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Il
Papa a Montecitorio
dossier a cura della Staff di Reteblu
In
Parlamento da campione della libertà
di
Marco Tarquinio
Etica
e natura, la sfida di Habermas
di Gian Enrico Rusconi
Domande
di un ateo
di Pietro
Ingrao
La
morale universale
di
Filippo Gentiloni
Le
altre religioni apprezzano
di
Mimmo De Cillis
In
Parlamento da campione della libertà
di
Marco Tarquinio
Domani, dunque, Giovanni Paolo II
varcherà il portone di Palazzo Montecitorio per incontrarsi con il
Parlamento della Repubblica Italiana. È uno di quegli eventi che
viene naturale definire storici e che storici, a onta di ogni
retorica, lo sono per davvero. Buon per noi che potremo esserne
testimoni e che, prima ancora, da cittadini di questo Paese, ne saremo
coralmente - e costituzionalmente - protagonisti. Le Assemblee dei
deputati e dei senatori, lo sappiamo anche se non sempre ne siamo
felicemente convinti, ci rappresentano infatti tutti. E tutti -
rappresentanti e rappresentati - potremmo essere indotti laicamente a
riscoprire e ripensare questa semplice verità della democrazia dalla
bocca del Papa che tra poche ore, per la prima volta, parlerà con il
nostro Parlamento.
È, in definitiva, l'incontro di due libertà. E di due responsabilità.
Vale la pena di ricordarlo. Così come vale la pena di ricordare che
quest'i ncontro avviene per caloroso, insistito, invito rivolto al
capo della Chiesa Cattolica. Un invito che porta, infine, la firma di
Pier Ferdinando Casini, ma che appartiene anche a Marcello Pera e
contiene l'iniziativa assunta nel 2000 da Luciano Violante in accordo
con Nicola Mancino. Come si vede, le grandi correnti ideali presenti
nella vicenda politica e culturale italiana, sono riassunte nei
profili personali dei quattro presidenti che hanno "pensato"
questo solenne incontro tra Giovanni Paolo II e le Camere in seduta
comune. Non sembra un caso. Mentre potrebbe rivelarsi fruttuoso il
fatto che l'incontro si realizzi in questa fase della vita del nostro
Paese. In un tempo, cioè, segnato da gravi preoccupazioni e provocato
da grandi sfide ma che, nell'immediato, non è scandito dall'incombere
di cruciali appuntamenti elettorali.
Il Papa ha accolto, sì, l'invito a recarsi col suo passo lento ma
saldo nella casa della democrazia italiana, ma lo fa in giorni in cui
le strumentalizzazioni dovrebbero in fin dei conti essere un po' meno
facili e il colloquio su ciò che davvero vale nella vita della nostra
comunità nazionale e internazionale potrebbe risultare più limpido e
disteso. Sorprendono, proprio per questo, alcuni strani nervosismi
dell'ultima ora.
Non sono in discussione, ovviamente, le comprensibili ansie
cronachistiche di scrivere e descrivere in anticipo ciò che accadrà
giovedì 14 novembre 2002 nell'emiciclo di Montecitorio. E, in fondo,
non fanno più di tanto stupore i "tic" di certo residuismo
anticlericale che spingono a intonare poco laici e subito sentenziosi
processi alle intenzioni dei legislatori (e, magari, al sentire comune
degli italiani) su tematiche eticamente e socialmente sensibili. Ciò
che lascia francamente perplessi è invece la corsa ingaggiata da
alcuni esponenti della politica e della pubblicistica, impegnati nella
divinazione sulle pagine del discorso di Giovanni Paolo II al
Parlamento, con la dichiarata intenzione di sanzionarne
pregiudizialmente i passaggi più delicati, di asciugarli o ampliarli
a proprio piacimento e, già che ci sono, di curarne anche la
punteggiatura. Singolare modo di dar la parola a un ospite.
Sorge, così, spontaneo il sospetto che dietro questo precipitoso
sforzo ermeneutico ci sia la voglia di smerciare chiavi interpretative
frettolosamente già forgiate, la presunzione di poter gestire coni
d'ombra o di luce ampiamente precostituiti e - stringi stringi -
pressanti suggerimenti del giorno prima ai titolatori dei giornali del
giorno dopo. In parole povere: strattoni, incomprensibili strattoni
all'illustre invitato. O, se si vuole, angosciosi sforzi per cercare
di "mettere gli ammortizzatori" alla papamobile.
