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Valerio Dalle Grave
Il titolo sembra un gioco
di parole, e forse lo è. Resta
comunque il fatto che , almeno da quanto si è visto alla televisione e
letto sulla stampa, l’enfatizzazione celebrativa (o commemorativa) è
stata grandiosa, spettacolare persino, oserei dire quasi irrispettosa
delle povere vittime di quella immane tragedia, sia negli USA, sia in
Italia, sia nel resto del mondo occidentale o legato all’occidente. In alcuni paesi Islamici, le manifestazioni sono state di segno opposto,
ma l’enfasi sembrava di uguale portata. I Mass-media hanno preparato per tempo il terreno, creando una sorta di
psicologia dell’attesa, con titoli altisonanti e insinuanti nuovi
pericoli, rischi costanti, imminenti attentati, possibili nuove
catastrofi. Tutti, nessuno escluso, hanno fatto da cassa di risonanza ai proclami di
qualche ministro e del Capo del Governo che, con toni più o meno
allarmati, invitavano i
cittadini alla costante vigilanza, al fine di scongiurare eventuali
attentati. Dagli Stati
Uniti ci sono arrivate notizie e immagini che mostravano le
manifestazioni di popolo; in special modo da New-York, dove, per
l’occasione, sono stati scanditi in un silenzio tombale e alla
presenza delle migliaia di persone presenti, i nomi delle vittime del
terribile attentato dell’11 settembre 2001. Il
cerimoniale ufficiale è stato perfetto, i discorsi appropriati per
l’occasione, i visi dei personaggi “che contano” erano seri,
compunti, quasi commossi. Insomma, si
è avuta l’impressione (da comuni cittadini spettatori) che i
“grandi della terra” presenti nei
vari luoghi, dove il popolo era riunito per commemorare i propri
congiunti, amici e conoscenti, fossero veramente partecipi del dolore
(vero) di tanta gente semplice duramente colpita dalla follia omicida
dei terroristi. Quello che,
a mio modo di vedere, stonava
e stona tuttora in tutta la spettacolarizzazione del fatto doloroso, è
una sorta di falso ideologico presente prima, durante, e dopo, la
celebrazione della tragica e fatale data. Insomma, più
che una commemorazione mi è parsa
una celebrazione. In poche
parole, il falso sta nel partecipare a compiangere i morti, vittime
innocenti di un atto di violenza e, allo stesso tempo, nel pensare come
mettere a punto una nuova recrudescenza vendicativa dello stesso tenore
violento, ossia nel preparare una nuova guerra. E’ quanto
stanno facendo alcuni “signori” capeggiati dal Presidente Americano
Bush, dal primo ministro inglese Blair e, purtroppo (e non si capisce in
quale logica), dal nostro capo del Governo Berlusconi. Certo, i
pretesti per scatenare un nuovo conflitto non mancano e se mancano si
inventano. Ma, agli occhi dei più, sono e restano solo pretesti; e i
pretesti, si sa, non convincono più
nessuno. Hanno voluto
fare la guerra in Afganistan per eliminare i Talebani e per prendere Bin
Laden, autore degli attentati alle torri gemelle di New-York (ci hanno detto); veniamo poi a sapere che Bin Laden
è fuggito in moto (roba da ridere) e che i Talebani si sono rifugiati
in Pakistan. Essendo il Pakistan, però, alleato degli Americani, i
Talebani rifugiatisi colà stanno tranquilli e al sicuro. Tranne poche
voci libere, nessuno dei potenti ha spiegato, invece, che il dominio
sull’Afganistan è
essenzialmente fondato sulla necessità di avere una via protetta e
breve per il passaggio del petrolio dai ricchi giacimenti del
Turkmenistan al Golfo Persico; come nessuno ha spiegato che le vere
ragioni dell’alleanza tra Bush e Putin, per la cosidetta guerra
al terrorismo, nasconde sempre interessi legati al
trasporto del petrolio (in questo caso dal mar Caspio al Mar Nero
attraverso il territorio della Cecenia). Stando così
le cose, c’è da chiedersi per quale motivo i soldati Italiani si
trovano in Afganistan, quali interessi dobbiamo difendere in quel Paese?
