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Nella
Chiesa una rivoluzione, si chiama Concilio Quarant'anni
fa la Chiesa cominciò il dialogo con il mondo moderno Due anime e un Papa - Riflessioni sulla chiesa 40 anni dopo il Concilio di Vittorio Messori Concilio
Vaticano, ancora una bussola per i fedeli?
Nella
Chiesa una rivoluzione, si chiama Concilio
DA Molte cose, al punto che - guardando con occhio razionale e umano ai cambiamenti sopraggiunti nell'espressione della fede e misurando le contraddizioni vissute anche personalmente nella mia vicenda di credente - io stesso potrei paradossalmente dire di avere diverse ragioni per non essere più cristiano. Tuttavia, proprio perché essere cristiani significa credere in Cristo e volere che la sua vita determini la nostra dietro a lui, la fede cristiana si rinnova di giorno in giorno, anche se le forme della fede di oggi non sono più quelle di ieri. Un cambiamento fondamentale, anche se non percepibile immediatamente, è quello avvenuto nei credenti, oggi meno numerosi di ieri al punto di essere diventati minoranza anche nei paesi di antica cristianità come l'Italia, ma dotati di una consapevolezza della loro identità cristiana ben più profonda di quella che avevano quarant'anni fa: è venuta la stagione della secolarizzazione, quella della morte di Dio, ma in verità la consapevolezza di cosa significhi essere alla sequela di Gesù, assumere il Vangelo come canone e norma della vita cristiana personale, accettare di svolgere il proprio impegno nel mondo si è fatta sempre più profonda. È triste sentire ancora oggi lamentele e rimpianti per il tempo che fu: certo, è venuta meno la cristianità, ma è più vivo il cristianesimo! Ma accanto alla consapevolezza vi è anche la ritrovata soggettività responsabile del credente. Pochi ricordano che fino al Concilio a nessun cristiano era dato di proferire una parola in ambito religioso che non fosse ripetizione di quanto appartenente alla tradizione o al magistero ecclesiastico. Oggi i credenti sanno intervenire con una soggettività e una responsabilità grande nella vita della Chiesa attraverso diversi servizi e modi di presenza che sono stati attivati nelle comunità cristiane per assicurare crescita e maturazione. Oggi c'è una fede «pensata» e una responsabilità, espressa soprattutto attraverso forme di carità, che non vanno dimenticate né sottovalutate. Nessuna apologetica né trionfalismo in questa osservazione: certo questi cristiani con una fede matura e una capacità di presenza nella società sono una minoranza e si può dire che sono pochi, troppo pochi rispetto al numero dei battezzati, e tuttavia esistono e hanno dato un volto nuovo alla comunità ecclesiale! Cosa potrebbe fare un presbitero oggi se avesse accanto a sé solo persone come quelle che si ritrovavano negli Anni 50: devote, pie, individualmente anche sante, ma carenti di dimensione comunitaria e di carattere ecclesiale? Ma cerchiamo ora di evidenziare alcuni dei cambiamenti più vistosi. Il primo è certamente quello della liturgia della Chiesa, rinnovata dalla riforma conciliare. Sì, ci sono ancora dei nostalgici della liturgia preconciliare (e in verità molte loro critiche sono ragionevoli perché denunciano la sciattezza e la «mondanità» di alcune forme liturgiche attuali), ma è innegabile che l'introduzione della lingua quotidiana nella liturgia ha rappresentato un mutamento epocale non solo nella preghiera ma anche nel vivere la Chiesa: allora si andava «ad «assistere alla messa», preoccupati solo di osservare il «precetto» mentre oggi nessuno più penserebbe di esprimersi in questi termini perché nella liturgia vi è una certa partecipazione coinvolgente e una vera pedagogia alla comunicazione e alla comunione. Non sono cambiati solo i «riti», è cambiato il modo di «fare assemblea», e dunque il modo di essere Chiesa: chiunque partecipi a una celebrazione eucaristica oggi comprende ciò che viene celebrato, sente nelle letture dell'Antico e del Nuovo Testamento cosa Dio ha voluto dire agli uomini attraverso i profeti, gli apostoli e Gesù Cristo, percepisce un «noi celebrante» e non più soltanto un prete con davanti gente che assiste. Mi sento di affermare con forza, anche perché ne sono testimone fin dall'inizio del Concilio, che è soprattutto attraverso la liturgia che la Bibbia è ritornata al centro della vita della Chiesa. Chi potrebbe smentire questa novità rispetto agli anni cinquanta, quando nella Chiesa cattolica era ancora vietata al semplice cristiano la lettura della Bibbia? E