Dimenticando che Giovanni Paolo II a Montecitorio entrerà co l suo
tenace passo d'uomo. Un uomo che s'è battuto e si batte per la libertà
e la verità, segnandone la storia d'Europa e quella del mondo intero.
Che s'è fatto vecchio dicendo ai popoli, senza dettature da potenti e
maestri di turno, le cose in cui crede. E queste cose, alla sua
maniera forte e limpida, il Papa dirà anche al Parlamento degli
italiani.
Tratto da "Avvenire" 13
novembre 2002
Etica
e natura, la sfida di Habermas
di Gian Enrico Rusconi
Ill Papa in alcuni passaggi
del suo intervento ha ricordato i fondamenti della dottrina della
chiesa, parlando di «verità assoluta», di «legge oggettiva», di
diritti iscritti nella «natura umana». Questi concetti sono rimasti
sullo sfondo quando il discorso ha affrontato il tema della famiglia,
di cui ha affermato lo status giuridico «naturale». Una tesi analoga
vale anche per l'idea di «persona umana».
Da queste indicazioni dottrinali discende ovviamente uno specifico
orientamento legislativo, che il Papa non ha bisogno di raccomandare
esplicitamente. Ma esistono altre concezioni o interpretazioni di «natura»
e «persona» che non coincidono con quelle espresse dalla dottrina
della Chiesa. E hanno la stessa dignità etica e diritto di
espressione legislativa. In realtà le nostre società democratiche
devono legiferare su temi importanti, quali lo statuto della famiglia
o le applicazioni della genetica e delle biotecnologie, senza che tra
i cittadini esistano idee condivise su che cosa sia la «natura umana».
Senza che ci sia consenso su quali siano i confini biologici della «persona
umana» - l'unica che nelle nostre Costituzioni è titolare di diritti
inalienabili.
Prendiamo ad esempio le prestazioni della bioingegneria, cui il Papa
non ha accennato ma che diventeranno presto motivo di contrasto
ideologico e legislativo. Esse stanno sconvolgendo i parametri
tradizionali con cui per secoli si è definita la «vita» o la «natura
umana». Cade subito l'illusione che ci si possa intendere sulla base
dei grandi assunti di principio, pure unanimemente condivisi nella
nostra civiltà, quali la «dignità della persona» e «sacralità
della vita» (magari intesa in modo secolarizzato). Con sconcerto
infatti si scopre che questi principi, soggettivamente sostenuti con
sincerità, nascondono in realtà differenze interpretative molto
pronunciate che portano a posizioni pratiche e proposte legislative
inconciliabili.
Nasce allora presso i politici la tentazione di tagliare corto,
ricorrendo al principio della decisione a maggioranza. Ma proprio i
temi controversi della famiglia e della bioetica ripropongono l'antica
questione dei limiti della maggioranza quando sono in gioco valori
fondamentali. C'è il pericolo della «dittatura della maggioranza».
Prendiamo l'esempio della legge sull'aborto, che ora viene
insistentemente citata in vista della sua possibile revocabilità -
grazie ad una nuova maggioranza politica. È bene ricordare i termini
democratici della questione: l'attuale legge sulla interruzione della
maternità (votata ovviamente a maggioranza) rispetta rigorosamente le
convinzioni e i comportamenti di chi rifiuta ogni forma di aborto. La
sua abolizione (o un suo sostanziale travisamento) invece non solo non
rispetta le convinzioni della (eventuale) minoranza, le considera
sbagliate ma di fatto le criminalizza.
La problematica delle biotecnologie, e in generale della bioetica, non
coincide concettualmente con quella legata all'aborto, ma contiene
presupposti analoghi. Anche qui infatti da un lato c'è chi ha
certezze o verità su «vita» e «natura umana», per lo più
argomentate in termini religiosi, che intendono perentoriamente
imporsi tramite normative di legge. Dall'altro lato c'è chi,
laicamente, ritiene che lo sviluppo delle biotecnologie ponga
interrogativi di tipo nuovo sulla ridefinizione stessa della «natura
umana». Sono altrettante sfide etiche.