Dal momento che non è un intervento umanitario, perché dobbiamo
assumerci l’onere (il costo) di quelle operazioni? IL discorso a
questo punto si fa lungo, complicato e avrebbe bisogno di altri spazi. Ma una
domanda ancora è d’obbligo. Perché il nostro presidente del
Consiglio Berlusconi, sempre prolisso di spiegazioni e di promesse,
non ha mai spiegato agli Italiani dove va a reperire le centinaia
di miliardi di euro per
coprire i costi della avventura Afgana? Bella domanda, dirà qualcuno. La risposta
a sorpresa più eclatante la troveremo nella prossima finanziaria, con i
tagli, già annunciati, sui finanziamenti alla scuola, alla sanità e
alla assistenza. I soldi, cioè, si reperiranno sottraendoli alla spesa
sociale. In buona
sostanza , sia in America, che in Italia (e nel resto del mondo
occidentale), chi paga, per le politiche di potenza e di dominio dei
propri governanti, sono sempre i meno abbienti
e i poveri. E c’è di
più. Una tendenza,
fortemente in atto negli Stati Uniti, che sta prendendo piede anche in
Europa, è quella di “attaccare”
il sistema della previdenza
sociale (le pensioni). Perché tale attacco? si chiede un noto professore
del famoso MIT (Massachussets Institute of Tecnology) Americano,
Noam Chomski. Perché, dice, “la sicurezza sociale è
basata su principi etici di solidarietà; e tutto quanto si riferisce a
quei princìpi deve essere distrutto. Perché nessuno deve occuparsi
dell’altro. Perché la preoccupazione verso l’altro è oggi la più
profonda e rivoluzionaria idea
che da fastidio al loro sistema e quindi deve essere eliminata”. In Italia
non siamo immuni da questi attacchi e da questi rischi. I tentativi sono
in atto da tempo e la vigilanza dovrebbe essere più forte e più
attenta, perché i messaggi che vengono diffusi ad arte (dalla stampa,
radio e televisione) sono sottili,
sinuosi, accattivanti
e spesso fanno presa proprio tra i soggetti più esposti e indifesi. La
diffusione dell’individualismo, dell’edonismo, della eccessiva cura
”dell’apparire”; il dilagante disinteresse per la cosa pubblica,
per la politica, per la fede religiosa; l’eccessiva attenzione al
guadagno immediato, ai meccanismi più o meno corretti della
competitività, eccetera,
sono atteggiamenti che di fatto negano il principio etico e fondamentale
della solidarietà. La
distruzione dei principi etici, e tra questi la solidarietà, apre la
porta all’imbarbarimento dei rapporti,
tra le persone, i popoli, le razze; tra
le nazioni e le diverse culture. E allora, la violenza, le rappresaglie e la guerra, prima che di prevenzione
e di difesa, diventano strumenti di imposizione delle proprie regole e
di repressione del dissenso. Prima di
concludere desidero fare ancora una breve considerazione e porre un paio
di domande. Se è vero
(e non ho dubbi in merito) che Europa, Stati Uniti e Giappone, pur
rappresentando solo il 20% dell’umanità,
posseggono l’85% della ricchezza mondiale, vuol dire che questi
Paesi hanno costruito un sistema politico – economico che emargina
e impoverisce l’80% della popolazione mondiale. Siccome Domine
Dio non può aver costruito un ordine così sghembo e ingiusto,
significa che tutto ciò è opera dell’uomo.
Anzi di pochi uomini senza scrupoli al di sopra e al di fuori di ogni
regola comune e condivisa. Domanda: il
terrorismo vero da chi è esercitato? Forse dagli esclusi, dagli
emarginati, denutriti e dagli ammalati cronici?
Ciascuno risponda come meglio crede. Infine noi, se non ci sentiamo responsabili di tanta ingiustizia e
desideriamo prendere le distanze da chi impunemente schiavizza
l’umanità, a cosa siamo disposti di rinunciare per instaurare nel
mondo un sistema più equo, dove
regni sovrana la giustizia, la concordia e la pace? Come in
altre occasioni, anche ora ribadisco la mia profonda esecrazione per
ogni atto di violenza e di
terrorismo, ma la mia coscienza mi impedisce di aderire o di
giustificare iniziative che prevedano il ricorso alla guerra per
risolvere un problema diversamente risolvibile. Sono sicuro
di essere in buona compagnia con tantissimi
cittadini comuni, personaggi della cultura, della chiesa, della
scienza, delle arti, dello sport; uomini politici e delle
istituzioni democratiche
che condividono questa idea, ed è proprio con questa convinzione che
grido il mio NO
alla guerra. Io, che in alcune occasioni ho conosciuto vittime, e
famigliari delle medesime, per atti di terrorismo, non posso associarmi
a plateali occasioni celebrative, mentre mi inchino alla loro memoria e
partecipo solidale al dolore dei loro superstiti in silenziosa
commemorazione.
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