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Se il G8 è antidemocratico, allarghiamo la partecipazione

Lettera aperta a chi vuole bloccare il vertice di Genova 

di Dario Scorza 

Il G8 di Genova è riuscito in poche settimane a delineare uno scenario nuovo nel variopinto universo sociale italiano. Per la prima volta, intorno a tematiche etiche di grande respiro che investono il sistema economico (e di conseguenza politico) mondiale, si sono radunati gli orientamenti politici, religiosi e ideali più disparati. A dire no a questo modello di sviluppo, in grado finora di aumentare il benessere nei paesi benestanti e di ricacciare il Sul del mondo sotto la soglia di povertà, si sono trovati dalla stessa parte i movimenti cattolici, i giovani comunisti, gli ambientalisti, i pacifisti, i centri sociali, centinaia di organizzazioni no profit, tutti insieme riuniti sotto un'unica denominazione, il Genoa Social Forum, e con un unico portavoce, Vittorio Agnoletto. Così forte è stata la spinta ideale, che questi giovani (ma anche i meno giovani) hanno messo da parte le differenze e i preconcetti ideologici per guardare prima a ciò che li univa. Hanno gettato così le basi per una nuova ricomposizione sociale, in grado di promuovere l'aggregazione sulla base dei valori fondativi di una società più giusta e più umana. Per la prima volta si è sentito un cardinale della Chiesa cattolica usare parole che normalmente ci si aspetterebbe da un giovane pieno di entusiasmo e di voglia di cambiare il mondo radicalmente: "Appena 400 plurimiliardari concentrano da soli nelle proprie mani più della metà della ricchezza totale destinata ai sei miliardi di abitanti del nostro paese. Il 20 per cento della popolazione mondiale è 60 volte più ricca dell'80 per cento della popolazione povera (…). Oggi una nuova barbarie si affaccia alle porte guidata dal potere mondiale e anonimo della grande finanza e da uno sviluppo biotecnologico posto al servizio solo o quasi degli interessi materiali. Se il G8 vuole imporre un mondo unico, dove domina l'unica ideologia del denaro e dei corpi, allora per fedeltà al Vangelo, ci mettiamo dalla parte delle "tute bianche" e diciamo "No al G8!". Ma diciamo no senza violenza(…). Diciamo "No", non proponendo modelli di organizzazione politica, ma proclamando orizzonti valoriali". Così si è espresso il cardinale Piovanelli, e su questa falsariga gli ha fatto eco il cardinale Tettamanzi ed altri prelati, senza dimenticare i richiami del Papa ad una più equa distribuzione delle risorse, che non sono certo cominciati oggi.

Ebbene, di fronte a questa epocale novità, di fronte ad un cardinale che si schiera apertamente con le "tute bianche" sulla base dei valori, c'è però qualcuno che preferisce distinguersi invece di unire le forze. E così le tute bianche ed altri movimenti fanno dichiarazioni di guerra totale al G8, scegliendo una strada diversa dal GSF. "Noi il G8 vogliamo mandarlo a monte". "Bloccheremo il G8 con i nostri corpi". "Invaderemo la zona rossa". Di fronte a queste affermazioni, la risposta più lucida l'ha data il cantante Bob Geldof, l'organizzatore del Live Aid: "Tutto questo può forse essere utile a sospendere il vertice, ma è davvero questo l'obbiettivo? Ci si accontenta di così poco?".  Se si ritiene antidemocratico che 8 grandi decidano da soli le sorti economiche e quindi le condizioni di vita del resto del mondo, non è certo impedendogli di riunirsi che qualcosa cambierà. Anche perché i vertici sono solo degli happening di facciata, le grandi e decisive direttive sono già state studiate e approvate dalle cancellerie e dal lavoro diplomatico precedente. In quei tre giorni i grandi dovranno solo firmare dei documenti.

Le "tute bianche" dicono di voler praticare la resistenza passiva, di non voler aggredire nessuno, ma solo di voler mostrare il carattere repressivo di questo sistema politico economico. In sostanza, se entreranno nella zona rossa, la polizia dovrà caricarli e respingerli e così il mondo intero vedrà l'aspetto reazionario del G8. Ma questo atteggiamento si limita a mostrare la violenza del nostro sistema socioeconomico solo attraverso le cariche della polizia e non tramite la documentazione, le testimonianze di rappresentanti dei popoli sfruttati, attraverso la divulgazione delle cifre astronomiche investite nella produzione di armi,  armi che spesso servono a difendersi dalla disperazione della povertà; attraverso l'elencazione delle strutture sanitarie, scolastiche, sociali soppresse nei paesi poveri per rispettare i parametri imposti dagli organismi internazionali (Fondo Monetario, Banca Mondiale, Organizzazione del commercio).

