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UNA CRISI INTERNA ALLA GLOBALIZZAZIONE

di Giulietto Chiesa

[Riportiamo il testo dell'intervento di Giulietto Chiesa all'incontro
"Contro la guerra, contro la globalizzazione della miseria e
dell'esclusione: verso Porto Alegre 2002" organizzato dal Forum Mondiale
delle Alternative e da Attac Italia alla Camera del Lavoro di Milano sabato
24 novembre. Ringraziamo Luigi Piccioni (per contatti:
t.noce@humnet.unipi.it) per avercelo trasmesso]

Tutta la riflessione che sto facendo mi e' nata dall'esperienza che ho fatto
per tanti anni come inviato dall'Unione Sovietica. Se io non fossi stato a
Mosca e non avessi visto con i miei occhi quello che la globalizzazione
nascente stava facendo in Unione Sovietica, credo che non avrei capito. Mi
sono trovato infatti in un luogo emblematico di come l'Occidente stava
trattando, con la fine della guerra fredda, un possibile progetto di
colonizzazione. Progetto facile, perche' quando nell'87, '88, '89, quando
comincio' la perestroika e quando comincio' a essere chiaro che la Russia
non reggeva, i russi erano pronti a diventare capitalisti, a diventare come
noi; nella loro grande maggioranza non aspettavano altro, erano un paese
proiettato verso l'Occidente perche' usciva distrutto, anche moralmente,
dall'esperienza sovietica.
Ebbene, sono bastati sei o sette anni della "cura americana", perche' di
questo si e' trattato, ovvero di un'esportazione violenta, unilaterale,
sistematica, dell'ideologia, dei metodi di comportamento, della vita, della
pubblicita', dell'informazione, per creare in Russia una reazione di rigetto
totale. Io, riflettendo su quell'esperienza che vivevo dall'interno,
pensavo: se l'Occidente non riesce a conquistare un paese che voleva solo
diventare occidente, come potra' conquistare, negli anni che vengono, il
resto del mondo che non ha nessuna intenzione di diventare occidente? Che
non desidera diventare occidente?
Ecco, da qui e' cominciata la mia riflessione, che poi e' andata avanti,
purtroppo, in modo sempre piu' galoppante, perche' la linea intrapresa dagli
Stati Uniti con la Russia e' diventata operativa su scala mondiale, ponendo
le basi per le sue piu' grandi crepe. Dove ci troviamo adesso?
Io credo che siamo di fronte a una crisi epocale, di dimensioni che nessuno
di noi ha mai conosciuto prima, una crisi mondiale che richiede, da parte di
tutti coloro che ci vivono dentro, una vera e propria rivoluzione
intellettuale, per essere prima di tutto capita, e per essere affrontata in
termini politici. Una crisi mondiale che e' endogena alla globalizzazione.
Non c'e' una forza che gli si contrappone in modo decisivo e che crea dentro
questi processi una contraddizione: questa e' una crisi interna alla
globalizzazione. Questo lo dico perche' nella tradizione di pensiero
marxista c'era l'idea di una forte contrapposizione, ovvero il movimento
operaio che si opponeva al capitalismo, costringendolo a modificarsi, ad
adeguarsi. Questo contrapposizione ora non c'e': noi abbiamo si' un
movimento, nato da un paio d'anni, che e' stato di grande impatto, che e'
stato il prodotto di una crisi, ma nello stesso tempo non e' ancora
sufficientemente forte da creare una contraddizione dentro questo processo.
La crisi nasce dall'interno della globalizzazione americana. La crisi nasce
dal fatto che quel capitalismo, che e' stato messo in funzione una trentina
d'anni fa e che ha trovato il suo totale sviluppo negli ultimi quindici
anni, non e' piu' capace di riprodursi.
I dati ce lo dimostrano. Prendiamo l'ultimo trentennio: la crescita media
annua del prodotto interno lordo mondiale (PIL) si e' ridotta (lo dicono i
dati ufficiali del Fondo Monetario Internazionale e dell'OCSE), anche se
tutti i mass media lo hanno celato.
