono in fila indiana, fecero come di consueto un segno di croce, e cominciarono a pregare in croato. Fu allora che il fatto avvenne, e mentre i ragazzi cadevano con fragore simultaneo in ginocchio, io La vidi. Non La vidi certo come la vedevano i ragazzi, ma La vidi nei ragazzi, La vidi sui loro volti che si illuminarono gioiosamente e si trasfigurarono. Erano attimi di assoluto silenzio; nessuno osava fiatare. E finanche la natura fuori non fiatava; perfino lo schiamazzare dei passeri che affollavano gli alberi circostanti ammutoliva. E pure dalle labbra in movimento dei ragazzi non usciva curiosamente alcun suono. Parlavano ma noi non udivamo. Soltanto a metà apparizione si udiva un Padre nostro che i ragazzi recitavano (in croato) iniziandolo dal punto "che sei nei cieli" (e in seguito mi venne spiegato il perché: perché, dicevano candidamente i ragazzi, era sempre la Madonna a cominciare, iniziando Lei col dire "Padre nostro"). La "Regina della Pace" era apparsa; con questo attributo si era presentata il primo giorno delle apparizioni, il 25 giugno '81. Il motivo divenne a tutti più chiaro quando esattamente dieci anni dopo, il 25 giugno '91, scoppiò la guerra in Jugoslavia, quella guerra che si trascinò per anni fino ai nostri giorni, dilaniando e frantumando quelle terre. Divenni così testimone di un avvenimento che si intrecciò con la mia vita più di quanto a quel tempo avrei potuto immaginare. Assistetti per ancora alcuni giorni alle apparizioni: da buon cronista un dubbio mi rimaneva sempre, ma mi si andava rafforzando sempre più l'idea che quei volti non potevano mentire; non così, non in quel modo. Tornai in Italia, e scrissi i primi articoli sull'avvenimento per alcuni giornali. Col tempo la fama di Medjugorje fece il giro del mondo, milioni di persone cercarono di raggiungere Medjugorje con ogni mezzo possibile, ed anche scienziati e giornalisti si organizzarono in spedizioni sul luogo. La polizia comunista cercò disperatamente di arginare la diffusione d'informazioni, sequestrando fin dal confine tutto quello che era possibile sequestrare: videocamere ai giornalisti televisivi (come successe anche alla RAI e alla BBC), apparecchiature scientifiche agli scienziati (come successe al professor Lipinski, uno scienziato americano che mi mostrò il suo passaporto con la dicitura "rifiutato per due anni"). Così agendo, però, le autorità facevano rizzare ancor più le antenne ai vari cronisti, venuti magari per scrivere solo due righe per una rubrica di costume, ma in questo modo costretti alla prima pagina. E tornavano ancor più agguerriti e numerosi. Medjugorje era una spina nel fianco per l'impero comunista, che così alacremente aveva lavorato per diffondere le sue ideologie materialiste in occidente; controllando per decenni ogni notizia in uscita e in entrata; seminando l'Italia di spie, dalle ambasciate alle agenzie di stampa, dalle redazioni ai partiti nostrani; infilando i suoi uomini in tutti i punti chiave, dalle case editrici alle cattedre universitarie, non risparmiando finanche curie e seminari; e infine finanziando (come emerse poi dalle indagini sul KGB) i movimenti politici a partire da quelli giovanili, il nostro '68 che veniva usato come grimaldello contro l'alleanza che avevamo con la NATO, ma anche come grimaldello contro la Chiesa che in silenzio scavava gallerie sotto i piedi del gigante dell'EST. Ora questo impero vedeva scaturire, proprio dal suo interno, una fonte di spiritualità mai vista prima, che spingeva alla preghiera milioni di persone in tutto il mondo, vanificando così tutti gli sforzi fatti fino allora per seminare il materialismo e scalzare i valori morali che sostenevano le nazioni dell'Occidente. Alla fine le autorità Jugoslave dovettero però arrendersi: fu presto evidente che arginare il fenomeno era impresa impossibile, ed anzi si rischiava di finire sotto i riflettori dell'opinione mondiale. Furono quindi tolti i divieti e i posti di blocco. Ed anch'io potei recarmi con altri viaggi a Medjugorje (molto più tranquillamente in aereo). Le difficoltà cominciarono invece a nascere in Italia, perché il numero dei visitatori