Particolarmente impegnativa è la questione di quando e come «inizia
la persona umana» in funzione dei diritti/doveri che essa esige. Il
laico distingue tra tutela incondizionata dei diritti della persona
nata dalle tutele differenziate e bilanciate del feto nei suoi vari
stadi, in particolare nella questione dell'aborto. Non considera
l'embrione in quanto tale titolare di diritti come la persona formata,
anche se non è strumentalmente disponibile e mercificabile. Quanto
alle operazioni di biogenetica, separa nettamente gli interventi
terapeutici, correttivi e migliorativi (approvati), da interventi
manipolativi nel senso delle clonazioni umane (respinti).
Questa problematica è presente anche nell'ultimo libro di Jürgen
Habermas, «Il futuro della natura umana» (Einaudi 2002, pp.125, Euro
14). Il filosofo tedesco non parla di approccio laico, ma di teoria
non-metafisica o postmetafisica, per la quale e vita e natura umana
non sono entità ontologicamente dotate di senso (ontologicamente
sacre), bensì realtà sottoposte ad un processo continua di
interpretazione etica o «moralizzazione della natura». Questa
risponde ai criteri universalistici, kantiani, dell'uomo come fine e
ha come come corollario il rifiuto di ogni strumentalizzazione
dell'organismo umano.
Come suggerisce il sottotitolo, i rischi di una genetica liberale, il
lavoro di Habermas è innanzitutto guidato dalla preoccupazione per
una genetica cosidetta «liberale», nel senso di guidata
esclusivamente dai meccanismi del mercato della salute e dalle opzioni
insindacabili di genitori interessari alla programmazione della prole
secondo i propri desideri. Questa genetica «positiva», manipolatoria,
costruttivista, confondendo «artificiale» e «spontaneo», «naturalmente
cresciuto» e «costruito in laboratorio», altera radicamente i
principi dell'etica sulla quale si è costruita la nostra società
democratica.
Habermas è consapevole di fare una diagnosi prematura perché
l'ingegneria genetica non è arrivata ancora a programmare
l'individuo, cancellando la contingenza e la casualità cromosomica
che caratterizza la nascita «naturale» dell'uomo, mettendolo così
in grado di agire in modo libero, non pregiudicato. Ma il filosofo
anticipa il caso-estremo per poter porre i problemi del «futuro della
natura umana» che la genetica «liberale» pregiudica in modo
irreparabile.
L'analisi di Habermas è complessa, perché è intessuta nella sua
teoria dell'intersoggettività, dell'agire comunicativo, dell'etica
del discorso. Mette in gioco cioè tutto il suo pensiero (per la cui
comprensione è preziosa la Postfazione di Leonardo Ceppa) come se per
criticare il determinismo genetico fosse necessario condividere la sua
teoria.
Un punto tuttavia è sorprendente: il teorico dell'agire comunicativo
e dell'intersoggettività dell'intendersi introduce nella sua analisi
il concetto di «fondamenti biologici della persona». Parla di
patrimonio biologico intangibile ed eticamente «indisponibile» in
analogia ai diritti fondamentali dell'uomo, che garantiscono
l'integrità e la dignità della persona. Salvo poi introdurre
criticamente quelle differenziazioni che abbiamo visto sopra.
Prendiamo atto che un filosofo post-metafisico riscopre la
problematica della «natura umana» come «moralizzazione della natura»,
come impresa etica. La natura umana cioè non è più decifrata nella
dimensione creaturale religiosa né imprigionata nel determinismo
biologistico. È una sfida per il pensiero laico.
Tratto da "La Stampa" 15
novembre 2002
Domande
di un ateo
di Pietro
Ingrao
Questo
articolo non è un commento politico alla visita di Papa Wojtyla al
Parlamento italiano nel palazzo di Montecitorio. L'Evento c'è stato,
ed è buono. Il Santo Padre è stato garbato, gentile verso il popolo
italiano. E il suo discorso è stato denso di buoni consigli; e si è
preso un mare di applausi, in quell'aula fastosa con i suoi dipinti
rutilanti.
Ieri i parlamentari traboccavano dall'aula piena come un uovo, e quasi
facevano a gara per acciuffare il passo del discorso del pontefice che
sembrava più congruo ai loro programmi: come affratellati nella sfida
alla buona accoglienza verso quella Autorità sacra.