siamo ancora oggi ben lontani dal poter misurare tutti i mutamenti che questo provocherà nella Chiesa, soprattutto quando il contatto con la santa Scrittura diventerà sempre più assiduità da parte del cristiano nella sua vita quotidiana. È quanto avviene per molti già oggi: sono numerosissime le parrocchie in cui non mancano coloro che pregano quotidianamente con la Bibbia, quelli che la leggono insieme e su di essa si confrontano in modo da giungere a fare di quella parola di Dio in essa contenuta il cibo quotidiano, l'ispirazione per il proprio comportamento nel mondo e nella storia. Ma accanto a questo mutamento ve n'è un altro che segna addirittura l'inizio di una nuova epoca. È il cambiamento avvenuto nell'atteggiamento verso l'altro: gli ebrei, innanzitutto, poi i cristiani di altre confessioni e gli appartenenti ad altre religioni. Dall'ostilità alla ricerca della comunione, dal disprezzo al dialogo, dall'anatema e dall'arroganza di chi possiede la verità alla ricerca comune di vie di pace e di giustizia... I «perfidi giudei» - come erano chiamati nella preghiera - sono diventati i «nostri fratelli maggiori», mentre gli altri cristiani, che secondo il catechismo in uso prima del Concilio erano «scismatici, eretici, condannati all'eternità dell'inferno», sono diventati i fratelli con cui rendere testimonianza all'unico Cristo e progettare una Chiesa, una comunità, una casa comune. Questi i mutamenti più vistosi sopraggiunti grazie a quell'intuizione profetica di papa Giovanni che, attraverso il Concilio, volle l'«aggiornamento» della fede cristiana e della vita cattolica, volle - secondo un'espressione usata dal cardinal Ratzinger - «aprire le finestre». Oggi, a distanza di quarant'anni - quando i «padri conciliari» che ancora esercitano il ministero episcopale sono ridotti a sette, tra cui Giovanni Paolo II, mentre un centinaio di altri vescovi che hanno partecipato al Concilio sono ormai «emeriti» - ci si può chiedere se il Concilio è stato attuato. Non dimentichiamo però che il tempo di ricezione di un Concilio è lungo e sovente il periodo successivo è contraddistinto da tentativi di palesa contraddizione alle delibere conciliari: si pensi che il cardinal Bellarmino stese diversi memoranda per sollecitare dal papa Clemente VIII l'adempimento del Concilio tridentino, terminato da ormai quarant'anni. Oggi siamo in una stagione che sembra non voler più trarre ispirazione da quell'evento: per alcuni è tornata la nostalgia della cristianità con la sua arroganza confessionale, il dialogo ecumenico conosce un autentico inverno e purtroppo la comunione nella Chiesa è sempre più declinata in forme che paiono seguire una logica di «federazione» in cui tutti hanno il diritto di sentirsi diversi e non ritengono di dover convergere secondo un criterio comune di unità e di comunione. C'è il rischio che si formino due chiese obbedienti a due polarità, in modo silenzioso, senza contestazione reciproca, mentre per molti altri cristiani la tentazione è di vivere «etsi ecclesia non daretur» perché non avvertono più il dovere di obbedire alle esortazioni della gerarchia. Possiamo chiederci se ci sono ancora nemici del Concilio. Dobbiamo rispondere di sì. Non sono contestatori manifesti dei testi promulgati, ma dello spirito conciliare, persone che temono che quanto rappresentato da quell'evento possa essere rinnovato oggi. Non si dovrebbe dimenticare che tra il 1980 e il 1985 si paventò addirittura la possibilità di «declassare» questo Concilio perché «pastorale» e ci fu chi ne chiese un'ermeneutica in cui il passato ecclesiale doveva prevalere sul novum del Concilio stesso. D'altro canto, c'è chi auspica un Concilio Vaticano III, e occorre riconoscere che i problemi urgenti sono molti e attendono una parola ecclesiale fedele alla tradizione ma capace di essere compresa e vissuta oggi. Per questo occorrerà comunque che si arrivi a un nuovo dialogo, a un confronto tra chiese oggi di diverse culture e situate in contesti socio-politici differenti. Ma è soprattutto necessaria - e lo ridice Giovanni Paolo II - una Chiesa comunionale nella quale la sinodalità, cioè il camminare insieme (syn-odos) sia la modalità per cui tutti sono soggetti responsabili, secondo l'antico principio ecclesiale: «su ciò che riguarda tutti, tutti devono essere ascoltati». Sì, resta ancora molto da attuare del Concilio, soprattutto nelle strutture della Chiesa, ma ciò che è stato acceso come fuoco nel cuore dei credenti per ora arde e non pare in procinto di spegnersi.
