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Crocifisso in aula, pluralismo in croce di Riccardo Di Segni Il crocifisso e i crocifissi della storia di Bartolo Ciccardini A proposito di crocefissi padani di Diego Gabutti Crocifissi in classe, un calvario di inciviltà politica di Roberto Moro Il crocifisso tra Coca Cola e Microsoft di Riccardo Bonacina Il
crocifisso sta bene nelle chiese, tutto il resto lasciamolo a
Cesare
Giancarlo Zizola
Tornano
in circolazione per decreto ministeriale i crocifissi di Stato, di nuovo il
simbolo della Nonviolenza e' impugnato come corpo contundente per affermare un
diritto politico di Dio, o rilanciare una religione dell'utile, all'insegna del
vecchio motto della borghesia volterriana: "Ciascuno per se' e Dio
per tutti". Era
spaventosa l'immagine del Crocifisso brandito sui carri della morte dei
Franchisti durante la guerra civile spagnola. E' ripugnante l'uso politico del
Crocifisso per verniciare di una ipocrita patina di cristianesimo culturale
l'ateismo pratico di una politica basata sul culto dell'Oro, sull'individualismo
esasperato, sulla caccia feroce agli immigrati in cerca di pane alle mense dei
nostri Epuloni. Il crocifisso viene di nuovo crocifisso da quegli stessi che lo
vogliono appeso sui muri pubblici: una mistificazione. Ci sono stati vari
progetti nella storia di abrogazione del cristianesimo. Oggi il progetto diventa
piu' che mai astuto: si tenta di abrogare il cristianesimo usando il Crocifisso
di Stato. Faust e' passato un'altra volta a Villa Casati ad Arcore. Ed ha
imparato qualcosa. In
questa discussione, si e' ricordato che non serve essere liberalcattolici, basta
essere semplicemente liberali per decidere come schierarsi nella polemica sul
crocifisso nelle scuole:perche' il crocifisso e' si' il simbolo di una fede, ma
anche della civilta' giudaicocristiana che ha improntato di se' l'Occidente.
Qualche esponente del centro destra ne ha fatto una questione di identita'. Ormai
siamo alla paranoia delle impronte: il crocifisso sarebbe l'impronta
dell'Occidente, anzi "il simbolo della
nazione", come il chador
- dice Ferdinando
Adornato - e' un diritto delle donne afghane. Non si scopre ora l'ignoranza in
cultura religiosa di certa "intellighentzia" laica: trascura che il
crocifisso e' per i cristiani l'immagine del corpo di Dio, comprensibile solo
nell'ordine della fede, non in quello dell'abbigliamento, e neanche in quello di
una cultura particolare. Ignora che per i musulmani Dio non puo' essere
rappresentato,in alcun modo. E che anche per gli Ebrei vige l'interdetto
mosaico: "Non nominare il nome di Dio invano". I cristiani hanno
sempre qualcosa da imparare dagli Altri: meglio un crocifisso praticato che
giocato ai dadi tra partiti politici e messo al muro. La sua croce doveva essere
scandalo e follia, diceva san Paolo, noi lo abbiamo ridotto a un tranquillante
"culturale" e a un portafortuna per i calciatori che entrano in
campo.Doveva essere un segno di salvezza per tutti, ora qualcuno tenta di
renderlo segno di salvezza per alcuni, e di perdizione per gli altri. Nasce
tardi il crocifisso nell'iconografia cristiana. I primi crocifissi sono del VI
secolo. Per sei secoli le comunita' cristiane ne hanno fatto a meno. In ogni
caso, li dipingevano con gli occhi aperti, come ancora viventi, e vicino alla
tomba vuota, tanto era prevalente nella cultura il paradigma della resurrezione.