La crescita era del 4,4% negli anni settanta, e' scesa al 3,4% negli anni
ottanta, e' scesa al di sotto del 3% negli anni novanta, e ora, alla fine
del secolo siamo a una crescita che si avvicina disperatamente all'1%, e
forse meno. Questo significa che siamo gia' da tempo in una pesantissima
recessione mondiale. Anche questo non ci e' stato detto. Il sistema dei
media e' centrale in tutto questo discorso. Non ci hanno detto che la
recessione era gia' cominciata, ce lo hanno nascosto, per ragioni
comprensibili peraltro, perche' si temeva che ci sarebbe stato un
contraccolpo improvviso nelle borse e nell'economia mondiale. Naturalmente
si va in recessione non quando la crescita del PIL mondiale raggiunge la
crescita zero: si va in recessione molto prima. Per di piu', questo sviluppo
era tutto americano, perche' erano gli Stati Uniti che godevano di questa
straordinaria crescita, il resto del mondo gia' da tempo non cresceva (dal
'98): il Giappone era fermo, la Russia era ferma.
Gia' durante la guerra del Kosovo facevo queste considerazioni:
"Il sistema della globalizzazione commerciale e finanziaria americana non
solo non sta producendo crescita globale, ma sta contraendo i diritti
mondiali di crescita. Ci troviamo palesemente di fronte a due fenomeni in
formazione:
- una contrazione della crescita mondiale;
- la crescita impetuosa e senza sosta dell'economia americana e soprattutto
della finanza.
In poche parole ci troviamo di fronte a un pericolosissimo scollamento, del
tutto inedito, tra crescita dell'economia reale e crescita finanziaria. Ma
anche un controllo totale da parte di un qualche potere mondiale
comporterebbe decisioni, misure, correzioni che non sempre potranno essere
piacevoli, che non necessariamente implicheranno atterraggi morbidi. E se
quelli che stanno sul ponte di comando hanno visto tutto questo, ed e'
impossibile che non l'abbiano visto, non puo' non essersi affacciata loro la
domanda su come spiegare agli elettori americani che qualche cosa di
spiacevole potrebbe accadere presto, che il livello di consumi cui sono
abituati, nel quale sono cresciuti, non e' sostenibile indefinitamente.
Come si potra' imporre al resto del mondo, quando la crisi si affaccera'
minacciosa, il mantenimento, anzi, l'accentuazione di un sistema di
distribuzione diseguale della ricchezza mondiale a vantaggio di un quinto
dell'umanita', non in condizione di espansione, ma di contrazione dei ritmi
di crescita, cioe' in condizioni non di consenso, ma di crescente
dissenso?".
Quando scrivevo queste cose era in corso la guerra in Kosovo. In quel
momento gli Stati Uniti, con l'Europa consenziente, cambiavano le regole del
gioco. Proprio in quel momento a Washington si riuni' la Nato e cambio' le
regole della Nato: cambio' i confini d'intervento della Nato, cambio' i
metodi di applicazione delle norme difensive, quasi che nel 1999 gia' si
subodorasse cio' che sarebbe accaduto due anni dopo. Tutto quello che e'
stato applicato in questa ultima crisi e' stato preparato nel 1999, a
conferma del fatto che qualcuno ha programmato molte delle cose che stanno
accadendo. Io uso il termine "ponte di comando" perche' sono convinto che ci
sia un gruppo di comando che sta piu' in alto persino del presidente Bush,
composto da un gruppo ristretto di uomini che hanno le cifre vere dello
sviluppo mondiale e che sono abbastanza intelligenti da capire dove portano.
Forse non sono abbastanza intelligenti da avere una soluzione per questi
problemi. Sono un gruppo di uomini che sfuggono ad ogni controllo, che
conoscono le cifre del disastro e che sta trovando una soluzione, la piu'
brutale, terrificante e drammatica: quella di difendere l'America di fronte
a tutto il mondo, costi quello che costi.
Noi ci troviamo in questo punto esattamente. Credo che questa sia la ragione
vera di quello che sta accadendo. La ragione geopolitica della guerra in
Afghanistan e' secondaria. Il fatto che la crisi sia esplosa in Afghanistan,
cioe' nel luogo del cosiddetto "grande gioco" non deve ingannare: la
questione del controllo delle risorse e' una questione importante, ma e'
faccenda del tutto subordinata. Il punto centrale e' che e' finita una parte
della globalizzazione non piu' controllabile; chi ha costruito questa
globalizzazione capisce che non ha piu' gli strumenti per gestire il sistema
economico. Lo strumento del costo del denaro si e' rivelato non funzionale:
gli americani hanno abbassato il tasso di sconto otto volte nel corso di un
anno. Anche in Europa stiamo spingendo verso il basso, ma non si riesce a
riprendere perche' siamo di fronte a una crisi di sovrapproduzione di
proporzioni tali che ci vuole ben altro. Tutta l'economia mondiale si regge
sostanzialmente sui consumi degli americani. Se i consumi degli americani si
contraggono i primi a soffrire una crisi drammatica saranno tutti i paesi
del sud-est asiatico e poi tocchera' anche a noi. Quindi siamo di fronte a
una situazione in cui, sia le misure monetarie, che le misure fiscali non
funzionano piu' perche' questo meccanismo di sviluppo ha portato a una
situazione riassumibile in questo dato: da qui al 2004 si dovrebbero
produrre 85 milioni di automobili e si sa gia' che non se ne riuscira' a
vendere piu' del 40-50%.