Tratto da "La Stampa" 18 ottobre 2002
Quarant'anni
fa la Chiesa cominciò il dialogo con il mondo moderno Riflettendo su se stessa e sulla propria missione la Chiesa di Roma inizia, con il Vaticano II, il dialogo con il mondo moderno e mette fine alla guerra iniziata con la rivoluzione francese, madre di tutti i mali del «secolo», prodotto ultimo della riforma protestante, dell’ebraismo, del libero pensiero. Si impegna a scrutare i «segni dei tempi» e ad interpretarli alla luce del Vangelo. Testi fondamentali, la Costituzione «Gaudium et spes», e la dichiarazione «Dignitatis humanae». Le conseguenze sulla libertà religiosa e sui rapporti con gli Stati sono profonde e determinanti. La prima diventa un diritto naturale, anteriore e superiore al diritto positivo, fondato sul primato della persona, della sua coscienza e della sua dignità. Ad essa deve essere accordata un’efficace protezione giuridica senza distinzione tra credenti e non da parte degli Stati i quali non possono differenziare il trattamento di cittadini e comunità in base all’appartenenza confessionale: gli esseri umani, immuni da ogni forma di coercizione, non potranno in alcun modo essere forzati ad agire contro coscienza. Una immunità riconosciuta per secoli ai soli fedeli della «vera» religione, la cattolica. E’ la fine dello «Stato cristiano», senza che la Chiesa rinunci alla propria identità e alle verità di fede fondamentali verso le quali, pero, l’uomo deve indirizzarsi liberamente e consapevolmente. Inevitabili e altrettanto determinanti gli effetti sui rapporti della Chiesa con le comunità politiche che devono fondarsi sulla indipendenza, l’autonomia e la libertà collettiva delle religioni, e non più sui «privilegi offerti dall’autorità civile». Anzi, ove nuove circostanze lo esigessero, la Chiesa deve rinunciare anche all’esercizio di «diritti acquisiti» nei vari Stati. Non solo, quindi, un regime comune per tutte le confessioni, ma anche una regolamentazione del fenomeno religioso attraverso un diritto comune rispettoso delle libertà individuali e collettive di coscienza e di religione. Il più autorevole canonista italiano, d’Avack, parlò di fine dell’era costantiniana; uno dei grandi teologi del Concilio, Congar, di «pagina del Medio Evo definitivamente voltata». Già nel ’49 aveva scritto che si doveva guardare agli «uomini che cristianizzano le istituzioni», non alle «istituzioni che cristianizzano gli uomini». Il Concilio sancì la fine dell’obbligo dello Stato di operare scelte religiose specifiche, di assumere una fede religiosa come credo ufficiale, di qualificarsi come Stato cattolico, utilizzando la religione per governare (i casi di Mussolini, Franco e Salazar erano testimonianza recente: e il Caudillo non gradì). Non semplice neutralità, dunque, ma radicale incompetenza dello Stato in materia di religione: era il capovolgimento dello stato confessionale fondato proprio sulla competenza religiosa dei governanti. Si pensi che ancora alla vigilia del Concilio erano state aggiornate e ristampate le «Istituzioni di diritto pubblico esterno» del cardinale Ottaviani che, sulla base di un’autorevole dottrina formulata nel secolo precedente dal Tarquini, ribadivano la concezione della Chiesa come società «giuridicamente perfetta», superiore allo Stato perché superiori sono i suoi fini ultraterreni, e titolare dell’ultima parola in caso di controversie in forza della subordinazione dello Stato alla sua podestà, quantomeno indiretta, anche negli affari temporali. Che cosa ha prodotto tutto questo nel quarantennio trascorso? Certo la grande strategia di Giovanni Paolo II, che ha al suo centro la persona umana e la sua libertà, ma anche la scelta di Paolo VI di accettare, firmando l’atto finale di Helsinki, la parificazione giuridica tra credenza e non credenza, sono stati sviluppi