Benedetto avrebbe voluto amare il Natale, ma non ci riusciva.
Ogni volta che si avvicinava Benedetto lo aspettava come una festa magica, di luci e serenità. Di amore. La festa dello spirito. La festa della famiglia, dei desideri che si avverano.
Ma lo spirito alla fine soccombeva sempre soffocato dalle tentazioni del consumismo.
Da quando aveva passato i quindici anni nessuno gli faceva più regali; con la scusa che a una certa età non sai più che regalargli, a Natale Benedetto anziché pacchetti di regali riceveva bustine con i soldi.
Benedetto continuava sempre ad aspettarsi la magia e la serenità che doveva portare con sé il Natale, ma di fatto il Natale si rivelava ogni anno come la festa delle corse, dell’affanno e dell’ipocrisia.
Corse per fare il presepe sempre all’ultimo momento, perché i genitori lavoravano fino a due giorni prima della vigilia, e in quella famiglia c’era l’uso di fare un presepe che assomigliava più ad un plastico che ad una rappresentazione simbolica (anche qui stava, per Benedetto la magia del natale, il più fermo sostenitore del presepe-plastico, ma fare un plastico è più complicato che fare un presepio).
Corse per comprare i regali perché uno vorrebbe sì viverlo questo natale con più serenità ma sai come è, ho due nipotini piccoli che fai, non gli fai un pensierino?.
E allora giù a stressarsi e a stressare tutto il giorno, perché il ‘pensierino’ doveva corrispondere esattamente al desiderio espresso dal suddetto viziatissimo nipotino.
E cominciava ad odiarli questi nipotini. Si rendeva conto come il natale fosse solo per loro. Solo per i bambini. Loro che già avevano tutta la magia, si prendevano pure tutti i regali.
"Mi dispiace tanto Benedetto - gli disse la madre - ma quest’anno proprio non faccio in tempo a cercare un regalo per te - e gli diede cinquantamila lire - Comprati qualcosa che ti piace".
Benedetto quell’anno non ricevette nemmeno un regalo. I nipotini ne furono sommersi. Sua madre fece due regali per uno ai nipotini. Tra i regali c’era una scatola di Monopoli, e Benedetto si domandava che cazzo ci facesse un bambino di cinque anni con il Monopoli.
"Era in offerta speciale, e poi non ce l’avevano il Monopoli".
Io non ce l'ho mai avuto il Monopoli! pensò Benedetto.
Ripensava agli anni passati, e si ricordava che quando era piccolo tutti lo sommergevano di regali, anche i parenti dei parenti. Quando era uscito dall’infanzia ed entrato nell’adolescenza avevano cominciato a sostituire i regali con i soldi.
Poi erano spariti tutti i regali e quasi tutti i soldi.
Ora c’erano un paio di bustine di carta ad attenderlo a Natale. E basta. Ricevevano molti più regali i genitori, dai vari amici, parenti, cognati. Ma lui era in un età in cui non era abbastanza grande per essere adulto né abbastanza piccolo per rientrare nella categoria dei bambini.
Il natale non poteva più viverlo come magia perché non era più preparato per lui, ma non aveva ancora l’autorità per decidere come doveva essere organizzato (e far tornare magari la magia perduta).
Ma i genitori non avevano tempo per ascoltarlo, erano impegnati a fare le corse, corse, corse.
Corse per preparare pacchetti e pacchettini per parenti, amici, amici dei parenti e parenti degli amici.
La madre di Benedetto, con tutti gli acciacchi che aveva, piuttosto si sarebbe svenuta dalla fatica, ma comprò e impacchettò regali per TUTTI.
Regali per tutti tranne che per suo marito e per i suoi figli.
E ancora corse, corse, corse.
Corse per sbrigarsi a cenare di corsa per andare poi di corsa a messa puntuali a mezzanotte anzi un po’ prima sennò non troviamo posto seduti.
Rinfacci e insulti in ascensore e poi grandi sorrisi come si valca la soglia della porta di casa di nonna, poi di nuovo parolacce e polemiche fino al portone della chiesa, e poi via con sorrisi e battute spiritose e sguardi sorridenti fino alla fine della messa.
Ecco cos’era il Natale, per Benedetto.
Sembra brutto e incredibile a dirlo ma era proprio così!
(Però se vogliamo dirla tutta bisogna dire pure che quell’anno Babbo Natale non portò nessun regalo a Benedetto, ma la Befana gli portò un bel gioco da tavolo chiamato Vero e Falso mooolto più carino del Monopoli).
