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CONVIVERE CON LA PAURA

di Valerio Dalle Grave

[note biografiche]

E R Prendere un autobus, infilarsi in un vagone del treno o della metropolitana, salire su un aereo, recarsi al lavoro, sedersi in ufficio, fare la coda all’ufficio postale, andare al ristorante o al bar,  andare a scuola o in chiesa. Per gli Americani, come per tutti noi, sono attività normali che appartengono alla vita di ogni giorno.

Da quando, però, i terroristi hanno colpito al cuore proprio la vita quotidiana di tanta gente comune, niente di tutto questo potrà più essere  com’era prima; l’hanno detto in tanti e lo ripeto anch’io: perché adesso c’è la paura!

Già, e con essa bisognerà convivere molto a lungo perché lungo sarà il percorso da fare per neutralizzare alla radice le sue cause; e le cause che generano la paura che ci pervade hanno origini lontane e radici che affondano nella ingiustizia, maturata specie nel XX secolo,  per opera dell’occidente, a danno dei quattro quinti dell’umanità.

Nessuna giustificazione può essere portata a difesa degli attacchi terroristici, così come li abbiamo visti lo scorso 11 settembre ma, proprio per questo, l’occidente, anche su esplicito invito del Santo Padre e al di la delle giuste ritorsioni contro gli ispiratori e i mandanti degli attentati, l’occidente dicevo, ha il dovere di cambiare profondamente il suo rapporto con il resto dei popoli del pianeta; ha il dovere di scuotersi dal torpore, di aprire gli occhi e uscire da quella specie di sogno che immagina una pace e un progresso garantiti per sempre.

L’occidente non può pensare di poter puntare  all’infinito al controllo delle risorse disponibili al mondo: acqua, petrolio, materie prime, derrate alimentari, finanze, eccetera, senza far partecipare al proprio sviluppo i Paesi del terzo e quarto mondo; questo modo imperialista di sfruttare il pianeta lo espone sempre più al  rischio della propria incolumità e sicurezza.

IL mondo occidentale deve avviare una politica organica che prepari lo sviluppo attraverso scelte che riguardano ad esempio il commercio equo e solidale, una lotta organizzata contro la fame e la miseria, la cancellazione del debito dei Paesi più poveri. Con la consapevolezza che senza sviluppo globale non può esserci pace, libertà, giustizia e  democrazia.

Dopo la distruzione violenta delle torri di New York e di Washington, si odono sempre più forti le voci dei paesi occidentali, e non solo occidentali, che invocano “pace e libertà”. Anche il Capo dello Stato Ciampi ha invocato in più occasioni il perseguimento della pace e la difesa della libertà.

E’ allora necessario che tutti questi Paesi, per i quali il valore della libertà è fondamentale, arrivino a riconoscere di fatto che l’accesso al cibo, all’acqua, alla salute e all’istruzione, sono componenti fondamentali della libertà stessa e, in pratica, la sua condizione.

Ma non può esserci pace senza giustizia.

La sola vera risposta alla sfida della  barbarie non può essere la vendetta ma la giustizia. La giustizia esige anzitutto di accertare rigorosamente la verità sulle stragi terroristiche, su quelle avvenute e su quelle in corso d’opera con  l’uso di armi batteriologiche, magari chimiche e nucleari.

Giustizia vuole che siano raggiunti i colpevoli, che siano processati, giudicati e condannati.

Va al di la della giustizia però, punire gli innocenti, bombardando inevitabilmente, come si sta facendo, la popolazione inerme, colpevole solo di essere schiava di un potere fanatico e tirannico alimentato e sorretto da traffici illegali e mafiosi.

Mi rendo conto delle difficoltà che incontra il discorso che sto facendo, ma come tanti, penso, sono pervaso da un forte senso di paura dell’imminenza e dell’incognita del   pericolo.

Un’angoscia derivata dal fatto che scopriamo ora che la guerra, non meno della pace, fa parte della storia dell’uomo, che non ci basta più l’idea di pace come assenza di conflitto e che anche le nostre idee di guerra non trovano più alcun riscontro.

Abbiamo assistito stupiti ma  molto distratti, agli interventi bellici e ai genocidi consumati nei Balcani nell’ultimo scorcio del secolo scorso; e ora ci troviamo di fronte all’incapacità di distinguere tra guerra interna e guerra esterna, tra combattente (soldato in divisa) e civile. Addirittura  il problema   della sicurezza personale diventa il problema della salute, sullo sfondo di un’annunciata offensiva biologica, batteriologica e chimica.

Dicono alcuni studiosi “che abbiamo disimparato a “pensare la guerra” con tutto il rigore necessario; che a forza di non  pensare la guerra, ci siamo convinti che la pace sia la condizione naturale della vita collettiva; e che la pace invece è una condizione che si raggiunge con un continuo, quotidiano, sforzo e impegno anche personale di costruzione”. Grande verità!

Infatti, “pensare la guerra” non significa essere apologeti della medesima. In un certo senso pensare alla guerra significa pensare la propria morte; e pensare la morte è necessario per preparare seriamente la vita.  Pensare la guerra  significa anche prendere coscienza  di avere paura.

Non bisogna vergognarsi di avere paura. La paura è un sentimento umano come il coraggio. Convivere con la paura può esserci d’aiuto per riflettere, per ripensare il nostro modello di vita, per avviare la costruzione,  per noi e per i nostri figli, di  un futuro non più fondato sull’ingiustizia, sull’egoismo e sul privilegio, ma sulla giustizia e sulla pace.

 

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