La quale non a caso e' tornata in forze ad emergere nella riflessione teologica
con la riscoperta "moderna" dell'escatologia. In
qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si e' fatta
inerme, rifiuta la spada non solo per la conquista ma anche per l'autodifesa e
sceglie di morire su un patibolo infame. Un simbolo per la nonviolenza come
fonte di storia. Come dunque si puo' pretendere che sia il simbolo
dell'Occidente? Anche il nazismo ornava le sue armate messianiche con la croce,
per quanto uncinata. La Chiesa firmava concordati con Hitler, con Mussolini e
con Franco, ma la croce era al suo posto nell'immoralismo politico delle
dittature e sulle stragi del fascismo in Etiopia? Padre
Turoldo mi raccontava di quando vide un crocifisso sulla scrivania d'un
banchiere a Ginevra. Era un pezzo d'antiquariato .Si tirava l'asta verticale e
dal crocifisso si estraeva un pugnale. Era usato dai crociati per offrirlo al
bacio dei prigionieri musulmani.Se non lo baciavano venivano infilzati. E
commentava che l'offesa piu' grave che si possa fare al Nonviolento Crocifisso
e' proprio di brandirlo come un emblema di parte, di usarlo come collante dell'etnocentrismo,
di mistificarlo e bestemmiarlo come ingrediente dello "scontro di civilta'"
per giustificare la guerra. Non
sono iconoclasta ma mi oppongo a questa spericolata, simoniaca e oltraggiosa
offensiva anticristiana che usa il crocifisso per liquidare le ultime, fragili
resistenze della religione della carita' in questo paese. Vorrei solo che il
crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri pubblici, nelle coscienze
prima che negli apparati statali. Sono convinto che non sono i crocifissi
esibiti a fare cristiana una societa', ma i cristiani, se sono capaci di pace e
di giustizia, di adorazione e di rivolta di fronte all'oppressione e al massacro
dei piu' deboli. Di questo anzitutto i dirigenti ecclesiastici dovrebbero
preoccuparsi: di rifare i cristiani,di rifarli dall'interno, in modo che non
pieghino la loro coscienza di fronte ai tiranni. Confesso
di non comprendere le ansie per la segnaletica esterna, se non come sintomo
della vetusta' intellettuale dei nostri integralisti cattolici, pallida eco di
Maurras, ma come lui indaffarati "a togliere dal Vangelo il suo veleno
rivoluzionario". A loro non gli par vero che il segno della croce sia
divenuto, almeno nei media, il ghiribizzo scaramantico dei calciatori
all'ingresso in campo. Un amuleto calma l'ansia. E intanto mettono tutto
l'impegno possibile nell'accelerare il processo di secolarizzazione in chiave
neoliberista, facendo strame della verita' e della giustizia, e segando il ramo
dei valori cristiani sui quali si regge l'ordine democratico. Chiedono
ai vescovi di allargare la cruna dell'ago, ma offendono pubblicamente quelli che
non accettano di farci passare i loro cammelli da nababbi. Pretendono il
crocifisso nelle scuole, ma diseducano con mezzi potenti e su tutte le reti le
nuove generazioni. Vorrebbero una Chiesa ridotta al foro interno e al culto,
privarla della carita' e dei poveri, cioe' dei "segni dei chiodi" per
i quali puo' fluire ad essa la luce del Cristo. Questa
vecchia Chiesa madre, grazie all'armatura che ci irrita talora e che
consideriamo vetusta, ha preservato grazie alla carita' il mistero della vita
divina. Essa ha mantenuto contro tutte le eresie, e continua a mantenerla anche
contro la gnosi anticristiana di oggi, la parola del Cristo che ha cambiato il
destino dell'umanita': "Questo e' il mio corpo, offerto per tutti
voi". E'
il corpo vivente di Colui che ha dato il proprio sangue perche' il sangue
dell'uomo non sia piu' versato. Il
cristianesimo ha imparato a proprie spese cosa ha significato per 1500 anni
preferire i crocifissi "di stato" a questo altro tipo di icona. La
societa' si e' fatta profana e multireligiosa, nemmeno il Cardinale Ratzinger
accetta che il cristianesimo torni ad essere una "religione della societa'",
nella quale i crocifissi siano esibiti come emblemi di una nuova alleanza tra
trono e altare, messi sui muri e abrogati dalla vita. E'
soltanto allontanandosi da quei muri pubblici e dalla loro ambiguita' che il
crocifisso potrebbe tornare ad essere significativo per mobilitare le forze
spirituali, nell'ora in cui il mondo agonizza,e ri-spiritualizzare l'uomo.