Io invece, via via che avanzava il discorso del Pontefice sentivo
crescere in me un certo malessere. Faccio un esempio per tutti. Nel
discorso di quel Pontefice romano c'era, senza nessuna ambiguità, e
anche con passione, l'appello alla collaborazione fra i popoli, la
condanna severa del terrorismo e una amara doglianza per l'inasprirsi
dei «cronici conflitti - è detto così - a cominciare da quello che
insanguina la terra santa». E tuttavia mi sembrava che in quelle
parole ci fosse come una strana omissione: la parola «guerra» non
era usata mai. O al massimo - ma non mi sembra - quella parola può
essere apparsa di sguincio.
E soprattutto, se ho ascoltato bene, non c'era nemmeno, in quelle
parole del Papa un piccolissimo riferimento, o una allusione la più
esile al concetto di «guerra preventiva» elaborato e sostenuto dalla
più alta autorità degli Stati uniti d'America, la prima potenza del
mondo che tanti definiscono ormai come impero: l'unico impero forse al
mondo.
E se non si discuteva di questi livelli a cui si sta assestando la
politica e l'urto nel mondo su che cosa si era in pena prima di tutto?
E che cosa - ecco la domanda - urgeva più di ogni altro se non il
rischio grave di una guerra preventiva e dei suoi riflessi nella
politica mondiale? E se il dibattito prima di tutto non ragionava di
questo, che verità c'era in quell'incontro?
Poi, volgendo alla fine del suo discorso, il Pontefice ha affrontato
la questione sociale, affermando (cito le sue parole) che «è
altrettanto inevitabile riconoscere la tuttora grave crisi
dell'occupazione giovanile, e le molte povertà e miserie ed
emarginazioni che affliggono numerose persone e famiglie italiane o
immigrate in questo paese».
E qui naturalmente gli applausi si sono sprecati, unanimi, da tutti i
banchi. Quasi un'ovazione. Io invece mi dicevo: vedrai che qui farà
un nome: la Fiat per esempio, o Termini Imerese, visto che da quei
nodi dipende non solo la sorte dei giovani ma gran parte
dell'orientamento economico e sociale del paese; e senza andare a
fondo in questi discorsi tipo Fiat mi sembra difficile portare innanzi
un qualsiasi sforzo sull'avvenire dei giovani. Come era possibile
allora quella distrazione nelle parole del Pontefice? Infine Papa
Wojtyla, come era previsto, ha chiesto un impegno sulla situazione
delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di
penoso sovraffollamento «mentre un segno di clemenza verso di loro
mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara
manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne
l'impegno di personale ricucitura in vista di un positivo
reinserimento nella società». E qui - insieme con l'aula - stavo per
applaudire anch'io.
Non ho applaudito non solo per il vizio estremistico di chiedere
sempre di più. Non mi è piaciuta una parola usata da quel Pontefice.
Ha fatto ricorso a una parola che non amo; ha detto: clemenza,
e questo è un termine che rimanda a tutta una lettura del peccato
e della colpa che a me sembra ipocrita e deviante. Mi direte:
il Papa guarda al sodo e usa il vocabolario suo proprio, per salvare
vite e anime.
Va bene ma in quell'aula di Montecitorio c'è la giusta abitudine
(quasi il vizio) di pesare le parole. E il Papa lo sa.
Anzi, qui sono io che mi rivolgo ai presidenti Casini e Pera - ed
anche altri - per domandare ancora una volta: quando farete in
quell'aula di Montecitorio, dove oggi ha parlato il pontefice romano,
un confronto sull'articolo 11 della Costituzione? Quell'articolo che
parla appunto della pace e della guerra.
Tratto da
"Il Manifesto" 15 novembre 2002
La
morale universale
di
Filippo Gentiloni
Il papa a
Montecitorio. Un grande successo mediatico. Bande musicali e bandiere;
tappezzeria nuova e pulizie. Soprattutto applausi da tutti, sinistra e
destra. Pochi gli assenti. Alcune domande incalzano. La prima: come
mai questa esaltazione, come mai il Tevere così stretto, come diceva
Spadolini?