La conseguenza e' che diventa necessario sostituire l'egemonia dovuta allo
sviluppo con una militarizzazione del dominio imperiale e la fine dello
stato di diritto. Questo e' quello che sta accadendo dopo l'11 di settembre.
La versione che ci e' stata offerta dell'11 settembre, che e' passata nelle
teste di miliardi di uomini su questo pianeta, non e' vera, o e' talmente
deformata da non essere vera.
La prima questione e' che ci troviamo di fronte a una militarizzazione del
dominio imperiale sul piano planetario e alla fine dello stato di diritto
internazionale, sostituito con l'assoluta, completa arbitrarieta' delle
decisioni della metropoli imperiale americana.
Negli Stati Uniti e' gia' stata approvata la legge per l'istituzione di
tribunali militari, speciali, con giudici esclusivamente americani,
abilitati a crearsi, costruirsi e funzionare fuori dei confini americani per
giudicare cittadini non americani, in termini segreti, cioe' con nessuna
esibizione di prove ed accuse contro gli accusati e in grado di
somministrare pene capitali fuori dei confini degli Stati Uniti. Voi capite
bene che questa norma significa la fine di ogni sovranita' nazionale, ma
anche di ogni stato di diritto.
Se questo e' il contesto noi dobbiamo capire che la battaglia per una mondo
diverso e sostenibile si fara' istituzionalmente e politicamente molto piu'
difficile.
L'11 settembre ha avviato in molte parti dell'Occidente una riflessione che
sarebbe stata impensabile prima dell'estate di quest'anno. Anche negli Stati
Uniti si e' cominciata una riflessione: una parte dell'intellighenzia
americana e delle elite politiche cominciano a rendersi conto della
difficolta' di gestire il mondo con questo criterio.
L'altra cosa che ritengo importante e' che gli sviluppi della crisi attuale,
molto accelerati, possono aprire ampi varchi per un movimento mondiale di
contestazione alla guerra e alla militarizzazione del dominio imperiale. Io
ritengo che la scelta che e' stata fatta di aprire la guerra in Afghanistan
in quel modo e' una scelta disperata, non razionale. Chi l'ha presa non ha
una strategia di lungo periodo, o meglio, ha la strategia di medio corto
periodo di avviare una nuova svolta militarizzata del dominio imperiale, ma
non ha una strategia, non sa come uscirne. Sono state messe in mezzo dall'11
settembre masse sterminate, 1 miliardo e 300 milioni di musulmani sono stati
gettati in questa guerra, che sta gia' diventando davvero uno scontro di
civilta', perche' viene vissuto come scontro di civilta', sia da noi che da
loro. Non era uno scontro di civilta', lo e' stato fatto diventare uno
scontro di civilta'. Questa guerra si sta dilatando nel mondo; loro pensano
di poterla controllare con la potenza militare, ma io dubito che siano in
grado di farlo perche' hanno messo in moto delle forze superiori alle loro
capacita' di controllo. In questo sta l'enorme pericolo di oggi: dobbiamo
renderci conto che siamo nelle mani di un gruppo di semicriminali disposti a
gettarci in una fornace perche' non ha vie di uscita e perche' non puo'
invertire semplicemente la rotta (non ci sara' nessun presidente degli Stati
Uniti e neanche nessun dirigente Europeo che avra' il coraggio di alzarsi in
un'assemblea o in una televisione e dire ai suoi sudditi "Cittadini, noi
abbiamo vissuto negli ultimi trent'anni al di sopra delle nostre
possibilita', abbiamo creato un mondo dove non si puo' sopravvivere e
bisogna cambiare"). Questa gente ci sta portando al massacro senza avere
nessuna prospettiva diversa. Questa e' la pericolosita': perche' se ci fosse
un leader in questo ponte di comando capace di spiegarci dove ci vuole
portare, alla fine potrei anche decidere di mettermi una casacca americana,
ma la realta' e' che non c'e', ma vedo solo uomini ciechi e assolutamente
politicamente irresponsabili(ma guardate la biografia di Bush: questa e' la
gente che ci sta portando al massacro).