Questa rimozione puo' apparire traumatica e "laicistica",ma forse e'
necessaria per purificare il senso del Dio crocifisso dalle immagini ereditate
della religione utilitaria. Molto a ragione Jurgen Moltmann ha affermato che
"cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione dell'idea di
Dio". Cio' che era scandalo e follia per i contemporanei di Paolo resta
tale anche per molti nostri contemporanei. E' difficile abituarsi a questa
figura di Dio inutile e impotente. Essa non funziona come utensile del dominio.
E' questo cui richiamava François Verillon quando avvertiva: "Noi
cerchiamo Dio nella luna mentre lui sta lavandoci i piedi". Per
quanti riconoscono nel crocifisso il Cristo di Dio e continuano a credere in lui
quella croce significa
che colui che ha subito la piu' profonda umiliazione da parte del potere
politico diventa portatore della massima dignita' e che la
gloria di Dio non illumina piu' le corone dei potenti. Come notava Hegel,
se colui che e' morto impotente, esautorato e inutile sulla croce diventa per i
credenti la massima e unica fonte di autorita', allora svanisce per essi la base
religiosa del vincolo con il potere politico, che postula in ogni caso un
rapporto di scambio delle utilita', un do ut des. Da
queste poche osservazioni diventa chiaro che una teologia politica della croce
e' qualcosa che non ha nulla da spartire con la teologia politica delle
religioni di stato. Essa si presenta anzi come l'avversaria irriducibile delle
religioni politiche, e contesta a partire da un punto cardinale la possibile
omologazione della fede cristiana a funzioni utilitarie nell'ambito degli
interessi del sistema dominante. Al contrario, essa si traduce in una forza
critica di liberazione dell'uomo dal giogo delle religioni politiche e
dell'alienazione. Di
qui il significato anti-idolatrico della teologia della Croce nel senso in cui
essa si costituisce in fattore critico delle pretese dell'assolutismo. Non
sarebbe impropria, da questo punto di vista, una lettura teologica delle
Beatitudini nelle quali il rovesciamento introdotto dal Cristo manifesta il
divino nelle figure dei poveri, dei semplici, degli umili, dei deboli e dei
sofferenti, dei pacifici e dei diseredati. Il divino si costituisce nel mondo
come scarto e non piu' nelle tradizionali categorie della potenza trionfale. In
un mondo senza compassione, la mitezza di Gesu' di Nazareth non puo' essere
presentata in modi schiaccianti e trionfanti: Gesu' non schiaccia nessuno, anzi
"e' il Dio che si e' fatto schiacciare per l'amore verso l'uomo" ci ha
insegnato il Cardinale Carlo Maria Martini. Il
Dio crocifisso e' dunque un Dio dello scarto. Il Totalmente Altro e' per
eccellenza il Non Potente. Egli non si arruola nelle file dell'idolatria
politica e non puo' funzionare come utensile del potere, ne' ordinare a Pietro
di impugnare la spada del potere per difendere lui e una civilta', come ancora
tentano di fare i nostri mammalucchi
cristiani che aspirano a conquistare il mondo all'arma bianca. Perfino il
papa polacco preferi' consigliare le carmelitane del convento di Auschwitz a
togliere la grande croce che avevano installato nel lager e trasferirle altrove.
Ed e' proprio ripensando alla Shoah che Emmanuel Levinas ha scritto una pagina
su cui giova soffermarsi nella triste ora presente: "L'idea di una verita'
che si manifesta nell'umilta', l'idea di una verita' perseguitata, e' l'unica
modalita' possibile della trascendenza. Manifestarsi come umile, come alleato
del vinto, del povero, del perseguitato significa proprio non rientrare
nell'ordine. L'umilta' disturba totalmente. La persecuzione
e l'umiliazione a cui essa espone sono modalita' del vero".