Era il settimo giorno prima delle calende di gennaio, giorno del Sol Invictus e tutta la popolazione di Interamna era riunita nel Tempio del Sole per il sacrificio rituale.
Adsio sedeva sul sedile di pietra, con gli altri, e osservava il tempio.
Era un alto cilindro costruito con pietre spugnose prese tra le rocce della Cascata. La gente entrava dall’unica porta e si sedeva lungo la parete circolare, in attesa del sacerdote. Chi non trovava posto tornava fuori e partecipava al rito osservando la scena attraverso alti finestroni posti lungo la parete. Al centro del circolo c’era un ara sacrificale, un altare ai cui angoli erano scolpite quattro teste di bue. Il cerchio umano che si chiudeva attorno all’altare creava un’energia che si percepiva nell’aria appena entrati nel maestoso edificio
.
Adsio guardava in alto. Il cilindro si chiudeva con un’alta cupola alla cui sommità era posto un foro circolare da cui penetrava un fascio di luce che invadeva l’altare.
Ci credeva in quel Dio, Adsio. Aveva smesso da tempo di credere in Giove, Giunone, Marte e tutte le favole dell’Olimpo. Aveva smesso di partecipare ai sacrifici per Saturno e per tutti gli altri dei. Solo superstizione, pensava Adsio. Nessuno ci credeva veramente in quelle storie, in quei pettegolezzi sugli dei. Era chiaro a tutti che si trattava di un mondo divino fatto a misura di quello umano. Con bugie, tradimenti, rivalità e guerre.
Erano solo storie da raccontare, e i sacrifici semplici scongiuri per cacciare la cattiva sorte.
Ma il Sole no, quello era un Dio Vero. Lui era completamente diverso dagli altri dei, e completamente diverso dagli uomini. E non era un Dio astratto come quello degli Ebrei, che non si sapeva dov’era, o come quello dei Cristiani, che si sarebbe fatto uomo in tempi ormai lontanissimi. Lui era là, nella sommità del cielo. Tutti gli uomini lo potevano vedere, e tutti gli uomini ne sperimentavano ogni giorno la potenza.
A lui gli uomini dovevano la luce e il calore. Senza di lui non crescevano piante, non nascevano gli animali. Senza di lui l’uomo era perduto. Il freddo lo assaliva e nelle tenebre non poteva muoversi, non poteva difendersi dai pericoli né vedere quello che lo circondava.
Quanto più lui era lontano tanto più la vita era difficile per l’uomo. Durante l’Inverno si allontanava e il freddo aumentava e le ore di luce erano più corte e il cibo non c’era.
Questo si festeggiava nel venticinquesimo giorno del mese di dicembre. La rinascita del Sole, il ritorno della luce, dei fiori, del caldo.
Dei rumori e delle grida distrassero Adsio dai suoi pensieri. Alcuni uomini erano entrati nel tempio portando un capretto che si dimenava disperatamente.
Tornò a guardare la cupola, e il fascio di luce che entrava dal foro.
Era un Dio strano. La cosa più bella e potente che si potesse ammirare nella volta celeste. Eppure ogni giorno si spegneva lentamente, scendeva dalla vetta del cielo e cadeva sotto la terra, e moriva. E ogni giorno resuscitava sorgendo all’orizzonte per salire ancora sul suo trono nel cielo. Una passione e una gloria che si rinnovavano ogni giorno, ogni anno. Ogni notte la Luna si faceva portatrice della speranza in un giorno nuovo, ogni giorno l’appassire della luce era l’annuncio di una notte che sarebbe arrivata. Ogni estate si passava nel calore e nella luce aspettando con timore il gelo dell’inverno. Ed ogni duro inverno si affrontava coraggiosamente nella certezza di una nuova estate.
Arrivò il Sacerdote e iniziò la cerimonia. Aiutato da due uomini sgozzò l’agnello. Poi lo pose su un letto di paglia e gli diede fuoco.
L’assemblea intonò canti e preghiere e il fumo salì in alto, fino alla cupola, uscì dal foro e continuò il suo cammino, fino a raggiungere il Sole, che avrebbe ringraziato donando agli uomini una nuova primavera, ancora luce, ancora caldo, ancora vita, ancora speranza.
Babbo Natale testimonial della Coca Cola
Quell’anno i dirigenti della Coca-Cola decisero che per lanciare la nuova bibita analcolica sotto le feste di natale ci sarebbe voluto un testimonial d’eccezione.