epocali nell’atteggiamento della Chiesa verso il mondo. Certo i moltissimi concordati firmati dopo il Concilio (una cinquantina, nonostante alcuni inavvertiti canonisti ne avessero previsto la scomparsa) hanno, con qualche eccezione, ripreso le indicazioni dei sedici testi del Vaticano II. Certo, inaspettatamente per chi deliberava quaranta anni orsono, la realizzazione di questi nuovi principii ha dovuto fare i conti con la fine dei regimi comunisti - che ha complicato le relazioni ecumeniche (si pensi ai rapporti tra Santa Sede e ortodossia russa) e ridato vita alle religioni di Stato - e con l’ondata di fondamentalismi in atto. I «segni dei tempi» sono andati, insomma, in direzione diversa da quella che i padri conciliari si aspettavano. Ma, in fondo, quarant’anni sono meno di un’istante nella storia dell’eternità.
Tratto da "Corriere della Sera" 14 ottobre 2002
Due anime e un Papa - Riflessioni sulla chiesa 40 anni dopo il Concilio di Vittorio Messori Una tentazione, talvolta, insidia: quella, cioè, di azzardarsi nello spazio virtuale della «ucronia». Che è poi, spiega il dizionario, «la ricostruzione della storia fatta sulla base di eventi ipotetici». Insomma, «la storia fatta con i se». Nel nostro caso, a quarant’anni dal Concilio, «che cosa ne sarebbe stato della Chiesa, se non ci fosse stato il Vaticano II?». Ma la domanda è improponibile. In effetti, un credente si riconosce nelle parole estreme del «curato di campagna» di Bernanos: «Tutto è Grazia». Dunque, tutto è Provvidenza: malgrado gli errori dei cristiani, il Cristo guida la sua Chiesa lungo i giusti sentieri. E lo Spirito Santo suggerisce le parole appropriate ai Pastori, specialmente se uniti in solenne assemblea conciliare, presieduti dal Successore di Pietro. In una simile prospettiva, non è solo inutile ma (forse) vagamente blasfemo trastullarsi con i «se»: alla pari degli altri che l’hanno preceduto, il ventunesimo Concilio generale della Catholica rientra, non può non rientrare, in un disegno provvidenziale. Sta qui, in fondo, la maggiore contraddizione della Fraternità San Pio X, la comunità fondata da monsignor Lefebvre, che vorrebbe rimuovere il Vaticano II e ricominciare dalla fine del peraltro grande pontificato di Pio XII. Ma, a meno di ipotizzare un Dio sadicamente burlone, è pensabile che così a lungo e così gravemente sia stato condotto fuori strada il Popolo cui il Cristo ha promesso diuturna assistenza? Ancor più: i lefebvriani denunciano soprattutto la «protestantizzazione» della Chiesa di Roma, sia nella dottrina del Vaticano II sia nella sua applicazione concreta. Ma è una denuncia, la loro, che rischia di rifarsi proprio alle categorie di Lutero, di Calvino, di Zwingli: il tradimento, cioè, dell’ortodossia da parte del Magistero, l’allontanamento dalla lettera del Vangelo e dall’insegnamento dei Padri, l’inquinamento liturgico e pastorale. Da qui, la necessità di un ritorno alla Tradizione autentica, scrostandola da sovrastrutture recenti. Ma è un appello, questo, che sembra creare paradossali sintonie tra i Riformatori del Cinquecento e i Tradizionalisti del Duemila. E, invece - per il cattolico che sia consapevole della logica del cattolicesimo - la sola «vera» Chiesa è quella effettivamente esistente; il solo Magistero «autentico» è quello dei Pastori del momento; la sola Tradizione è quella che vive nel Papa regnante. Cattolico è riconoscersi nella Chiesa «così come sta» (pur non rinunciando, s’intende, alla sforzo per sempre migliorarne il volto umano); è il viverne la vita concreta senza inseguire schemi illusori di una «purezza» ideale; è l’essere fedeli al Credo di sempre, accettandone però l’approfondimento, l’attualizzazione, per i quali la Gerarchia ha un misterioso carisma, garantito dallo Spirito Santo. Non vi è scisma od eresia che non nascano