Noi dobbiamo fare un salto di qualita' per capire la drammaticita' assoluta
della situazione in cui ci troviamo. Piu' gente ci sara' che prova un
brivido nella schiena come io provo un brivido nella schiena dopo aver fatto
quest'analisi, meglio sara', perche' c'e' ancora un mare di gente che
ritiene che questa sara' una delle tante crisi dalla quale noi usciremo piu'
o meno come e' avvenuto in passato.
Quindi informare, allarmare, inquietare e' un punto fondamentale. Io ho
deciso di non fare il politico e non vengo qui a portare speranze: non lo
faccio, programmaticamente. Se qualcuno ha delle speranze lavori perche'
queste speranze si realizzino. Io mi limito a dire lo scenario e, se
possibile, a dimostrarlo.
Ultimo punto, centrale, dell'informazione. Innanzitutto ritengo che non ci
sarebbe questa globalizzazione se non ci fosse stata una trasformazione
radicale nel sistema della comunicazione mondiale. Il mondo in cui viviamo
e' un mondo ormai unificato da un possente sistema di comunicazione: questa
e' una novita' assoluta nella storia dell'umanita' e crea uno scarto
radicale rispetto a tutti i processi di globalizzazione precedenti. Questa
caratteristica nuova comporta che una piccolissima minoranza di persone puo'
decidere dei sentimenti di 4-5 miliardi di persone. E se questo sistema non
viene democratizzato noi siamo totalmente indifesi, perche' possiamo dirci
quello che pensiamo qui dentro, ma in un solo colpo Bruno Vespa informa
della versione ufficiale (una sola) 6 milioni di persone.
Dobbiamo dunque organizzarci, costruire delle organizzazioni che comincino a
mettere i mass media nella loro collettivita' sotto scrutinio, li
analizzino, chiedano ai giornalisti di rendere conto di quello che scrivono
perche' siano nuovamente responsabilizzati.
Ciascuno di noi e' solo di fronte ai giornali che compra o alla televisione
che guarda; esempio: tutto il mondo occidentale pensa che a Kabul le donne
si sono tolte il burka e che tutti gli uomini afghani si sono tagliati la
barba. Ebbene, queste due notizie, che sono state le notizie cruciali dopo
la conquista di Kabul da parte dei mujaheddin tagiki, sono false. Chiunque
lo capisce: le donne in Afghanistan hanno ancora il burka e continueranno a
tenerlo per molto tempo, perche' non e' un bombardamento che cambia i
costumi, che piaccia o non piaccia. Ma tutti i giornali hanno messo questa
notizia, la quale dice, senza dire, che nel momento in cui i bombardamenti
americani sono stati efficaci perche' hanno costretto i talebani ad
andarsene da Kabul, e' arrivata la liberta', e la liberta', ve lo
dimostriamo, significa togliere il burka. Tutto questo e' un calcolo
politico, che non e' stato comandato da nessun ordine esplicito, ma che
tuttavia, di fatto, e' stato fatto dal direttore di Repubblica, della
Stampa, del Corriere, dal direttore di tutti i telegiornali italiani. Come
mai? Perche' c'e' una legge non scritta e tutti la capiscono al volo. Sanno
cosa devono dire senza che nessuno glielo dica.
E' un meccanismo formidabile, che funziona automaticamente e ci determina
totalmente: gusti, costumi, idee... perche' esiste il campo di forza del
sistema mediatico, che ha le sue regole e queste regole stanno portando il
mondo in una strada senza uscita.
Io ritengo che Porto Alegre e tutte le tappe successive di questo movimento
potranno essere incisive se noi contemporaneamente capiamo che abbiamo
bisogno di aprire una discussione di massa sul sistema mediatico. Il minimo
risultato che possiamo ottenere e' di moltiplicare la quantita' di persone
che saranno capaci di dotarsi di un apparato critico per analizzare quello
che succede.
Per fare questo dobbiamo costruire un'organizzazione capace di portare
sistematicamente in modo massiccio, multilaterale, diffuso la coscienza
critica nei confronti del messaggio mediatico

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