Così decisero di assoldare Santa Claus, o Papa Noel, o come lo volete chiamare. Non importava se si chiamasse San Nicolaus e venisse dall’Italia, o se il suo vero nome fosse Joulu Pukki e vivesse in Finlandia. L’importante era che c’era un vecchio che ogni anno a Natale portava i regali ai bambini buoni (o ai bambini ricchi, fate voi) e non ci sarebbe stato sponsor più efficace per ottenere un successo più grande.
Così invitarono il vecchio che si presentò nell’ufficio dei dirigenti con il suo solito abito beige di pelle con bordi di pelliccia grigia. Decisero che per prima cosa dovevano rinnovare completamente il suo Look. Così gli fecero un vestito nuovo di zecca rosso e bianco, i colori della Coca Cola.
Le pubblicità ebbero un tale successo che da un lato contribuirono a rendere l’innovativa bibita la più popolare bevanda del mondo, dall’altro diedero popolarità al vecchio che diffuse la sua fama in tutto il mondo soppiantando rivali come Santa Lucia, la Befana e Gesù Bambino.
La collaborazione fu così redditizia per entrambi che da allora il Babbo ha continuato ad indossare in tutte le sue apparizioni, milioni di migliaia in tutto il mondo, il vestito con i colori della Coca Cola, lasciando stampata, nell’immaginario collettivo la sua figura con il vestito rosso e bianco.
Quest’anno, dopo novant’anni di collaborazione il suo contratto con la Coca Cola è scaduto. E così il vecchio, inebriato dall’improvvisa libertà di contratto, se ne va in giro sperimentando nuovi look e nuovi sponsor, e così si veste di giallo per Strega, di blu per la Motta, di verde per Infostrada.
Il fratellino di Mori era morto qualche giorno prima di Aids. Forse anche lui era infetto; non poteva saperlo perché nel suo villaggio non c'era la possibilità di effettuare il test, non c'era nemmeno la possibilità di curarti quando stavi male, perché non c'era un ospedale ed era difficile far arrivare un dottore fino al suo villaggio. Era difficile farci arrivare anche l'acqua, al suo villaggio. Quella che invece non mancava mai, anche nel suo villaggio, era la Coca-Cola. Costava solo 25 lire a lattina ed era buona. Certo, metteva un po' di sete, ma era buona.
Mori imbracciò la stampella e si incamminò. Ci sarebbe voluta mezza giornata per arrivare fino alla Chiesa e la strada era faticosa con una gamba sola (e malediva ancora la sua curiosità ingenua nel prendere in mano quel giocattolo che nascondeva la mina) ma ne valeva la pena: già assaporava la lunga celebrazione che lo aspettava: il Vangelo, i canti, la croce, il prete, la speranza; la festa.
C'era le neve a Greccio.
Da tutte le contrade la gente era arrivata con ceri e fiaccole alla grotta per illuminare quella sera così importante.
La notte era illuminata da miliardi di stelle e solo una mancava perché il cielo fosse come quella notte di mille anni prima.
Nella grotta erano stati posti un bue e un asinello, e in mezzo una greppia piena di paglia.
Francesco era chinato in ginocchio davanti a quella greppia. Tutta la gente del posto si era inginocchiata, seguendo l’esempio di Francesco, di fronte alla mangiatoia riscaldata dal fiato dei due animali.
Quando fu mezzanotte Francesco alzò il volto e fissò la mangiatoia, e gli sembrò di vedere un bambino, disteso su quella mangiatoia.
Gli vennero le lacrime agli occhi e il volto divenne tutto un sorriso, cominciò a cantare pieno di gioia.
Dio si era fatto bambino. La più grande e potente entità dell’Universo era diventata la creatura più piccola e indifesa che ci fosse al mondo. E tutto questo lo aveva fatto per amore dell’uomo.
Francesco non riusciva a trattenersi, aveva voglia di saltare dappertutto di baciare e abbracciare tutti i presenti, perché questa era una cosa bellissima.
"Oggi è nato il Salvatore!" disse alla gente che era con lui. Erano decine e decine di persone e lo ascoltavano in silenzio.
"Oggi è nato il Bambino di Betlemme, è nato in una grotta, al freddo e al gelo, perché non c’era posto per lui in albergo.
A Betlemme è nato Cristo Gesù!" annunciò gridando tutto contento.
Ripeteva la parola Betlemme e ci si riempiva la bocca di voce e di affetto. Il suono che ne usciva sembrava un tenerissimo belato di pecora.
E ogni volta che diceva Bambino di Betlemme o Gesù si passava la lingua sulle labbra, come se volesse gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
"Dove è al mondo umiltà più grande? - diceva - Di un Dio che si fa uomo?