Non basta pensare a un governo di destra in cerca di legittimazione
cattolica. In realtà l'invito al papa lo aveva già rivolto il
centrosinistra. E non credo che qualcuno possa pensare che la presenza
del papa a Montecitorio possa incrementare i voti del Polo.
In realtà non si deve dimenticare che il quadro dei rapporti
stato-chiesa (cattolica) non è più quello di una volta. E' finita la
grande mediazione del partito «a ispirazione cristiana» e se ne
sentono gli effetti. Oggi il rapporto con lo stato è tenuto
direttamente dalla chiesa, papa e vescovi. Non credo che, ad esempio,
Paolo VI sarebbe andato a Montecitorio. Il governo democristiano non
lo invitava: non ne aveva bisogno. Il rapporto, per tutti i decenni
del dopoguerra, era tenuto per via indiretta dalla Dc. Oggi non è più
così e le gerarchie ecclesiastiche si devono esporre
direttamente.Vantaggi e svantaggi. Rischi, forse più di prima, per la
laicità dello stato.
Lo si può ricavare anche dal discorso del papa, nonché dagli
applausi che lo hanno punteggiato, sottolineando il detto e
soprattutto il non detto, l'esplicito e l'implicito. Il papa è stato
attento a non polemizzare direttamente, in modo da ricevere applausi
da tutte parti, anche se con diverso dosaggio. Così quando, senza
nominare l'aborto, ha insistito sul problema tutto italiano della
diminuzione delle nascite e della necessità di una politica di
maggiore sostegno alla famiglia.
Così quando, senza nominare esplicitamente la scuola privata, ha
insistito su una educazione che tenga conto delle diverse istanze
formative.
Così quando ha parlato della necessaria unità del paese, ma, per non
offendere la Lega, ha insistito anche sulle differenze culturali e
geografiche.
Piuttosto debole e generico il passaggio sulla pace. L'accenno alla
inutilità delle guerre, date le circostanze, si poteva sperare che
fosse più esplicito, ma forse, anche qui, il Vaticano non vuole
esasperare Bush.
Ripetuto il tema della solidarietà, ma in termini piuttosto vaghi,
soprattutto a proposito della immigrazione (anche qui per non
offendere Bossi) e anche della gravità della disoccupazione.
Molto attesa la questione dei carcerati. Qui il papa è stato più
esplicito nella richiesta di un «segno di clemenza». Non è una
novità: al tempo del Giubileo il suo appello rimase inascoltato.
L'elenco dei temi toccati, accennati ma sorvolati potrebbe continuare.
In genere l'argomentazione poggia, come da secoli nel magistero
cattolico, sulla convinzione di una morale naturale, valida per tutti
al di là delle varie culture, etnie e religioni, e della quale la
chiesa cattolica sarebbe custode universale. Una tesi che ormai, di
fronte alla globalizzazione, sembra datata e comunque insufficiente.
Roma continua a sostenerla, sia per mantenere la pretesa di un
magistero universale, sia perché è una tesi difficile da sostituire
con qualche altra che possa essere egualmente universale. Perciò, per
secoli la chiesa è stata diffidente nei confronti di quella
democrazia che ieri, invece, il papa ha esaltato più volte (ma il
discorso sulla democrazia all'interno della chiesa sarebbe molto più
difficile).
Altra domanda, più stringente: a chi gioverà la giornata «storica»
di ieri? Probabilmente a nessuno. Non alla «evangelizzazione»: il
cattolicesimo italiano procede, ormai, per vie diverse di quelle
dall'alto, per vie più «povere», più diffuse e più convincenti.
Non allo stato, che ormai non ha più bisogno di legittimazioni
sacrali. E i guai della società civile - disoccupazione, ecc. - sono
tali che nessuna giornata «storica» di incontro delle due sponde del
Tevere li può guarire.
Tutto come prima, allora? Temo proprio di si.