Addossare, almeno sotto il profilo mediatico, della visibilità, la colpa della repressione solo agli agenti di polizia, appare scorretto. Tanto più oggi, alla luce del "manuale" consegnato dal capo della polizia a tutti gli agenti in vista delle manifestazioni contro il G8. Si tratta di una sorta di decalogo che tra l'altro dice: "Coloro che manifestano non sono tuoi nemici, stanno esprimendo le loro idee" (…). Non assumere atteggiamenti provocatori (…). Non farti mai coinvolgere emotivamente (…). Agisci con tolleranza anche di fronte allo scherno e agli insulti".  Insomma, almeno nelle dichiarazioni (i fatti ancora non sono accaduti) la polizia oggi appare più avanti di alcune frange dei manifestanti.

Oltretutto, la resistenza passiva è una strategia nobile ma assai difficile da praticare in massa. Richiede addestramento psicologico prima ancora che fisico. Questo è lo scenario che Nanni Salio, esperto di tecniche di nonviolenza gandhiana, delinea e propone alle tute bianche: "Provate a immaginare che impatto mediatico avrebbe avuto una situazione del genere: invece di contrattaccare la polizia usando i loro stessi mezzi, centinaia, migliaia di manifestanti si accucciano a terra, si inginocchiano, cantano, si lasciano deliberatamente picchiare, riparandosi semplicemente la testa con le braccia (come si fece, l'ho già ricordato, a Comiso e in mille altre occasioni), si tengono uniti, non scappano, dimostrano la "nonviolenza del forte", del "coraggioso", ottengono il consenso e scardinano il potere. Certo, non tutto avviene in una volta sola, occorre perseverare, continuare, non arrendersi, avere pazienza, usare la giusta ironia". Sinceramente credo che sia ancora presto per assistere ad uno scenario del genere.

Alcune frange del movimento dichiarano: "Ci hanno detto che a Genova verrà innalzato un muro, ebbene noi lo abbatteremo". Ma non è quello tra i potenti e i manifestanti il muro da abbattere; C'è bisogno di un'altra intransigenza, molto più faticosa, da costruire giorno per giorno tra la gente.

Se davvero si vuole cancellare il G8 occorre ripartire dal basso, abbattere il muro dell'ignoranza e dell'indifferenza, allargare la partecipazione a queste tematiche, trasformarle in dibattito popolare, culturale e parlamentare, promuovere manifestazioni e raccolte di firme fino a far crescere una sensibilità nuova nel paese che porterà la gente a dire in coro: "No al G8", e soprattutto, sì ad un modello di sviluppo più solidale.

L'entrata di forza nella zona rossa, che esercita un'indubbio fascino romantico, potrà gratificare gli artefici e farli sentire degni eredi di coloro che presero il Palazzo d'Inverno, ma non potrà sortire alcun effetto positivo. Al contrario, queste dichiarazioni bellicose stanno già creando un clima di diffidenza - diffidenza destinata a crescere dopo l'esplosione del pacco bomba che ha ferito un giovane carabiniere - sia tra i manifestanti che verso i manifestanti e possono far rientrare molti potenziali contestatori nella maggioranza silenziosa; le rivendicazioni di una globalizzazione più equa verrebbero collegati alla semplice guerriglia urbana e perderebbero gran parte della loro giustezza intrinseca e della loro capacità di attrazione sui giovani; si rischia di allontanare per il futuro molti giovani dalle manifestazioni di piazza, il verificarsi di violenze e incidenti gravi sarebbe "solo un modo per convincerli a restare chiusi dentro casa quando viene la sera" (De Gregori docet). In un'epoca in cui calano gli iscritti ai sindacati, aumenta l'astensionismo alle elezioni e il tessuto sociale tende sempre più a disgregarsi, la scelta di azioni isolate e fiere, ma che creano un desiderio di fuga (vedi le decine di migliaia di genovesi che abbandonano la loro città) e un meccanismo di rifiuto verso la partecipazione, andrebbe forse maggiormente ponderata. Qualunque violenza (gratuita o provocata) dovesse verificarsi a Genova servirebbe solo a dividere il movimento e a far ritornare ognuno ai propri pregiudizi. Davvero ci si illude di sconfiggere da soli "il sistema"? 

Dario Scorza