Crocifisso in aula, pluralismo in croce Riccardo
Di Segni
GLI Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l’idolatria. Gamliel si giustificava in questo modo: «Non sono stato io ad andare nel territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio». In altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l’idolatria non deve entrare, e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori. La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se l’avesse voluto, l’abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del cristianesimo trionfante sugli «dei falsi e bugiardi». Da allora fu il cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l’uso delle immagini nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo cristiano così fedele alle sue immagini di culto. Per Gamliel, che era lo spettatore passivo dell’irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico. Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita l’introduzione di un segno privato in un luogo pubblico. La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un’enfasi esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società. Non bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando più o meno dal principio dell’assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse. In questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d’animo e le domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze. E’ vero che il crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perché è prima di tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso. I cattolici rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente. Per noi è prima di tutto l’immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di quel simbolo, brandito come un’arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l’unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di oppressione e intolleranza. L’ultimo Concilio ha cambiato nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell’intolleranza. La domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l’invasione, la forza, l’occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l’occupazione con segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli, rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità, sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante. Tratto da "La Stampa" 28 settembre 2002
Il crocifisso e i crocifissi della storia Bartolo Ciccardini
Si discute se l'immagine del Crocifisso sia simbolo
universalmente accettato o invece sia un'ostentazione illiberale che
ricorda solo una parte della formazione della coscienza europea. Così
posta, la questione è destinata solo a radicalizzarsi, suscitando
inopportuni patriottismi laici o cattolici, e curiosi interventi di
minoranze religiose. Tratto da "Avvenire" 22 settembre 2002
A proposito di crocefissi padani Diego Gabutti
Si pensava che la classe dirigente padana, al posto del crocifisso, avrebbe preferito appendere sopra le cattedre, nelle scuole del suo regno immaginario, un'ampolla d'acqua del Po, che come la sgnappa e il minestrone è un elisir dalle risapute virtù nazionaltaumaturgiche. Ma è sul crocifisso, lodando la proposta del ministro della pubblica istruzione, Letizia Moratti, che invece puntano a sorpresa i leghisti. E non per effetto d'una ritrovata devozione, che non potrebbe impicciarli di meno, ma per segnare la differenza tra noi e loro, tra gli extracomunitari devoti ad Allah e la cristianità minacciata di perdere i suoi benefici, tra loro ospiti sgomitanti e noi padroni in casa nostra. Bossi, che del resto non ha più l'età, non intende certo iscriversi, con questo colpo di teatro, al Club di Topolino dei Papa's Boy, di cui non si è mai professato tifoso. Col loro Dio Po e le loro cazzabubbole celticopadane in odore di zolfo, i leghisti non sono Buttiglioni o ex dc dell'Ulivo e di Forza Italia, quindi del crocifisso non potrebbe importargliene di meno. Quel che vorrebbero è mettere un cappello da alpino sulla sedia della repubblica perché nessuno ci rubi il posto. Sembrerebbe, a prima vista, una buona idea, o almeno un'idea non del
tutto stravagante: l'Italia è cosa nostra, l'Occidente c'est moi
. Quel che Bossi rivendica, attraverso la trovata del crocifisso, non è
una particolare identità religiosa ma è il logo, è la griffe
d'una condizione etnica: il coccodrillo sulla maglietta della
"razza", l'altra faccia (la faccia nobile) delle impronte da