Tratto da
"Il Manifesto" 15 novembre 2002
Le
altre religioni apprezzano
di
Mimmo De Cillis
Se i cattolici
sono compiaciuti e orgogliosi, le reazioni di altri leader religiosi
dopo la visita di papa Wojtyla al parlamento italiano mostrano
soddisfazione, stima e apprezzamento. Il che trasforma l'evento in un
successo su tutta la linea per la curia vaticana, abile a costruire un
discorso che non ha urtato le sensibilità e ha trovato un generale
consenso nella schiera dei politici, dei capi religiosi ed anche, è
bene dirlo, in Adriano Sofri. E proprio mentre a Bruxelles si teneva
il primo incontro del neonato Consiglio europeo interreligioso - che
si è detto preoccupato per un nuovo conflitto nel mondo e ha invitato
il governo di Baghdad al disarmo - Wojtyla ha insistito sulla pace nel
mondo e sul ruolo delle grandi religioni. «Le speranze di pace - ha
detto - sono brutalmente contraddette dall'inasprirsi di cronici
conflitti, a cominciare da quello che insanguina la Terra santa. A ciò
si aggiunge il terrorismo internazionale con la nuova e terribile
dimensione che ha assunto, chiamando in causa in maniera totalmente
distorta anche le grandi religioni. Proprio in una tale situazione le
religioni sono invece stimolate a far emergere tutto il loro
potenziale di pace, orientando e quasi `convertendo' verso la
reciproca comprensione le culture e le civiltà che da esse traggono
ispirazione».
Appoggio incondizionato a questa dichiarazione è giunto dalla comunità
islamica italiana, soprattutto per il fatto che il papa non ha
utilizzato nel suo discorso l'espressione «terrorismo di matrice
islamica», come ha detto Mario Scialoia, delegato per l'Italia della
«Lega musulmana mondiale» e membro del consiglio di amministrazione
del Centro culturale islamico annesso alla grande moschea di Roma.
«Il papa - ha proseguito Scialoia - ha messo in risalto il ruolo che
le tre religioni sorelle, cristianesimo, ebraismo e islamismo possono
giocare in favore della pace».
D'altra parte Hamza Piccardo - segretario dell'Unione delle comunità
e organizzazioni islamiche in Italia - ha salutato con favore il
discorso di Wojtyla che ha «invitato alla pace e alla giustizia:
perseguirle viene da Dio».
Sami Salem, imam egiziano della comunità islamica romana, si è
spinto oltre: ha detto al manifesto che «il papa in quel
momento ha rappresentato tutti i capi religiosi: le sue parole valgono
per i fedeli di tutte le religioni».
«Concordo pienamente ed apprezzo quello che ha detto - dice ancora
Sami Salem - perché serve a creare unità nella società italiana e a
non alzare barriere». Anche quando il papa invita l'Europa a
riscoprire le radici cristiane? «Nulla impedisce che un'Europa
pienamente conscia delle sue storiche radici cristiane sia aperta,
accogliente e tollerante verso le minoranze religiose. L'importante è
estirpare i pregiudizi che a volte esistono sull'islam. Le comunità
islamiche nel terzo millennio vogliono integrarsi in questa società
europea, non vogliono creare inimicizie o steccati».
Salem ricorda anche come lo stato italiano potrebbe colmare alcune
mancanze: ridiscutere la legge che regola i finanziamenti con l'otto
per mille delle dichiarazioni dei redditi e aprirla anche ad altre
religioni, come l'islam; riconoscere e rispettare le festività
musulmane, nelle quali, come accade proprio in questi giorni, nel
corso del ramadan, i fedeli musulmani sono penalizzati. E invita gli
operatori dei mass media a non alimentare una propaganda negativa
sull'Islam.
Un plauso a Wojtyla è arrivato anche dalle comunità ebraiche. Il
papa «ha volato alto, rilevando la profondità delle radici
cristiane, ma sempre richiamandosi anche alla necessità di coltivare
i valori etici condivisi», ha spiegato Tullia Zevi, ex presidentessa
dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. «Giovanni Paolo II -
ha continuato - ha delineato con paterna fermezza e profonda pietas i
problemi e i pericoli che incombono: le sfide che stanno davanti al
popolo italiano hanno spaziato dalla crisi delle nascite, alla
famiglia, alla scuola, ai detenuti, verso i quali ha invocato un segno
di clemenza mediante la riduzione della pena'». Quello che forse è
mancato, ha concluso, è stato «un riferimento alle mutazioni
profonde in atto in Europa da continente prevalentemente cristiano in
società plurireligiosa e multiculturale, con la conseguente necessità
di profondi aggiornamenti educativi, culturali e sociali».
Tratto da
"Il Manifesto" 15 novembre 2002
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