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A livello nazionale, e non solo, il Leone d'oro al film Magdalene di Peter Mullan sta facendo molto discutere: e' lecito, o per lo meno opportuno, premiare un film che denunzia violenze ed abusi operati - per complicita' tra famiglie cattoliche e istituzioni ecclesiastiche - su giovani donne irlandesi sino al 1996? Per contribuire con sensatezza alla discussione sarebbero consigliabili tre passaggi. Primo: vedere il film. Sappiamo che il critico bravo sa commentare le opere cui assiste, il bravissimo anche quelle che non conosce: ma un po' di cristiana modestia, specie quando a intervenire sono rispettabili monsignori telegenici, non guasterebbe. Secondo passaggio: dare una rilettura, anche rapida, a Jacques Maritain. Il filosofo cattolico, che Paolo VI ha prescelto come rappresentante della cultura contemporanea per consegnare in piazza San Pietro il messaggio del Concilio Vaticano II agli intellettuali, ha piu' volte ribadito nei suoi scritti la distinzione (kantiana e crociana) fra il punto di vista estetico ed il punto di vista etico, riconoscendo che un'opera d'arte bella puo' essere moralmente discutibile almeno quanto una edificante puo' risultare esteticamente fallimentare (a Venezia, sino a prova contraria, si doveva valutare il valore estetico dei film in concorso, non gli effetti sociologici). Ma se ci si vuole fermare esclusivamente alla ricaduta etico-pedagogica della distribuzione del film, puo' essere proficuo un terzo passaggio: assistere alla proiezione in una citta' del meridione italiano come, ad esempio, Palermo. Molto probabilmente capitera' infatti cio' che e' accaduto a me: di ascoltare, gia' durante i pochi momenti dell'intervallo e piu' ancora alla fine dello spettacolo, i commenti piu' appassionati da parte del pubblico femminile. Non solo, e non soprattutto, commenti "oggettivi" ed astratti, ma essenzialmente autobiografici. Certo, le nostre donne non hanno subito - solitamente - le singole vessazioni cui si fa riferimento nel film: ma il clima, l'intonazione, l'angolazione richiamano fortemente pezzi del proprio vissuto esistenziale. In modi diversi, e in diversa misura, molte spettatrici hanno sperimentato sulla propria pelle rigori disciplinari e divieti assurdi: "Potevamo vedere il televisore solo una sera a settimana e solo il canale deciso dalla madre superiora", "Per punirmi di aver parlato durante le ore di silenzio, mi hanno chiusa in gabinetto per una notte intera", "Ogni amicizia piu' intima veniva condannata come omofila, a meno che non fosse tra una adulta e una minorenne"... Questi scampoli di ricordi mi hanno richiamato alla memoria un'infinita' di racconti simili. Sin da quando ero bambino, mia madre mi riferiva, con un pizzico d'orgoglio, di aver rifiutato a dodici anni il diktat del confessore quando era ospite di un collegio di suore a Piazza Armerina: "O strappi i testi delle canzonette d'amore che hai trascritto ascoltandole dalla radio o non posso darti l'assoluzione". L'attuale moglie di un mio compagno di scuola mi confidava di aver rinunziato ad essere una "numeraria" dell'Opus Dei perche' non poteva leggere neppure un libro senza il permesso esplicito e preventivo del direttore spirituale: cosi non aveva potuto conoscere direttamente Il nome della rosa di Umberto Eco. Episodi lontani nel tempo, di sessanta e di venti anni fa? Non solo. Sono trascorsi appena dieci anni da quando una collega di filosofia di un liceo linguistico gestito da un comune della provincia di Ragusa mi riferiva che il preside, dietro pressante richiesta del parroco-insegnante di religione, l'aveva invitata fermamente, per evitare turbamenti nei giovani, a non leggere in classe - e a non consigliare per casa - il Simposio di Platone: la teoria dell'amore esposta da Socrate, con espliciti riferimenti all'attrazione sessuale e - per giunta - omosessuale, era troppo poco... "platonica". E solo due anni fa una giovane oculista, apprendendo per caso dei miei interessi in campo teologico, mi spiegava di aver rinunziato ad entrare nell'ordine carmelitano perche', da novizia, al pranzo del primo venerdi' le avevano proposto di digiunare restando in ginocchio accanto alla tavola apparecchiata: non era obbligatorio, ma si sarebbe sentita in colpa se avesse consumato il pasto in quel contesto. "Quando ho chiesto la ragione, mi e' stato risposto che ogni occasione era buona per mortificare il corpo: ho obiettato che se mai, stando alla Bibbia, avrei dovuto mortificare il mio orgoglio spirituale - e l'indomani ho fatto le valigie". Di fronte a questi dati "storici", statisticamente troppo ricorrenti per poter essere liquidati come occasionali, non so quale possa essere la reazione delle coscienze cosiddette laiche gia' per conto proprio ostili o, piu' spesso, indifferenti ai fenomeni religiosi. So pero' che suggeriscono alle coscienze autenticamente credenti la necessita' di rileggere la storia bimillenaria del cristianesimo alla luce del vangelo originario (come ha fatto di recente, in uno splendido volume rizzoliano, Hans Kung); di rintracciarne commistioni e stravolgimenti (avvenuti gia' sin dai primi decenni, per esempio col connubio fra annunzio di Gesu' e filosofie gnostiche); di chiedere perdono per le sofferenze inflitte alle vittime (in questo caso, tanto per cambiare, donne) nel passato e, soprattutto, di rivedere per il presente tutte le normative che provocano conflitti interiori in coloro che vengono considerati fuori dalla comunione ecclesiale solo perche' non sono in linea con la morale borghese occidentale degli ultimi quattro secoli. Non e' tempo di trionfalismi. Anche il recente convegno interconfessionale di Palermo ha riservato un intero pomeriggio alla "autocritica delle religioni". Tutte le grandi tradizioni religiose (tranne, forse, il buddismo) hanno dato molto e tolto altrettanto alle civilta' in cui si sono incarnate. Ne' le cose sono andate molto meglio quando si e' negata la trascendenza in nome di secolarismi atei come il socialismo sovietico o il nazismo tedesco. Possiamo esserne contenti o inquieti, ma la dimensione religiosa e' inestirpabile dal cuore dell'uomo. E la protesta contro le deformazioni e gli inquinamenti e' una conferma, indiretta e paradossale, di questa dimensione. In una delle scene decisive la minorata psichica, dopo essere stata indotta dal prete a furtivi rapporti orali, in un soprassalto di consapevolezza gli urla: "Non sei un uomo di Dio!". In quell'urlo c'e' - evidentemente - una denunzia, ma anche un appello disperato. Nessuno, come quella ragazza martoriata, avrebbe avuto bisogno di un testimone della tenerezza del Padre: e proprio perche' tradita in questa esigenza radicale, essa leva un grido lancinante. E' il grido di tutti i poveri che cercano invano in chi si dichiara discepolo del Cristo un punto di riferimento e un accompagnamento nel buio della vita. Forse il regista cattolico di Magdalene voleva fare solo un bel film (e non so se ci sia riuscito adeguatamente), ma ha finito anche con l'offrire a chi pretende di essere cristiano un prezioso stimolo a separare - in se stesso e negli spazi istituzionali - il grano dalle erbacce che, oggi come ieri, minacciano di soffocarlo. Tratto da “La nonviolenza è in cammino” n.370
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