aveva ormai raggiunto alcuni milioni: non vi era città della nostra penisola da cui non partissero settimanalmente pullman di pellegrini, e questo fatto cominciava a preoccupare molte curie, che talvolta sbarravano il passo coi loro divieti. Alcuni gesuiti di Milano avevano invece intelligentemente pensato di attuare un'efficace pastorale nei riguardi di tutte queste persone che tornavano convertite, affinché coltivassero il seme della Fede in modo giusto, senza rischio di fanatismi o sentimentalismi emotivi. Nell'86 decisero così di fondare il mensile Medjugorje, una rivista informativa ma soprattutto formativa, cioè mirava a condurre i lettori verso una formazione spirituale autentica e orientata dall'insegnamento della Chiesa. Mi chiesero se avessi voluto assumerne la direzione, e accettai volentieri (come anche per i dodici anni successivi, fino alla sua chiusura). Le numerosissime lettere che ricevevamo in redazione, spesso assai toccanti, testimoniavano conversioni a non finire, dall'Italia agli Stati Uniti, dal Canada all'Australia; e non si trattava di esperienze superficiali, ma di autentici cambiamenti di vita. Anche molti parroci ci raccontavano con le lacrime agli occhi di come vedevano cambiare le loro comunità. Nasceva una visibile differenza tra quelle parrocchie in cui la gente tornava pregando e digiunando, e quelle ove il parroco impediva ogni cosa e tutto scorreva invariato come prima. In Italia e nel mondo sorse una fede nuova, ma non "esterna" alla realtà della Chiesa, e neanche nel senso di un "movimento" che andava ad aggiungersi agli altri movimenti ecclesiali già esistenti; si diffondeva invece uno "spirito" di Medjugorje che attraversava tutto e tutti, cogliendo trasversalmente ogni gruppo ecclesiale. Chi non era stato a Medjugorje e non aveva fatto esperienza del "dito di Dio", spesso non comprendeva, ed anzi si allarmava. Ma chi tornava da Medjugorje chiedeva solo di pregare, pregare nello "spirito di Medjugorje", cioè in silenzio, in serio raccoglimento, sentendo Dio nel cuore, e non con la solita affrettata e superficiale abitudine. Stranamente tutto questo a certi vertici non piaceva, e diversi sacerdoti-pellegrini ricevettero veti o vennero allontanati. Quando il 4 aprile '89 riuscii a infilare su Avvenire un pezzo a nove colonne su Medjugorje (in occasione del vicino ottavo anniversario) il direttore di quel quotidiano, venni poi a sapere, fu sollevato di peso. La stessa cosa mi accadde con altre testate. Come mai quest'ingiustificabile avversione? La risposta me la sussurrò in un orecchio il segretario di un cardinale da cui mi ero recato per consigli: "State attenti: da queste parti anche a parlar di Fatima vi prenderebbero per reazionari". Per fortuna proprio in quel periodo stava cadendo il muro di Berlino, e tutti diventammo presto reciprocamente più tolleranti. E mentre nella Germania dell'Est esultavano perché non dovevano più costruirsi di nascosto mongolfiere nere o trampoli giganti per scavalcare il Muro di notte, in Italia si esultava perché furono i vescovi ad andare verso est, a recarsi a Medjugorje per sperimentare di persona, e tornare di conseguenza senza molti dubbi. E, cosa senza precedenti nella storia delle apparizioni, a Roma furono respinte le conclusioni negative del Vescovo di Mostar, ed anzi questi venne sollevato dall'incarico di esaminatore: la competenza sui fatti di Medjugorje passò alla Conferenza Episcopale Jugoslava, ove non mancavano i vescovi entusiasti. Nel '93 il nuovo vescovo di Mostar, Mons. Ratko Peric si recò nella cittadina delle apparizioni, e ribadì che Medjugorje era ufficialmente riconosciuta come luogo di preghiera e venerazione (certo in attesa di ulteriori pronunciamenti sullo specifico delle apparizioni, peraltro ancora in corso). In breve tempo ci fu nel mondo un'esplosione di iniziative (forse anche troppe): si moltiplicarono i libri su Medjugorje, decine di titoli, ciascuno in migliaia di copie; spuntavano come funghi i "comitati Medjugorje" e i gruppi di preghiera; nascevano diverse emittenti radio che divulgavano i "messaggi" della Madonna (con in testa Radio Maria che divenne