dall’insofferenza della realtà ecclesiale concreta e dalla ricerca di un vangelo «puro», dalla richiesta di pastori davvero «fedeli» al progetto di Cristo, dalla nostalgia di una Tradizione «autentica»: ma questa è la strada che porta alla setta, al gruppuscolo, alla chiesuola. Il cattolico, invece, tra polvere e sudore, cammina tra la folla del grande popolo, dove grano e zizzania, santità e infamia sono mescolati in modo inestricabile ma dove la Gerarchia - designata, crede la fede, dallo Spirito stesso - può incappare in incertezze, arresti e magari equivoci ma non può condurre fuori strada il gregge affidatole. Dunque, quel che è stato, è stato. E va bene così. Perché nulla, nella prospettiva del credente, è casuale, tutto s’inscrive in un progetto provvidenziale, pur nella consapevolezza che l’impegno è in ogni tempo doveroso: Ecclesia semper reformanda . Tuttavia, se proprio volessimo contraddirci e, ponendoci in una visuale solo umana, accettassimo di giocare con il «se»? Ebbene, giusto a partire da quegli anni Sessanta in cui iniziava quella che, per mancanza di un termine migliore, chiamiamo «post-modernità», è probabile che una Chiesa senza Concilio avrebbe cominciato a dividersi irrimediabilmente nelle due «anime» che vi convivevano. Davanti agli assalti alla fede da parte della incredulità, e alla morale da parte della secolarizzazione, l’ala «conservatrice» si sarebbe sempre più irrigidita, sino a barricarsi in una sorta di ultima riserva, da cui lanciare anatemi e deprecazioni. L’anima «progressista», anche per reazione, sarebbe corsa incontro al mondo nuovo, «aprendosi» sempre più, sino a perdere la specificità cristiana e divenendo una sorta di umanesimo, una political correctness adeguata alla mode culturali, con l’hobby, ogni tanto, di una citazione biblica e di un innocuo appello ai «valori». Quando gli storici tenteranno una valutazione complessiva del pontificato di Giovanni Paolo II (il solo svoltosi interamente dopo il Concilio), si vedrà quale è stato il suo Grande Progetto. Da un lato, cioè, un recupero forte, ostinato, della specificità cattolica, dai grandi dogmi sino alle devozioni della religiosità popolare. Dall’altro lato, e proprio in base a questa identità ritrovata e difesa, la massima apertura agli altri, a ogni altro: dalle diverse confessioni e religioni alle ideologie più laiche. Un grande sforzo, quello wojtyliano, non solo per tenere insieme le due «anime» della Chiesa che avrebbero potuto andare ciascuna per la sua strada, ma per superare le antinomie, per giungere a una nuova sintesi cattolica che interagisse con la cultura a lei esterna. È però indubbio che un simile progetto, perseguito tenacemente ormai da 25 anni, sarebbe stato impensabile senza quel Concilio di cui il giovane vescovo fu parte talmente attiva da essere stato (spesso lo si ignora) il solo presule polacco presente a tutte le sessioni e tra gli autori decisivi della sintesi conclusiva del Vaticano II, la Gaudium et spes . Tratto da "Corriere della Sera" 12 ottobre 2002
Concilio
Vaticano, ancora una bussola per i fedeli?
Mentre si celebrano i quarant'anni del Concilio Vaticano
II, che Giovanni XXIII inaugurò l'11 ottobre 1962 per aprire una nuova
stagione della Chiesa nel suo rapporto con un mondo profondamente
cambiato nella mentalità e nei costumi, da più parti ci si chiede se
non sia giunto il tempo di convocare un Concilio Vaticano III per
riflettere su altri mutamenti di portata storica avvenuti. Basti pensare
alle conseguenze determinate dalla caduta dei muri nel 1989-1991, al
processo di globalizzazione che ha acuito il divario tra Paesi ricchi e
poveri, all'idea nuova avanzata dal presidente Bush sulle "guerre
preventive" rispetto alla tendenza di abbandonare la vecchia teoria
della "guerra giusta" per costruire, finalmente, una
"pace giusta".