prendere agl'immigrati (e magari, solidarizzando, anche a tutti gli
altri cittadini, compresi voi e me, in questo modo già un po' meno
padroni in casa nostra). A una seconda occhiata, insomma, la rivendicazione del crocifisso segnaposti da parte dei leghisti non sembra più tanto una buona idea. Sembra un ulteriore passo, piuttosto, verso l'impagliacciamento del paese, che già non brilla per particolare serietà o compostezza. A meno che qualcuno, per esempio il ministro Moratti oppure Don Gianni Baget-Bozzo, non pensino che, insieme alla nostra identità nazionale già abbastanza multipla e sconnessa, gl'immigrati islamici minaccino anche la nostra identità religiosa e che il crocefisso, oltre che un cappello per segnare il posto, sia anche una bandiera per chiamare la nazione a raccolta contro gl'infedeli. Ma con "allarme Islam" non s'intendeva un'emergenza di tipo laico? Anche Oriana Fallaci, quando ci metteva clamorosamente in guardia contro il grande complotto islamista per sfilarci l'Occidente di sotto il sedere, lo faceva per difendere prima di tutto la laicità dell'Occidente, non il nostro retaggio religioso, che non è minacciato da nessuno. Nessun operaio islamico malpagato e peggio alloggiato minaccia di stuprare la Madonnina del Duomo di Milano o di profanare l'ostia divina. E nessun venditore d'accendini e fazzoletti di carta minaccia neppure la santità della polenta taragna, come forse temono i leghisti, che per laicismo intendono, sembra di capire, più o meno quel che intendono con identità religiosa: cazzabubbole, come quando giurano a Pontida alzando le ampolle al cielo. Finchè gl'immigrati islamici restano fedeli al Corano, se così gli
piace, e i cattolici italiani continuano a giurare sui quattro Vangeli,
se gli piace così, tutto va come deve andare, secondo costituzione e
coscienza. Basta che gli uni e gli altri non decidano d'affrontarsi in
torneo agitando nell'aria crocifissi e spade a mezzaluna come Orlandi e
Saladini nell'opera dei pupi. E non pare che la situazione sia questa. C'è magari da temere, scivolando un po' nel metafisico, anche l'idea
teocratica (nessuna distinzione, anzi pappa e ciccia, tra superstizioni
religiose e istituzioni politiche) che l'Islam alimenta, così come a
lungo l'ha alimentata anche il cattolicesimo. Come c'è da temere tutto
ciò che cospira contro le regole di convivenza civile che ci siamo
liberamente (e faticosamente) dati. Ma qui francamente non si vede come
c'entrino gl'immigrati islamici. Non si capisce bene da quale pericolo la reintroduzione del
crocifisso nelle scuole e nei pubblici uffici intenda precisamente
proteggerci. Si capisce benissimo, al contrario, quale pericolo ci
faccia correre: un altro passo in direzione della ripapizzazione del
paese. Tratto da "Il Nuovo" 23 settembre 2002
Roberto Moro
In
questo ottobre rosso del sangue che ci si appresta a versare in Iraq, di
quello che accompagna i massacri in Medio oriente, rosso nei conti di
Wall Street come in quelli privati e pubblici del nostro Paese, rosso
anche per quel vento di solidarietà che annuncia lo sciopero generale,
il dibattito sul ripristino del crocefisso nelle scuole della Repubblica
e nei pubblici uffici sembra una litania residuale, un deja ecuté
sul grammofono gracchiante della storia patria. Si tratta, nei fatti, di
un dibattito privo di autentica vis polemica, di sincere passioni,
dunque stantio, che nulla aggiunge, e in nulla modifica, le tradizionali
posizioni “ideologiche” di cattolici e laici, un ritornello ben
radicato nella faticosa storia del nostro Paese e nel suo tortuoso
cammino verso l’accettazione della modernità. Ben altri sono i
problemi che affliggono la scuola (e più in generale le istituzioni
dello Stato) in via di progressiva decomposizione, messa a ferro e fuoco
da confusi processi di riforma e falcidiata da tagli di bilancio e
occupazionali senza precedenti; ben altri i temi posti all’ordine del
giorno della congiuntura politica di questo ottobre rosso del 2002,
rosso anche per la vergogna che il governo-spettacolo della Repubblica
suscita nei comuni cittadini. Anzi, proprio a fronte del quotidiano
spettacolo (uno spettacolo ormai forse più tragico che comico) di
questo governo mediatico, il tema del “crocifisso sì, crocifisso
no” appare un trompe l’oeil, una sorta di depistaggio morale e
culturale, suona una nota falsa che rischia di farne una menzogna tra le
tante menzogne e addirittura la menzogna delle menzogne.