presto la più importante radio cattolica, adesso anche a livello internazionale); e infine molte televisioni e giornali dedicavano ampi servizi sulle apparizioni, e in particolare sui risultati positivi degli scienziati che certificavano l'autentico stato di estasi nei ragazzi, porgendo le prove inconfutabili degli elettroencefalogrammi e della "macchina della verità", l'esito dei test sull'insensibilità al dolore, e soprattutto l'esame dei potenziali evocati, tramite cui erano perfino riusciti a registrare su grafico le sensazioni uditive dei ragazzi mentre asserivano di sentire la voce della Madonna. (In quegli anni ebbi occasione d'intervistare molti di quegli scienziati; conobbi anche il dottor Frigerio, che divenne famoso perché recatosi a Medjugorje con una borsa carica di oggetti sacri che suo malgrado gli avevano rifilato i pazienti dell'ospedale, non riuscì per la gran folla a posarli sul tavolo nella stanza delle apparizioni, per la benedizione della celeste Signora; sennonché al termine dell'estasi vide con gran stupore il piccolo Jacov venirgli incontro tra la folla dicendo: "Sei tu il medico? La Madonna mi ha detto di dirti che non devi preoccuparti: ha benedetto ugualmente tutti gli oggetti che hai nella borsa"; quel medico diventò poi uno dei fondatori dell'Associazione ARPA, che studiò le centinaia di guarigioni miracolose che si verificavano nel santuario bosniaco). Insomma Medjugorje aveva raggiunto il suo culmine. Ma la festa durò poco, perché nel frattempo la Jugoslavia aveva deciso di autodistruggersi con un'improvvisa e spietata guerra fratricida: serbi, croati, bosniaci si contesero lembi di terra, e tonnellate di bombe ridussero intere città in rovina (Mostar inclusa). La gente non veniva solo uccisa, ma anche torturata, deportata. Alcuni miei amici che ugualmente riuscirono a raggiungere Medjugorje in quegli anni, tornavano raccontando scene incredibili di sterminio: nei loro occhi immagini terrificanti; mi impressionò il racconto su una povera vecchia finita crocifissa alla porta della sua casa. Tra l'altro i serbi odiavano Medjugorje, e avrebbero voluto raderla al suolo. Eppure questa cittadina fu sempre miracolosamente preservata dalla distruzione. Finanche le bombe che cadevano dagli aerei restavano inesplose (come testimoniava la foto di un mio amico, fiero di poggiare il piede su un ordigno di quasi due metri). "Questa sarà la mia oasi di Pace", aveva detto la Signora, e così avvenne: Medjugorje fu l'unica a salvarsi. Nessuna vittima, nessuna casa distrutta. Tanto che sia l'ONU che la Caritas decisero di scegliere questa piccola località di pochi abitanti (spesso ignorata dalle carte geografiche) come sede per le trattative di pace e per la distribuzione degli aiuti internazionali. E di aiuti ne arrivarono tanti, perché quei milioni di pellegrini sparsi per il mondo decisero di saldare il loro debito di ospitalità verso la povera gente di quel Paese avviando raccolte di vestiti, di farmaci, di generi alimentari. Centinaia di TIR carichi di aiuti umanitari portarono la salvezza a destinazione. C'è da domandarsi: si sarebbero mosse generosamente così tante persone se non fosse stato per quello "spirito di Medjugorje" che là avevano imparato? Per dieci anni la Regina della Pace aveva intessuto la sua tela nella quale si salvarono centinaia di migliaia di persone, e non solo fisicamente. Adesso Medjugorje si è affacciata al Terzo Millennio. Io non so se in tutti questi anni siamo davvero migliorati o se abbiamo continuato a peggiorare. Non so se siamo più convertiti di prima o se siamo riusciti a scrollarci anche questa volta di dosso i fastidiosi inviti di Dio alla preghiera e al digiuno. Non spetta a me il giudizio. Sono solo stato l'insignificante testimone di un mistero che ha attraversato la mia vita, un mistero che non ho cercato, ma che forse ha cercato me, visto che quando poso lo sguardo sul passaporto che quella guardia mi gettò in faccia, non posso fare a meno di leggervi la coincidenza col giorno e il mese della mia nascita: 25 giugno, naturalmente. Stefano Biavaschi
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