Tratto da "Il Nuovo" 11 ottobre 2002
Sì
a un nuovo concilio - Cresce una sete di discussione che oggi è in gran
parte frustrata
I 40 anni che ci separano dal Concilio segnano un tempo biblico, che separa le generazioni. Eppure con il Vaticano II si misurano tutti, ancora oggi, mentre la guerra che ritrova dignità, le ideologie soppiantate dai fondamentalismi, i «mai più» infragiliti della generazione dell’Olocausto ci fanno chiedere se davvero veniamo da quella temperie. In una Chiesa sazia di record e stanca di trionfi, indivisa e non concorde, il Vaticano II continua a distinguere chi ne raccomanda fedeltà da chi lo evade, chi lo chiama grazia da chi lo chiama crisi, chi denuncia il tradimento da chi paventa la sua strumentalizzazione. Ed è giusto: perché il Concilio non è un manuale, ma la «tranquilla audacia» di una Chiesa che riconosceva d’essere innanzi a sfide più grandi delle strutture d’autorità su cui s’era retta per secoli (buoni o grami) ormai passati. Adunata a concilio, la Chiesa scopriva che la modernità, detestata come una fatalità, indecifrabile ai pigri paradigmi intransigenti, era una vocazione a volgersi verso Gesù e verso l’uomo in quanto tale e a scoprire che era la stessa cosa. Per questo il Concilio resta. A dispetto di chi ulula ai bei tempi andati (siano i bei tempi del progressismo o della tradizione, che differenza fa?), c’è nella Chiesa sete di Concilio, sete di conciliarità. E’ una sete in gran parte frustrata: il concilio pan-ortodosso non decolla; il Consiglio ecumenico subisce il diluvio di stupide cattiverie fra Chiese; il Sinodo dei Vescovi cattolici non osa neppure desiderare poteri e caratteri degni del suo nome. Ma la sete resta, e questo conta: ché se anche la Chiesa (l’unico spazio globale di eguaglianza di principio, l’ultima realtà internazionale senza impero) s’arroccasse sulla efficienza dell’autorità e rinunciasse a considerare la comunione come una risorsa, sarebbe il segno che è autunno per tutti. E per sete ritorna la parola «Concilio», senza ingenuità e per un domani non remoto. Il cardinale Martini (il 7 ottobre 1999, per essere precisi) ha anche disegnato un’agenda e un timing a dieci anni per un incontro di cui qualcuno non vuole si parli temendo o che accada o che si bruci (le stesse cose che si dicevano quando si parlava di Concilio nel primo Novecento...). Ma al di là dei tatticismi è chiaro che la Chiesa sta accumulando questioni troppo grandi per poter essere gestite dalla reticenza, troppo serie per essere miracolate dal «chissà quando» del conclave, troppo pesanti per essere smosse dal rigore dottrinale disumanizzato o dal cinismo che sbologna ai singoli i drammi per i quali il magistero sa solo ripetersi. C’è una bulimia davanti alle questioni etiche che soffoca le parole del perdono e della santità. C’è una guerra fredda attorno ai movimenti nella quale adulatori e detrattori condividono lo sprezzo per i distinguo. C’è una passività davanti al senso d’abbandono che accomuna i preti e i fedeli dell’ultimo banco nel definirsi rispetto all’eucarestia. C’è una paura a riflettere su istituzioni di governo nate quando il mondo era piccolo così, e bisognose di essere vivificate dal criterio della comunione e non gestite riformando i mansionari. Tutto questo, et cetera , non viene dalla insufficienza del Vaticano II o dalla «crisi post-conciliare», che è il nome con cui i frettolosi definiscono il loro invecchiamento. Col Concilio la Chiesa ha alzato lo sguardo e per vagliare, scartare, affinare la propria lettura le serve un luogo, che o non sarà o sarà conciliare. Quando ciò accadrà si misurerà il tempo trascorso dal 7 ottobre 1999. Sarà poco, o sarà troppo.
Tratto da "Corriere della Sera" 10 ottobre 2002
No
a un nuovo concilio - La ricchezza di quei documenti non è stata ancora
assimilata
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