L’evento, sotto il profilo mediatico, non ha gambe e in poche battute
si è già detto tutto, va alla deriva; null’altro vi sarebbe dunque
da dire se non andando un poco più in profondità a rischio di apparire
fuori tema. Per spezzarne la crosta tutta provinciale e tutta italiana
che anche qui ci mette fuori campo rispetto all’Europa, ci si può
chiedere innanzi tutto: che bisogno vi è di fare appello, a cominciare
dal Consiglio di Stato, a concetti così pesanti come “civiltà”,
“occidente”, “identità europea”, “radici storiche”, su un
problema ormai tanto residuale e provinciale dell’italietta di sempre?
Perché mai il ministro della Pubbilca Istruzione di un governo
avventurosamente bellicista e del tutto sordo agli appelli pacifisti
della Santa Sede deve utilizzare croci e calvario come sassi da lanciare
nell’avanspettacolo del nostro teatrino politico scomodando i santi in
paradiso? E infine: che titolo morale ha questa classe dirigente e di
governo che sta perdendo il senso dei confini tra legalità e illegalità,
tra democrazia e populismo mediatico, di dibattere su temi etici,
culturali e storici che la travalicano? Perché insomma, in un momento
così carico di tensioni e gravido di conflitti, si tenta di confondere
le idee, di mettere a
disagio laici e cattolici, di intorbidare emozioni e depistare giudizi? E’
il segno dei tempi, si dirà. E questi tempi sono quelli
dell’improvvisazione, della menzogna, della manipolazione della
comunicazione e delle istituzioni, della sistematica confusione tra
interessi privati e funzioni pubbliche che degradano la vita politica e
fanno emergere una cultura fragile, provvisoria, fuorviante a cominciare
dall’uso del tutto aprossimativo delle parole e dei concetti che vi
soggiaciono. Occidente,
civiltà, identità storica, radici culturali sono concetti che oggi
vanno maneggiati con estrema cautela e che forse potrebbero anche essere
archiviati senza tragedie. Che nel XXI secolo l’idea di Occidente (rimanipolata
dalle correnti decliniste del XX secolo) possa coincidere con il credo
crisitiano in netta contrapposizione con altre dimensioni religiose e
spirituali è per lo meno azzardato: quel che valeva per i tempi di
“Maometto e Carlomagno” oggi non vale più. Per Occidente si intende
oggi comunemente l’area (in via di progressiva mutazione) dei paesi
Nato la cui coesione non è il credo religioso ma la tutela di una
assetto politico-militare alternativo al campo socialista che non esiste
più: questo concetto simbolo può del resto essere archiviato. Quanto
all’idea di civiltà (civilisation), esso prende forma nel corso del
XVIII secolo nell’Europa dei Lumi ed è il risultato di un
riblatamento del dibattito tra antichi e moderni che accompagna il
coroso della modernità (secoli XIV-XIX). Civilisation/civiltà sta ad
indicare quell’innalzamento della storia universale ( una storia
progressiva e tutta eurocentrica) che coincide proprio con il processo
del disincanto, con il cammino di laicizzazione e di emancipazione
dell’uomo dal condizionamento delle credenze religiose e dall’uso
politico della religione e dedi suoi simboli. In questo paradigma
storiografico (ma anche mitografico) la “civiltà cristiana” da
Machiavelli a Vico a Voltaire a Troeltsch a Sombart e Weber altro non è
che il ciclo storico premoderno. Da tempo ormai l’uso del termine di
“civiltà” si intreccia con quello assai più problematico e denso
di “cultura/culture”. Quanto
poi ai problemi suscitati nel dibattito di un uso pubblico (quindi
politico nel senso ampio e alto del termine) del crocifisso come simbolo
di “identità culturale”, non è chi non veda che esso è mal posto
perché confonde l’idea di comunità spirituale (maggioritaria o
minoritaria poco conta) con quello di società civile e cioè di