Tutti noi vorremmo essere grandi, buoni, potenti, e saggi come Dio. Cos’altro è, altrimenti, il peccato originale? Se non l’invidia dell'Onnipotente, Onniscente, Onnipresente? L’aspirazione ad essere sempre più grandi, a mettersi al posto di Dio! E Dio si è messo al posto nostro! Lui, l’essere più perfetto, si è fatto uomo, l’essere più imperfetto!
Tutti noi impieghiamo tutta la nostra vita cercando di essere sempre più potenti, più ricchi, più colti, più buoni, più saggi, più perfetti. E la perfezione si è fatta imperfetta. L’essere sommamente ricco, potente, colto e saggio si è fatto uomo come noi, con tutte le debolezze e i limiti che abbiamo, perché noi potessimo toccarlo, guardarlo, conoscerlo. Si è messo al nostro livello per farci capire meglio.
È nato bambino come noi, è cresciuto, ha imparato, è stato sgridato dalla mamma esattamente come noi. Ha avuto paura e si è arrabbiato, ha sofferto e ha riso come noi.
Ha parlato la nostra lingua, ci ha spiegato la Verità con la pazienza di un padre che si mette in ginocchio per parlare con il suo bambino.
Ma questo non gli bastava. Egli era Re dell’Universo, e sarebbe stato giusto che il figlio di Dio nascesse in una reggia, erede al trono del più grande dei regni della terra, e tanto sarebbe stato nulla in confronto al regno che aveva in cielo. Ma no! Gesù voleva dimostrarci che la gloria di Dio è ben diversa da quella degli uomini! Egli è nato figlio di un umile falegname qualsiasi, e guardate dove è nato! Egli è nato ultimo fra gli ultimi!".
Francesco si avvicinò alla mangiatoia e guardò il suo bambino con tenerezza. Gli sistemò la paglia e si voltò commosso.
"Fratelli! Oggi siamo testimoni di un grande miracolo! Non siamo più soli, da oggi! Dio è nato, ed è qui con noi!".
E a tutti sembrava di vederlo, quel bambino steso sulla mangiatoia infreddolito dal gelo dell’inverno e scaldato dal fiato degli animali.
Seduta su quella strana sedia mezza inclinata, con le gambe larghe, nude, senza mutandine.
La stanza era fredda. Fredda come le pareti bianche che la circondavano. Fredda come la luce a neon che illuminava con indifferenza quella camera.
Laura aspettava.
Pensava a come era arrivata a quella drammatica decisione.
Pensava alla faccia di Fabio, quando gli aveva detto che aspettava un bambino.
Pensava alle parole di quel vigliacco, a come era fuggito dalle sue responsabilità.
Pensava a quella cosa che aveva dentro.
Cercava di immaginarselo come una specie di virus da eliminare.
Cercava di non pensare ai volti di tutti i neonati che aveva visto in quei diciannove anni e si augurava, pregava il signore con tutto il cuore di dimenticare quel momento, quando avesse visto nuovamente un bambino appena nato.
Voleva solo guarire.
Pensava a suo padre, a quello che le avrebbe fatto se avesse scoperto che era incinta.
Pensava alla madre, al dolore che le avrebbe dato.
E pensava cosa avrebbe pensato ora, se avesse saputo quello che stava facendo. Si sarebbe uccisa dal dolore, forse.
Pensava anche, con amarezza, che in realtà, forse, in fondo al suo cuore la madre avrebbe preferito così; che era meglio che l’errore fosse riparato nel silenzio piuttosto che Laura diventasse una ragazza madre gettando il disonore su tutta la famiglia.
Pensava ai bastardi ipocriti moralisti benpensanti che l’avrebbero chiamata assassina. E sentiva quelle voci risuonare nella sua testa, ricordava tutti i discorsi contro le donne omicide che abortiscono.
Assassina!
Assassina!
E aveva tanta voglia di piangere.
"Cosa volete saperne - pensava - di quello che sto passando io in questo momento? - e piangeva - E' facile per voi, brave persone, giudicare! Mi condannate in nome della Religione che dice Non Uccidere, buoni cattolici, ma dimenticate che è scritto anche NON GIUDICARE".
E poi pensava a quelli che la giustificavano, che la difendevano, a coloro che l’avevano incoraggiata in quella scelta terribile convincendola che non c’era un’altra soluzione
non c’era un'altra soluzione
Pensava a quelle cretine, idiote imbecilli e superficiali femministe del cazzo che propugnavano l’aborto come un diritto sacrosanto, perché l’utero è mio e me lo gestisco io, coloro che avevano fatto di un dramma così orribile uno strumento e un simbolo per una lotta sociale.
