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Del
film-scandalo “Magdalene” non convincono l’esposizione e il
trattamento della delicata materia. Sarebbe di gran lunga più
esaustivo e interessante vedere il documentario televisivo che ha
influenzato Peter Mullan, piuttosto che lasciarsi imboccare per quasi
due ore una rabbia repressa e un odio anticlericale da un regista
fazioso che cerca furbescamente di infarcire lo schermo di dettagli di
suore che contano soldi, di stupri all’ombra del crocefisso, di
suore obese che mangiano la marmellata mentre le ragazze succhiano
misere scodelle semivuote e altre mille trovate che tradiscono la
volontà di esporre una tesi e non di analizzarla. Ricordiamoci che anche il realismo più fedele, anche l’aneddoto più vero, se trasposto con poca attenzione sullo schermo, rischia di diventare moralismo. I limiti di un film politico, con una tesi da dimostrare, è quello di non fornire allo spettatore un’esposizione dialettica della realtà. Ci sono questioni interessantissime che il film neanche sfiora: le famiglie e le autorità sapevano di cosa accadeva all’interno delle Magdalene Sisters, ad esempio, erano consenzienti o ignoravano tutto? Perché non approfondire le tecniche di plagio, del lavaggio del cervello che, a quanto pare, era la forza di questi ambienti? Una delle ragazze, dopo l’ennesimo tentativo di fuga, prende i voti: quale processo psicologico ha vissuto, come ce l’hanno indotta? Questo era un nodo fondamentale da analizzare, perché come lei tante ragazze si sono rassegnate; troppo facile circoscrivere il film a un’eccezione, a tre ragazze ribelli che poi ce la fanno a scappare! Ma per fare un film di successo lo spettatore ha bisogno della catarsi, di immedesimarsi in chi ce la fa (quelle tre) e non in chi ha perso e resta dentro (le trentamila citate in coda…). D’altra parte, immedesimarsi nella psicologia di un ribelle è quanto di più facile e opportunista possa fare uno spettatore; per un regista è il modo per non farlo sentire eccessivamente turbato, ma modicamente appagato. Addentrarsi nei meandri di uno sconfitto richiede una lucida capacità critica. È fin troppo evidente il limite del film: le ragazze sono persone con un profilo psicologico, le suore sono un’entità astratta, sono il male assoluto. E non vale l’ultima scena (le suorine che si riparano dalla pioggia) a riscattare il gravame ideologico che ha sostenuto tutta l’opera. Per addentrarci in una realtà così complessa bisognerebbe cercare di studiare la “psicologia dell’aguzzino”, perché lì si trovano tante risposte; cercare di capire chi lo muove o cosa lo ispira. Le questioni che il film lascia irrisolte sono di diversa natura. 1 – di natura psicologica. Come hanno potuto, quelle suore, agire in quel modo, in che misura erano state indotte da un sistema superiore, da un “credo”, e quanto del loro comportamento è invece da attribuire a lati oscuri della psiche umana; 2 – di natura politica. In che misura queste suore agiscono in nome dell’Istituzione che rappresentano: cosa c’è alla base, una lettura viziata delle regole pedagogiche o cosa? La fonte ideologica che sta a monte è la Chiesa? 3- di natura sociologica. In che misura il discorso è da attribuire ad un sistema più grande, ad una macrostruttura e ai suoi fondamenti da ridiscutere (il sistema educativo, la morale che sostiene la vita quotidiana irlandese, l’ingerenza della religione con questa), e quanto invece è “microstoria” contingente. Il film presenta, con lo scalpore internazionale che solo il cinema sa riscuotere, un “caso” su cui riflettere e da approfondire indubbiamente in altra sede e con materiali e mezzi più adeguati alle nostre intelligenze.
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