coesistenza pacifica e democraticamente contrattualizzata della totalità
dei cittadini. Hanno
fatto infine capolino, in questo sgangherato lessico politico-ideologico
del nostro ottobre rosso, le espressioni di “identità nazionle” e
di “radici storiche” quale causa e motore di una obbligazione
all’esposizione del “povero” Cristo (è il caso di dirlo). Più
che una forzatura è uno straflacione. L’identità nazionale (se
davvero ancora di nazione si può correttamente parlare nel XXI secolo)
i suoi simboli già li ha e anzi li deve rinnovare: al tricolore ci
corre l’obbligo di sostituire, e alla svelta, la bandiera stellata
dell’Unione. E quanto alle “radici storiche” di simboli e valori,
gli storici (chiamati direttamente in causa) sanno bene ormai che la
storia non è “maestra di vita” (semmai e la vita che illumina il
passato), sanno che le vere radici sono nel presente e nel faticoso,
quotidiano impegno di manutenzione e testimoninaza di quei valori
profondi che non hanno radici storiche perché vanno ben oltre la
“storia” proprio perché sono i valori trascendenti che appartengono
all’uomo e all’humanitas. Che
una settantina di parlamentari, tutti a libro paga dei contribuenti,
magari capitanati dalla Lega così fiera della sue radici
celtico-druidiche, trovino modo coi tempi che corrono di attivarsi su
questo tema rinfocolando antiche e residuali polemiche lo trovo
vergognoso. Lo trovo vergognoso perché non solo mette a nudo un così basso livello di cultura politica, ma perché alimenta una menzogna o quantomento un nascondimento. Il nascondimento, frutto delle manipolazioni mediatiche di concetti e simboli, di spettacolare improvvisazione e di provocazioni non certo etiche, sta nel fatto che tutto questo rumore sui fondamenti etici della nostra “civiltà”, “cultura”, “nazione” avviene in presenza di una classe dirigente e di governo che si fa un vanto di aver archiviato la “questione morale” in omaggio ai principi di un pragmatismo efficientista che non tollera nessun ostacolo sulla sua strada. Soprattuto tace e cela il vero nocciolo del problema: la radicale dissimmetria (ed è una novità “storica”) della politica estera del Governo della Repubblica rispetto a quella della Città del Vaticano. Come è conciliabile la goffa e pertinace posizione bellicista del Premier e del governo sul problema dell’Iraq con e della crociata secolare a tutela degli interessi americani nel mondo con il messaggio nobile e sofferto del Pontefice rappresentante di Cristo in terra? Mai una contapposizione così netta tra pace e guerra (non importa se preventiva) è stata ed è sotto gli occhi dei cittadini laici e cattolici del nostro Paese e al vaglio delle loro coscienze. In questo clima di violenze annunciate, di sopraffazioni e di rapido imbarbarimento delle regole della convivenza internazionale, di cattivo uso delle isituzioni e della comunicazione mediatica, l’uso politico del simbolo del crocifisso pare più un sasso lanciato contro il calvario delle nostre coscienze che un richiamo ai valori profondi che vi si agitano. Penso dunque che all’insegna del comune buon senso e all’antico adagio “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”, questo dibattito possa e debba essere sollecitamente archiviato. Tratto da "Il Nuovo" 25 settembre 2002
Il crocifisso tra Coca Cola e Microsoft Riccardo Bonacina
Non siamo un giornale cattolico, non
c'interessa il dibattito infra-ecclesiale, eppure le polemiche suscitate
dalla proposta di legge che vorrebbe il crocefisso per decreto e come
simbolo di civiltà, e le reazioni che l'idea ha suscitato sono
interessanti. Tratto da "Vita" 26 settembre 2002
Tratto da "Il Corriere della Sera" 24 settembre 2002 _________________________________________________________________ |