Coloro che le avevano detto che era una cosa da niente, un piccolo intervento che ti elimina un grosso problema.
Tanto lontane dal suo dramma quanto coloro che la condannavano senza pietà.
Avrebbe voluto mandare tutti quanti a fanculo.
Cosa ne volete sapere
continuava a ripetersi
cosa ne volete sapere...
cosa?
Prese a singhiozzare e i suoi singhiozzi risuonavano nella stanza vuota tra le pareti bianche e fredde come il ghiaccio illuminate da una lampada a neon altrettanto fredda e inespressiva.
Sentì dei passi. Stava arrivando qualcuno.
Proprio quel giorno i telegiornali avevano dato la notizia di un terrorista arrestato mentre tentava di far esplodere una bomba in un aereo appartenente alla stessa linea di quelli finiti dentro le Torri Gemelle. Il presidente Arafat non poteva recarsi a messa a Betlemme con la moglie cattolica perché Sharon lo teneva confinato a Ramallah; ennesimo schiaffo al dialogo, mentre israeliani e palestinesi continuavano ad insanguinare la Terra Santa con l'esercito e con il terrorismo. In Afghanistan Santa Claus ai bambini portava viveri che sembravano bombe e bombe che sembravano viveri. A Omar avevano massacrato tutti e dodici i suoi familiari: gli americani erano convinti che nel suo villaggio si nascondessero dei terroristi: su 200 abitanti ne avevano uccisi 150, di cui 50 bambini. Pina ascoltava incredula ed esterrefatta la cassiera di Upim: come sarebbe a dire che il Game Boy di Harry Potter che ho prenotato più di due settimane fa non è arrivato? Mi avevate assicurato che per la vigilia di Natale sarebbe arrivato! Avevo lasciato anche un acconto di cinquantamila lire! Come sarebbe a dire che la colpa non è vostra ma della Sony? Come sarebbe a dire che per avere il rimborso devo aspettare che arrivi la cassiera con cui avevo parlato l'altra volta? Scorrettezza che si aggiunge alla scorrettezza! E ora cosa gli faccio trovare sotto l'albero al mio povero bambino?
"Bene, allora per favore mi dà il suo nome, quello dell'altra cassiera e il numero della direzione, per favore".
"Viale Trieste", bimestrale del Dipartimento di Salute Mentale dell'Asl di Terni. Nel numero 7 vengono pubblicati racconti, poesie e articoli di uomini e ragazzi residenti nelle varie comunità terapeutiche. C'è anche un racconto di Mirko, 45 anni, ex poliziotto:
Era la notte di Natale e io volevo comprare un panettone e un torrone per i miei genitori ma persi i soldini lungo le strade innevate di Terni. Ad un tratto mi si avvicinò un uomo che mi disse: "So che non hai i soldi per i dolci di Natale, così i doli, te li voglio regalare io". Disse queste parole guardandomi negli occhi con dolcezza e soltanto allora mi resi conto che quell'uomo, con la barba ghiacciata per il gran freddo, era mio padre. Gli dissi: "Papà, non mi riconosci?". Piangendo lui mi guardò e rispose che il Natale era arrivato ma che lui, quella stessa notte, sarebbe partito per u n viaggio senza ritorno e, come ultimo regalo, mi voleva far trovare sotto l'albero una principessa, una bellissima principessa tutta per me. E mentre la neve scendeva lenta e profumata mio padre si allontanò in braccio alla sua stella cometa.
La notte era calata sulla città.
La luna e le stelle si confondevano nel cielo con le mille altre luci, le mille altre stelle colorate.
Le strade erano quasi deserte. Tirava un vento leggero che spostava tutti i volantini e le cartacce sparsi sulla strada.
Nelle case le famiglie finivano di cenare e i bambini cominciavano ad aspettare l’arrivo di Babbo Natale.
Isabella continuava a camminare; non aveva mangiato ma non aveva fame.
La città era molto silenziosa in quel momento.
Arrivò in una piazza e c’era una grande basilica.
Entrò da una porta laterale.
Erano spente quasi tutte le luci e la grande chiesa era avvolta nella penombra.
La chiesa era deserta. Solo in fondo all’abside un gruppo di ragazzi provava i canti per la messa di mezzanotte.
Isabella camminava lentamente guardandosi intorno e i suoi passi sul pavimento liscio di marmo risuonavano tra le navate.
Si fermò su una cappella laterale.
C’era un grande quadro di una madonna con il bambino.
Si pose proprio davanti al quadro e si inginocchiò. Si accucciò.
Chinò la testa e chiuse gli occhi.