LE
IDEE
Quando
gli dei prendono le armi
di Umberto Galimberti
Quando una guerra viene caricata di sacralità espande senza
misura il suo potenziale distruttivo, perché il conflitto
finisce col coinvolgere non solo gli «interessi» dei
belligeranti, ma la loro «identità», la loro cultura, la loro
fede, in una parola quelle figure irrinunciabili che, quando
sono messe in gioco, non prevedono altra alternativa se non
l'annientamento dell'avversario o la propria morte. In questi
casi l'umanità retrocede dall'uso della ragione (che può fare
il suo lavoro, diplomatico o anche militare, finché il
conflitto resta circoscritto al contrasto degli interessi) allo
scatenamento dei simboli, di fronte ai quali la ragione è
impotente, perché il suo operare prende avvio solo dopo che si
è usciti dall'area del sacro, e si è stati in grado di mettere
tra parentesi la differenza delle rispettive visioni del mondo
o, se si preferisce, dei rispettivi sfondi simbolici, in cui si
radicano tutte quelle dimensioni prerazionali che costituiscono
lo zoccolo duro dell'identità di un individuo, di un popolo, di
una cultura, di una razza, di una fede.
Da sempre e ovunque gli uomini hanno trascinato nei loro
conflitti Dio e gli dèi perché, identificandosi con le potenze
ritenute superiori, gli uomini avevano l'impressione di
aumentare la loro potenza e di legittimare la loro violenza.
Combattere infatti per un interesse terreno che divide non
scatena mai tanta forza e tanta violenza quanta ne sprigiona la
lotta per la propria identità di popolo che il dio suggella e
con la sua protezione garantisce. Nelle religioni politeiste,
dove gli dèi sono molti e quindi, proprio per questo, sono
limitati nella loro potenza, ricorrere agli dèi significa solo
proiettare nel cielo il conflitto tra gli uomini. Ma la
divisione degli dèi, come ci racconta Omero nell'Iliade, non
consente a nessuno dei belligeranti intorno alle mura di Troia
di godere del favore dell'«onnipotenza di Dio». Di questo
favore ritengono invece di godere quanti credono in un solo Dio
e perciò nella guerra portano fino alle estreme conseguenze il
principio dell'intolleranza che è il tratto tipico di ogni
religione monoteista. Se infatti c'è un unico Dio e io sono
figlio di Dio, se il mio popolo è eletto, perché la sua fede
è l'unica che indica la via della verità e della salvezza, chi
sono mai gli altri? Gente da
convertire o da combattere. Non ci sono alternative quando in
gioco è l'unica via alla verità e alla salvezza. La tolleranza
di alcune religioni monoteiste, come ad esempio quella
cristiana, è una tolleranza «di fatto» non «di principio»,
perché chi crede nell'unico dio non può ritenere la propria
condizione di fede equivalente alla condizione di chi non la
condivide, perché in questo caso dovrebbe ad un tempo credere e
non credere. Per questo le guerre, dove i contendenti si sentono
assistiti
dall'unico dio onnipotente sono tutte «guerre sante» sono
tutte «jihad», mentre non si può dire la stessa cosa ad
esempio per la guerra di Troia o per le guerre a cui l'Impero
Romano affidava la sua espansione perché, a differenza del
monoteismo, il politeismo assicurava ospitalità nell'Olimpo
anche agli dèi dei popoli sconfitti, garantendo così la
valenza simbolica che è alla base di ogni identità culturale.
Le guerre grecoromane, pur prevedendo l'attiva partecipazione
degli dèi, erano in fondo guerre che oggi potremmo definire «laiche»,
perché in primo piano e in bella vista c'erano gli «interessi»,
non la «fede» . Dopo 1500 anni di guerre sante combattute in
Occidente contro i «barbari», gli arabi e gli indiani
d'America, nel 1700, con l'Illuminismo e la rivoluzione
francese, si torna a desacralizzare la guerra, non attraverso il
politeismo come nel mondo antico, ma attraverso una progressiva
laicizzazione del mondo, che comporta quel benefico assentarsi
di Dio dalle vicende umane, che a questo punto possono essere
affrontate e risolte con gli strumenti che gli uomini hanno a
disposizione: la ragione e la forza, che fanno piazza pulita di
quel minaccioso potenziale simbolico a sfondo religioso che
ottunde la ragione e acceca la forza. Guerre desacralizzate,
guerre «laiche» potremmo dire per intenderci, sono stati i
conflitti che in Occidente hanno caratterizzato i secoli XIX e
XX, con una sola variante simbolicosacrale che ha fatto la sua
comparsa nella seconda guerra mondiale con l'ideologia della
superiorità razziale e con il conseguente sterminio degli
ebrei. Qui il sacro, con il corredo dei suoi simboli devastanti,
ha fatto la sua riapparizione e, a tragedia consumata,
l'Occidente si è fatto carico della memoria, non per
esorcizzare un'altra possibile guerra, ma quel tipo di guerra
dove gli «interessi», che scatenano gli
eserciti quando la politica fallisce, sono stati nascosti e
occultati dalla potenza nefasta dei simboli. Oggi questa memoria
sembra abbia ceduto. E il conflitto, non più arginato dalla
logica «ragionevole» degli interessi, si è rivestito di
simboli. Tali sono: l'Occidente contro il mondo arabo, il Corano
contro la Bibbia, il dio cristiano contro il dio di Maometto,
per non parlare di quelle espressioni e di quelle metafore
tratte dal più arcaico linguaggio religioso da cui non
rifuggono neanche i media nei loro servizi e taluni politici nei
loro discorsi. Che altro significato ha questo richiamo a Dio,
che così di frequente ricorre nei discorsi di Bush e nei
messaggi di Bin Laden, se non quello di eccitare gli animi dei
rispettivi popoli col fuoco pericolosissimo che la sacralità
scatena, quando con la sua
simbolica evoca «identità», «appartenenze», «radici
culturali», «fedi»? Di questo sovrappiù simbolico non
potremmo farne a meno? Non potremmo ricondurre il conflitto a
quel contrasto d'interessi che pure esiste tra queste due aree
che siamo soliti chiamare mondo occidentale e mondo islamico, e
che hanno per nome: mercato del petrolio, controllo delle aree
d'influenza, distribuzione della ricchezza,
tutti temi umanamente trattabili con la politica e al limite
anche con la guerra, senza far scendere in terra, anzi nel
conflitto, Iddio, perché quando Dio scende in terra è subito
apocalisse. Già Platone, in quel dialogo che ha per titolo Il
Politico, parla
del «Grande capovolgimento (megiste metabole) che avvenne
quando Dio abbandonò il timone del mondo e gli uomini dovettero
darsi da fare con le tecniche e soprattutto con quella tecnica
regia (basilike techne) che tutte le coordina e che ha per nome
politica, per poter giungere al governo di sé». La lezione di
Platone con mille difficoltà è stata almeno in parte
assimilata dall'Occidente che ha desacralizzato gli interessi
umani e i conflitti che essi inevitabilmente generano,
chiamandoli con il loro nome. Continuiamo a chiamare con il loro
nome questi interessi e non confondiamoli con il nome di Dio,
innanzitutto per non mettere
Dio in contraddizione con se stesso, dal momento che sia gli
islamici sia i cristiani si rifanno allo stesso Dio, che è poi
il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e in secondo luogo
perché una guerra desacralizzata e quindi limitata ai veri
interessi, sia pure contrastanti, dei contendenti, ha più
possibilità di comporsi e di concludersi di quanto non ne abbia
una guerra santa, dove in gioco sono identità di popoli,
appartenenze, culture, razze, fedi.
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